Vecchio dialetto
Vecchio dialetto che hai nel tuo sapore
un gocciolo del latte di Eva,
vecchio dialetto che non so più,
che mi ti sei estenuato
giorno per giorno nella bocca (e non mi basti);
che sei cambiato con la mia faccia
con la mia pelle anno per anno;
parlare povero, da poveri, ma schietto
ma fitto, ma denso come una manciata
di fieno appena tagliato dalla falce (perché non basti?) –
nonni e babbi sono andati, loro che ti conoscevano,
nonne e mamme sono andate , loro che ti inventavano
nuovo petèl * per ogni figlio in fasce (*parlare infantile)
tra gli stenti, le grida di parto, la fame, le nausee.
Girare mi da fastidio, in mezzo a queste macerie
di te, di me. Dal dente accanito del tempo
avanzi non restano nel piatto, e meno
di tutto i cimiteri: devo dirti cimitero ?
E’ vero che non può esserci più ormai
nessun parlare di nenè – nonne – mamme? Che fa male
ai bambini il petèl e gran maestri lo sconsigliano?
E’ vero che scriverti,
vecchio parlare , è troppo faticoso, è un male
anche per me, come prendere a rovescio,
per obliquo, far slogare i tendini delle mani?
Ma intanto qui intorno, girando per i mercati,
o meglio andando per campi e clivi e balze
là dove il gallo di cristallo canta sempre tre volte,
da giuste bocche ti si sente. Io ho perduto la traccia,
sono andato troppo lontano pur rimanendo qui
avvitato, imbullonato, diventato quasi un ceppo di piombo,
e la poesia non è in nessuna lingua
in nessun luogo ‐ forse – o è il mugghiare del fuoco
che fa scricchiolare tutte le fondamenta
dentro la grande laguna, dentro la grande lacuna‐,
è il pieno e il vuoto della testa – terra
che tace , o ammicca o fiuta un passo più oltre
di quel che mai potremmo dirci, far nostro.
Ma tu vecchio parlare, persisti. E seppur gli uomini
ti dimenticheranno senza accorgersene,
ci saranno gli uccelli‐
due tre uccelli soltanto magari
dagli spari e dal massacro volati via‐:
domani sull’ultimo ramo là in fondo
in fondo a siepi e prati,
uccelli che ti hanno appreso da tanto tempo,
ti parleranno dentro il sole, nell’ombra.