Amnesia (una storia cilena)

Si fermò d’improvviso sul marciapiede, tra una vetrina e l’altra, come una bambola bloccata da un guasto del meccanismo interno. La fiumana di passanti frettolosi le scorreva accanto, muovendosi in direzioni opposte, spintonandola, facendola vacillare come un birillo colpito di striscio.
Perché si trovava in quel luogo, a quell’ora? Dove stava andando? Il panico le dilagò nello stomaco, risalendo come un groppo a chiuderle la gola.
D’istinto si voltò intorno, a cercare lo specchio di una vetrina, per vedersi, per orientarsi, per tentare di capire, magari dall’abbigliamento, dove fosse diretta: un paio di jeans un po’ sdruciti, una camicetta fiorata, scarpe da ginnastica. A nessun appuntamento importante poteva recarsi vestita così.
Guardò l’orologio: le 18.00. Non si trattava neppure di lavoro, ammesso che il suo fosse un impiego 8.00‐15.00!
E dunque? Con la mente annebbiata, nello spasimo di una soluzione, una qualunque, purché immediata, si avviò al sottopassaggio della metropolitana, scendendo frettolosamente le scale, come se il tempo per l’ultima fermata stesse ormai per scadere.
La musica cilena del gruppo di Horatio si diffondeva nella penombra affollata con un ritmo coinvolgente e rassicurante.
Per inerzia, quasi percorrendo una via sempre percorsa, si avvicinò alle note come ad un amico da cui si sa con certezza di poter essere aiutati in un momento di disperante solitudine.
Il pezzo degli Inti Illimani stava terminando, nel vento del sikus, attorcigliato alle note cariche di ritmo discendente nella spirale elettrica della chitarra. Una pausa riempita dal vocio disordinato della metro.


Aveva solo quattro anni in quell’11 settembre del 1973. Nel palazzo presidenziale, a Santiago, si divertiva a gironzolare nelle grandi sale, riccamente arredate, mentre Rosana, sua madre, faceva le pulizie.
Il Presidente Allende la trattava come una figlia, anche se era una serva, e per la piccola aveva sempre dei dolci. Una volta le aveva fatto assaggiare un sorso di chicha e lei ne era stata orgogliosa, si era sentita già grande.
Quel giorno si scatenò l’inferno a la Moneda, d’improvviso, mentre giocava a nascondersi dietro i pesanti tendaggi dei balconi: da lì vide ammazzare sua madre, che urlava al presidente di mettersi in salvo, mentre i sicari di Pinochet distruggevano ogni cosa, il mobilio prezioso, la sua mamma, la gioia di vivere, l’innocenza dell’infanzia ormai violata. Era troppo piccola perché se ne temesse la testimonianza o la denuncia. Il generale la risparmiò, affidandola a dei contadini che abitavano a Putre, un grazioso villaggio aymara, sull’altopiano, a 3500 metri sul livello del mare.
Per tre giorni non ricordò nulla, né chi fosse né tanto meno cosa fosse accaduto nel palazzo. Un’amnesia che le permise di superare quel trauma infantile senza perdere se stessa, se non di tanto in tanto, una perdita della memoria breve, una rimozione inconscia dell’orrore e della disperazione, che l’aveva salvata allora e continuava a salvarla ora che aveva compiuto quarant’anni.


‐ Anita! – le urlò José Miguel, con la quijada ancora vibrante tra le mani, il viso contratto dall’ira – Te ne vai per un pacchetto di Luki Strike e ci lasci qui a suonare in tre! Prendi il tuo strumento e mettici l’anima, por favor! ‐
Afferrò istintivamente il charango poggiato ai piedi di Jorge, ne accarezzò la cassa armonica col palmo sudato della mano.
Chiuse gli occhi e con le dita fece vibrare la corda centrale, il cuore della scala.
Il suono cristallino dell’altopiano le inondò il corpo e la mente. Era a casa.