A' Mbriana - La principessa di mezzodì
Fiaba, "cunto" per tutti. Quando la fantasia cerca di dare dignità a un personaggio misterioso e sfuggente, una tipica figura trascendente del pantheon segreto dei napoletani.
Tanto, tanto tempo fa, nella millenaria città di Napoli vi era un fabbro che in gioventù era stato in Terra Santa, addirittura al servizio dei famosi cavalieri Templari. Venuto a contatto con i costruttori Arabi imparò da loro alcuni segreti alchemici che gli permisero di trattare i metalli in modo innovativo, e di forgiare spade, alabarde ed asce con una capacità di taglio e una resistenza tale da non avere l’eguale in tutto il regno.
Per questo motivo era molto conosciuto e rispettato dalla ricca nobiltà e persino il re lo aveva in grande considerazione.
Grazie alla sua abilità, il fabbro riusciva a mantenere la sua famiglia in una certa agiatezza ed essendo uomo di grande esperienza era ben accetto persino nelle case dei nobili per svolgere il suo lavoro, per aggiustare forbici, per consigliare cavalieri. Al mastro capitava perfino di visitare perfino la reggia, dove era conosciuto e benvoluto da tutta la servitù.
Un giorno, recatosi a corte per effettuare degli esperimenti sui ferri dei cavalli e renderli più leggeri ma senza perdere robustezza, portò con sé il figlio.
Il ragazzino, annoiato dall’attesa, iniziò a gironzolare per i giardini e le serre e alla fine si perse, capitando proprio nella parte del giardino più colorata per i fiori bellissimi e attrezzata con giochi di legno, come altalene, cavalli a dondolo e altre amenità. Era capitato nel giardino privato della piccola principessa Aurora, che stava giocando da sola ma sorvegliata amorevolmente dalla nutrice e da alcune giovanissime ancelle.
Quando la nutrice riconobbe Donato, il figliolo del fabbro, lasciò che si avvicinasse senza preoccuparsi eccessivamente, anzi felice che la sua padroncina potesse godere per qualche minuto di un compagno di giochi; a palazzo in quel periodo non c’erano coetanei adatti a tale ruolo.
La reggia era grande e conteneva le guarnigioni dei militi: un fabbro di valore doveva recarsi spesso per molteplici attività, anche per istruire gli operai delle officine reali.
Così capitò che anche suo figlio lo seguiva per avere l’opportunità di giocare e discorrere con la bella Aurora.
I ragazzi crebbero in amicizia finché lei divenne un’ambita futura regina, mentre Donato, giovane e aitante, un po’ a seguito del mestiere paterno, un po’ perché cresciuto e istruito tra armigeri e cavalieri, divenne un grandissimo esperto dell’uso delle spade e delle altre armi usate all’epoca.
Donato era un bravissimo ragazzo, amato perfino dai reali stessi ma purtroppo non aveva alcun titolo nobiliare, né tantomeno era ascrivibile alla rosa dei pretendenti alla mano della principessa che, oltre al titolo e alle ricchezze, dovevano risultare idonei anche per la “ragion di stato”.
Per questi motivi, nonostante l’amicizia infantile si fosse tramutata segretamente in un grande amore, il sogno di poter sfuggire alle regole dell’aristocrazia era del tutto impensabile, all’epoca come a tutt’oggi.
E non solo… mentre negli anni giovanili questa comunione di intenti tra i fanciulli passava quasi inosservata, ora che Aurora si era fatta una splendida ragazza ed era un’importante principessa, la situazione era diventata intollerabile per tutta la corte. Inoltre il gagliardo e indomito Donato ora era apertamente odiato da lacchè e pretendenti, anche a causa dell’invidia per le sue qualità di spadaccino.
Solo Aurora, ormai, lo amava teneramente e soffriva degli ostacoli sempre più rigidi interposti tra loro.
Nonostante tutto il re era un uomo buono e saggio, e non aveva cuore di vedere sempre più disperata la figliola, infiammata dalla passione per Donato; egli stesso ammirava il giovane per tanti motivi, pure in quanto prezioso conoscitore dell’arte del maneggiare le armi.
Per questo cercava sempre di essere bonario nei confronti della famiglia del fido fabbro, lasciando che Donato fosse spesso presente nei giochi e nei tornei, chiudendo un occhio alle pur brevi opportunità di potersi almeno incrociare con l’amata Aurora.
Ma il tempo passava inesorabile e alla fine, un brutto giorno, non fu più possibile sottrarsi ai rigidi doveri della politica reale: la principessa divenne la promessa sposa di un re d’oltremare adulto, astuto e potente.
Da quell’istante a corte si scatenò l’inferno: Aurora divenne una furia, si ribellò, minacciava, si disperava e assolutamente non voleva saperne di quell’unione, sia per il disprezzo che provava per il pretendente sia per l’amore che la legava a Donato.
Comunque non esistevano vie d’uscita: la ragion di stato richiedeva il sacrificio della fanciulla, per mantenere i traballanti equilibri del regno e pure per evitare una possibile guerra che sarebbe nata dall’annullamento delle nozze, un’offesa inaccettabile per il futuro genero e per il suo paese.
Aurora, in quel periodo di dolore e di lotta, divenne acida e imparò a diffidare perfino della sua stessa famiglia; da un incontro segreto con Donato scaturì un’idea estrema ed avventata. Una sera prestabilita sarebbe fuggita da palazzo per passare la notte col suo amato e per donargli la sua verginità, quindi avrebbe trovato rifugio presso la casa del fabbro con la speranza che il re, messo d’avanti al fatto compiuto, avrebbe accettato suo malgrado di concedere la figlia a Donato.
Ma il principe promesso sposo era un uomo adulto e scaltro, dalle sue spie prezzolate aveva conosciuto i retroscena della famiglia reale, primo fra tutti la passione che legava la sua futura moglie ad un miserabile fabbro. Il solo pensiero di dover rivaleggiare con un pezzente senza titoli lo riempiva di odio per quella famiglia tanto debole e senza principi.
Con questo spirito, iniziò una sorveglianza meticolosa riguardo ad ogni azione che riguardasse Aurora e di conseguenza venne a conoscenza dell’intento dei due amanti. Per la sua mentalità aristocratica l’atteggiamento della principessa risultava una vera e profonda offesa alla sua dignità e al suo casato…
Ignari di essere sotto controllo, una domenica nel primo pomeriggio Aurora travestita da popolana s’incontrò con Donato e insieme, attraverso il labirinto di vicoletti di Napoli, si rifugiarono nella grande officina paterna. Lì, nei locali del seminterrato era stata ricavata una stanzetta con un giaciglio d’emergenza che serviva a chi, a volte, era costretto a rimanere presso la fonderia per motivi di manutenzione.
Solo la sua ancella più fidata, cresciuta praticamente con la principessa, conosceva le intenzioni degli amanti. Così, col buio, raggiunse il loro rifugio e narrò ad Aurora le ultime nuove sulle ripercussioni drammatiche seguite alla sua fuga. Il re e la regina erano terrorizzati dal gesto sconsiderato della figlia, o peggio ancora dall’ipotesi di un rapimento; tutta la corte era in subbuglio e lo stesso promesso sposo si era stabilito nel castello con la sua scorta, per interrogare la servitù e porre rimedio alla probabile offesa.
Inoltre la ragazza si era premunita di un cestino con pane, formaggio e una bottiglia di latte, affinché i due amanti potessero consumare almeno una cena frugale.
I due giovani scortarono l’ancella fino alla porta e poi la videro sparire nella notte.
Nonostante i pericoli, travolti dalla passione si abbracciarono e si tennero stretti, scambiandosi promesse e baci d’amore… timidi e inesperti, mangiarono qualcosa per appropinquarsi al giaciglio di fortuna. Prima di coricarsi, col sogno di poter finalmente godere della loro passione, pregarono e chiesero perdono per il loro gesto disperato.
Il destino volle che il loro amore restasse casto e mai consumato e così entrambi, drogati dal latte, si addormentarono profondamente come in stato di coma… e a notte fonda vennero divisi, questa volta per sempre.
Il sole era sorto da poco. Quella mattina il povero fabbro, già preoccupato per le notizie tragiche che si spargevano nel reame, rimase non poco sorpreso dal trovare il corpo del figlio adagiato davanti al portone della sua fabbrica, per fortuna il ragazzo era vivo seppur profondamente addormentato. Presagendo giorni di sventura, l’uomo decise di trasportare il ragazzo a casa, aiutato da uno dei suoi lavoranti.
A mattina inoltrata il disagio degli operai dell’officina del fabbro, già sgomenti per quanto avevano appreso, si trasformò in vera meraviglia quando una frotta di ancelle, in abiti colorati e svolazzanti, entrò nella fucina. Tutte, guidate dalla traditrice, andarono a svegliare Aurora, intontita e confusa, per comunicarle una ridda di contrastanti novità.
In realtà, ormai le ancelle e le serve non erano più fedeli: chi per paura, chi per danaro erano state ben addomesticate dal principe oscuro, la cui vendetta ormai andava prendendo corpo. L’ancella venduta approfittò ancora una volta della fiducia della giovane e, come da copione, le comunicò una ulteriore falsità. Proprio quel mattino, Donato le aveva ordinato di aspettare il risveglio di Aurora per accompagnarla presso la casa della sua famiglia, dove l’avrebbero protetta e dove lui l’avrebbe raggiunta per ribadire la loro ferma volontà di sposarsi a qualunque costo.
Ma dove si trovava la casa di Donato? Questo l’ancella non lo sapeva, ma sapeva che, lungo la strada, quasi tutte avevano incontrato Donato e che questi, certamente aveva confidato loro il suo indirizzo.
Tutto questo non era che parte del piano orribile architettato dal principe d’Oltremare, infatti era stato proprio lui a fornire alle ancelle e alle serve, inviate in corteo, un diverso indirizzo per ognuna di loro… la confusione regnava sovrana e Aurora era del tutto spaesata. La fanciulla, presa dal panico e ancora mezza drogata, corse per le strade di Napoli vagando di casa in casa, facendo domande confuse, spalancando usci dove gente attonita la guardava senza capire. Era quasi pomeriggio quando disperata, scarmigliata e con gli abiti a brandelli giunse in un vicoletto, in un fondo non lontano dalla zona dove aveva passato quella che avrebbe dovuto essere una notte d’amore.
Imboccò quella strada attratta da una piccola folla che si accalcava, del tutto silenziosa, davanti a un uscio di legno.
Nessuno ebbe il coraggio di fermare quella ragazza stanca e sconvolta che entrò dentro la casa.
Accasciata nelle pose della morte c’era un’intera famiglia: il padre, la madre, una serva e poco oltre il figlio Donato che non aveva avuto il tempo nemmeno di sfoderare la spada. Tutti giacevano in una pozza di sangue, massacrati a tradimento dai sicari del principe.
Aurora lanciò un solo, terribile grido straziante… poi si accasciò stremata, perdendo il senno in quel preciso istante.
Qualche anno dopo la poveretta, ancora bella ma ridotta a una mentecatta, alternava stati di ipocondria e silenzio ad attacchi di rabbia furiosa perché voleva per forza uscire dalla reggia, convinta di doversi incontrare con Donato e la sua famiglia… ovviamente vaneggiava.
Anche i reali, ormai per il dolore di aver perso la figlia, trascinavano un’esistenza di dolore e pentimento; il principe aveva avuto la sua vendetta ma certo non volle sposare una pazza e così se ne tornò al suo paese lontano.
Visto che, al sopraggiungere delle crisi, Aurora rischiava di farsi male nel dare calci e pugni nel portone rompendosi le dita a sangue a furia di graffiare le assi, il re decise di provare ad accontentarla e lasciò che uscisse dal palazzo; naturalmente alcuni servitori e la governante la seguivano discretamente, pronti a bloccarla in caso di un eccesso di follia… ma così non fu: una volta libera di andare, la principessa si diresse verso la Napoli più popolare, girovagando quieta e guardandosi intorno come se cercasse qualcosa.
A un certo punto, entrata in un vicolo dove batteva un raggio di sole, si infilò in un basso dove una famiglia semplice era impegnata nelle normali faccende di casa… gli abiti raffinati e la composta bellezza di Aurora lasciarono sbigottita la piccola comunità che, nonostante l’inattesa intrusione, porse alla donna una sedia che lei accettò e sulla quale sedette per un po’, con sulle labbra un lievissimo sorriso… nel primo pomeriggio, così com’era venuta, la principessa entrata a mezzogiorno scivolò via, lasciando la povera casa.
Mentre i servitori scortarono la donna che rientrò tranquilla a palazzo, la nutrice ritenne giusto di premiare quelle brave persone, ringraziandole per aver ospitato la figlia del re e donando loro alcune monete d’oro.
I popolani sgranarono gli occhi a tanta fortuna e raccontarono ai vicini la loro avventura: fu così che a Napoli si sparse la voce della bella principessa dai capelli d’oro che, quando visitava le case nei giorni di sole, portava prosperità e buona sorte.
Questa uscita si ripeté occasionalmente e specialmente nei giorni sereni… a volte sembrava cha Aurora inseguisse quei rari raggi di sole che talvolta riuscivano a infilarsi nei vicoli bui, illuminando per un momento i bassi umidi e poveri.
Ma i napoletani avevano imparato: quando il sole è a perpendicolo e la meridiana segna il mezzogiorno, se sei fortunato, anche la tua casa può ricevere l’incredibile visita di una vera principessa.
Questo per loro rappresentava la buona sorte per la casa e la famiglia e magari anche un aiuto economico dispensato dalla buona nutrice.
Aurora usciva a mezzogiorno… quando lo gnomone al centro della meridiana proiettava il mezzodì, una figura bella e solare poteva scorrere silenziosa tra i vicoli e i fondaci, essa venne indicata in dialetto con il nome di “bella ‘mbriana”, che nei secoli successivi rappresentò la benedizione e la buona sorte per tutte le case che “sorridono”*.
- case che sorridono – molte persone, particolarmente sensibili, quando visitano una casa per la prima volta, raccolgono (o credono di farlo) un’impressione generale sulla casa, che poi sintetizzano con il concetto del “buon augurio”, insomma se una casa comunica sensazioni negative o positive.