Apollo e Dafne o dell’amore impossibile.

"La cerca,
la perseguita ovunque,  e se per caso
un lampo de’ suoi belli occhi rapisce,
gela ed avvampa di convulsa ebbrezza."
Giovanni Prati – Edmenegarda

Apollo era un bell’uomo, biondo, vigoroso, amante delle arti, della natura e di tutte le cose belle che esistevano al mondo. Per ciò, per il suo magnifico aspetto e per i suoi comportamenti era venerato come un dio, esattamente era da taluni venerato come il dio del sole, perché irradiava sapienza in ogni dove e dava forza e speranza ad ogni essere umano, perché teneva lontano le angosce e le ansie dal mondo, e perché curava gli uomini da ogni male. Era amante della poesia e della musica, che, in effetti, non abbandonava mai perché portava con sé sempre la cetra. Per la sua radiosa bellezza aveva incantato tante bellissime fanciulle, le Muse, nove per l’esattezza, e con ciascuna di loro, a seconda dei sentimenti momentanei che scaturivano dal suo cuore, trascorreva beatamente ogni giorno, ogni ora, ogni attimo, nella serenità, stando felicemente sdraiato su un grosso ramo di platano, sul monte Parnaso. Si era invaghito di ognuna di loro: la poetessa Calliope, la storica Clio, la vaneggiante Erato, la suonatrice Euterpe, la cantora di tragedie Melpòmene, o di quella di inni religiosi Polinnìa, o di quella di commedie Talìa, la danzatrice Tersìcore, la storica della storia del mondo Urania. Così si chiamavano rispettivamente le nove bellissime fanciulle, le ninfe che gli rallegravano la vita e contribuivano a dare a questa un senso sublime, impareggiabile, eccelso. Dalle loro labbra fluivano senza sosta racconti, gesta d’eroi, note melodiose, canti gradevolissimi, che erano graditi a tutti i comuni mortali.
Ciascheduna era bravissima in una sola arte. Ma nessuna di loro possedeva le altre arti. Con le Muse, Apollo s’era creato un mondo fantastico, fatto di poesia, di sentimenti, d’emozioni, di musica, di sogni. Voleva un gran bene a tutte loro, ma non prediligeva nessuna perché ciascuna esprimeva una soltanto delle attività creative che egli preferiva con passione. Apollo, tramite loro e con le arti che rappresentano l’espressione dei poliedrici stati emotivi dell’uomo, faceva emergere i suoi sentimenti più reconditi nel suo animo.

Calliope era una poetessa, che recitava dolci poesie esprimendo sensazioni rare e toccanti che inducevano in Apollo turbamenti piacevoli e sublimi. Nell’ascoltarla, il dio si librava con la mente, libero, leggero, in un mondo fantastico, lontano da ansie, preoccupazioni e tormenti. La musa ritmava le più belle poesie di Saffo e poi quelle di Mimnermo o di Anacreonte o  di Pindaro.

Clio, invece era la musa che conosceva la storia del mondo. Sapeva della storia raccontata da Pindaro e poi da Erodoto e poi ancora da Tucidide. Ogni volta rivelava ad Apollo la storia dell’origine dell’Universo, narrava le lotte cruente che avevano visto regnare l’universo dapprima da Urano, poi da Crono, ed infine da Zeus che, vincitore finale, era stato, in seguito alla Titanomachia, colui che aveva instaurato un nuovo ordine nel mondo. Clio raccontava anche la storia divina e lodava la progenie degli dei immortali, osannava Zeus che regnava sugli dei ed estendeva il suo dominio sul mondo intero. Per governare gli uomini sulla terra, egli aveva assegnato compiti diversi a tutti gli dei. La moglie Hera doveva proteggere le donne sposate; Afrodite doveva far insorgere negli uomini il desiderio amoroso e permettere l’amore fisico a garanzia della procreazione; Pallade Atèna era tenuta a fare espandere tra gli uomini la sapienza per debellare dal mondo l’ignoranza, origine di molti mali, e quindi l’arroganza generata da essa; Ares purtroppo doveva infervorare tra gli uomini i litigi, le lotte fratricide e favorire la guerra; Demetra doveva proteggere il faticoso lavoro dell’uomo mediante il quale si fecondava la terra che gli dava i frutti necessari per l’alimentazione; Dioniso doveva garantire l’allegria e la felicità; Hestìa, invece, aveva l'obbligo di garantire la pace familiare, tutelare la famiglia e lo stato; Efèsto doveva perpetuare e custodire il fuoco; ad Artemide toccava proteggere la caccia per dare il giusto sostentamento agli uomini e doveva preservare la natura dal degrado perché in essa procreavano tutti gli animali e da essa si ricavavano i dolci e succulenti frutti; Posèidon doveva governare il mare; ad Hèrmes spettava difendere il commercio, e tutelare i viaggiatori, gli atleti e gli oratori.

Erato era la musa che faceva assopire Apollo e lo faceva navigare nel fantastico mondo dei sogni mentre costui stava adagiato sulla dondolante amaca. Sognava il dio e si beava ogni volta dei sogni che la musa gli faceva fare. Erano tutti sogni scelti e piacevoli. Ma una volta, una sola volta, non fu così. Apollo quella volta, infatti, sognò di andare a caccia con il suo arco e le appuntite frecce poste sulla schiena nella faretra. Sognò di aver ucciso un grosso cinghiale che gli stava, con forte irruenza, andando incontro per colpirlo con il suo micidiale corno, ma sognò anche un grosso serpente, un pitone che, come gli era stato riferito da Clio, dopo il Diluvio universale, imperversava sulla terra facendo stragi di animali, di uomini e di donne. Era diventato un atroce supplizio per tutta l’umanità, quel terribile serpente. Apollo decise allora di eliminarlo per sempre dalla faccia della terra. Mentre poneva, allora, con oculata maestria la freccia letale nell’arco e stava prendendo la mira, stendendo con forza la corda lungo il braccio sinistro, egli vide Eros che dalla cima di una rupe con le sue minuscole e ridicole frecce nella faretra, si atteggiava ad arciere senza alcun effetto su quell’orrendo pitone. Apollo, incurante, tirò e con una sola freccia, in un sol colpo, infallibilmente colpì a morte il grosso pitone, trafiggendogli la testa da una parte all’altra. Contento del successo e soddisfatto per aver salvato molta gente da sicura morte, subito dopo schernì, deridendolo e beffeggiandolo, il candido Eros che, seduto su un grosso ramo di un platano, aveva osservato l’impresa rimanendo a bocca aperta, meravigliato. Ad Eros mostrava la carcassa di quell’animale mostruoso, ormai inerme, Apollo che, ridendo a squarciagola, gli diceva che con quelle sue piccole e insignificanti frecce a quel pitone non gli aveva procurato neppure un lieve titillamento. Eros, fanciullo amorevole e dolce, tuttavia, era molto permaloso e rimase molto male per quella satira fuor di luogo fino a tal punto che pensò subito alla vendetta. Volle dimostrare, in effetti, che anche le sue piccole frecce potevano stravolgere la vita di un grande uomo. Infatti, mentre Apollo come al solito si trastullava, beatamente ed estasiato, sdraiato ad ascoltare la musa Erato, fu colpito al cuore da un piccolo dardo dalla punta d’oro lanciato da Eros, che si era sentito oltraggiato, deriso, vilipeso. Il candido dio lanciò subito dopo un’altra freccia, questa volta dalla punta di piombo, colpendo al cuore una leggiadra fanciulla. Dopo qualche giorno, Apollo mentre passeggiava, vide quella fanciulla bagnarsi nelle leggiadre acque del rio che scorreva tra i verdi odorosi alberi rinfrescanti del bosco, e se ne innamorò improvvisamente e perdutamente. Si avvicinò furtivamente tra i cespugli che adornavano il fiume, ma la giovine accorgendosi dell’intruso, con un tuffo nelle acque si dileguò, lasciando Apollo amareggiato e avvinto da profonda tristezza. Quest’evento procurò ad Apollo una forte palpitazione che lo fece svegliare di soprassalto. Si adirò fortemente Apollo, che redarguì a malo modo la musa, ricordandole che i sogni che gli procacciava dovevano essere sempre piacevoli e dovevano avere un esito felice e gioioso. Rimase, infatti, innamorato di quella giovine conosciuta nel sogno ma anche molto amareggiato.

Euterpe, suonava il flauto, e stravolgeva l’animo di Apollo, lo incantava, lo ammaliava con il ritmo prodotto dalla sua musica. Emetteva note melodiose quello strumento ricavato da una semplice canna che, prima di essere tagliata, rigogliosa si alzava flessibile verso il cielo ai margini del rivolo, che scorreva silenzioso tra i rovi di succulente e saporite more. Le ritmiche note emesse dal flauto arrivavano all’orecchio di Apollo che entrava in estasi, e inducevano, nel contempo, come per incanto, spontaneamente, alle membra della musa Tersìcore, movimenti sinuosi, lenti, armonici che fendevano l’aria che così sospinta produceva una piacevole brezza. Il tenue venticello prodotto investiva l’erba del prato su cui si librava leggera sciolta agile la danzatrice, e le irsute tenere foglioline sottili ora si piegavano, ora si drizzavano, ora flettevano, ora oscillavano, ora vibravano armonicamente con ella creando sul terreno delle fugaci figure.

Ma non solo gioia e felicità voleva provare Apollo. Egli voleva sentire anche dolore e percepire tristezza e, per questo, Melpòmene, lo angosciava con le tristi e tormentose tragedie di Eschilo, tra cui quella di Prometeo incatenato. Raccontava, la musa ad Apollo, della sfida che Prometeo aveva intrapreso con Zeus per donare il fuoco agli uomini selvaggi, ignudi, miseri, malati, afflitti, depressi, diseredati. Era stato punito per questo Prometeo. Incatenato ad una roccia, infatti, era rimasto con il petto sanguinante, il titano che, comunque, era soddisfatto e orgoglioso per aver recato col fuoco ai mortali tutte le arti e con esse gioia e felicità. Per la sua tenacia e perseveranza, la rupe cui fu incatenato sprofondò in una voragine, ma Prometeo resistette all’evento franoso; resistette il titano anche all’aquila inviata da Zeus a scavargli la carne, a strappargli a brani il fegato, a rodergli le viscere. Povero titano che, per la grande generosità mostrata e per quella sua immane resistenza aveva sconfitto il grande Zeus, era diventato immortale! Soltanto alla madre Gea, infatti, ubbidì il nobile gigante, il cui corpo alla fine rimase intrappolato nella dura, ruvida e fredda roccia ma la sua anima si librò libera e imperitura nell’empireo.
Melpòmene gli narrava con grande partecipazione e profondo pathos anche le tragedie del gaudente Sofocle, o quelle di Euripide.

Dopo aver provato tanta sofferenza nell’ascoltare quelle tristi e deprimenti tragedie, c’era Talìa che rallegrava Apollo con il racconto delle commedie, allietandolo con le satire pungenti e divertenti di Aristofane.

Durante le stellate notti d’estate, Apollo veniva edotto dalla musa Urania sulla genesi dell’universo che, per potere e volere divino, fu foggiato dal Kaos, il disordine primordiale; la musa al tempo stesso lo guidava nell’apprendimento di tutto il sapere con la poesia didascalica di Esiodo. Il Dio Supremo ‐ raccontava Urania ‐ aveva disposto ordinatamente nel cielo, il fulgido sole, la incantevole e romantica luna, le affascinanti comete, le misteriose stelle cadenti, i pianeti e tutte le costellazioni, e anche la via Lattea, che trasmettevano, nell’animo di Apollo, incanto, mistero, fascino e, al tempo stesso, curiosità e desiderio di sapere.

Polinnìa, infine, senza essere da meno delle altre Muse, con i suoi inni religiosi esaltava Dioniso, mitico dio, che aveva prodotto nella notte dei tempi semplicemente il vino dall’uva, ed aveva insegnato all’uomo la tecnica di vinificare il quale, bevendo quel pastoso liquido purpureo, ne traeva gioia e felicità ed entusiamo, acquisiva espansività, si liberava l’istinto dalle inibizioni e dai complessi, si liberava dal tormento, dall’angoscia, dal dispiacere, dal dolore.

Un giorno, Apollo, ascoltando come era solito la musica della deliziosa Euterpe, passeggiava felice e spensierato nel bosco. Inebriato da quelle note meravigliose che effondevano tra gli alberi del bosco e che echeggiavano nella profonda vallata, stordito, estasiato, inebriato, si accorse ad un certo punto di essersi stranamente smarrito. Salì su un’altura da cui si scorgeva tutta la vallata, per orientarsi; guardando attorno si accorse di un tempio, di un piccolo tempio consacrato ad Artemide, la dea della caccia,. Fino a quel momento ad Apollo era sconosciuta l’esistenza di quel tempio e incuriosito vi si avvicinò, attraverso il pronao entrò nella cella dove scorse una bellissima sacerdotessa che, inginocchiata, vegliava sulla dea e pregava. Apollo l’osservò attentamente, era candida, dolce, incantevole solo a vederla, emanava luce propria da tutto il suo corpo. Si accorse guardando attentamente che il volto della fanciulla non gli era nuovo. Lo aveva visto da qualche parte ma non si ricordava dove.
‐ L’ho vista! Io la conosco! Il suo volto non mi è nuovo! Forse assomiglia a qualche musa, quella fanciulla? A Talia o ad Urania? – pensò Apollo.
Era convinto di averla già vista da qualche parte. Dopo un attimo di riflessione, gli sovvenne in mente quell’angoscioso sogno che gli aveva fatto fare, qualche giorno prima, la musa Erato. Apollo si ricordò di quella fanciulla che, in sogno, bagnava le sue candide e nude membra nelle fresche e limpide acque del fiume e, in cuor suo, improvvisamente si ripristinò come per incanto, quel tale desiderio amoroso che col risveglio dal sonno era svanito nel nulla, lasciandogli in corpo una grande amarezza inconsueta. Nel vedere quella leggiadra graziosa fanciulla, ancora una volta, semplicemente il suo cuore venne sconvolto, anche i suoi sentimenti, che prima erano votati all’arte, alla poesia, alla musica, alla natura, al teatro, ai racconti, furono stravolti improvvisamente. La mente di Apollo fu come offuscata, un incitamento impulsivo, che non potette controllare, lo indusse subitamente all’amore per quella fanciulla, inspiegabilmente, inesorabilmente. Guardava colei che per la seconda volta aveva scavato e aperto un varco profondissimo nel suo cuore. Si dette un pizzico sulle gote fino a farsi male per capire se, quello che stava vedendo e provando, fosse ancora un sogno o fosse realtà.
Si avvicinò dunque a quell’avvenente ninfa cui, aiutato dai versi e dalla musica che aveva imparato dalle sue Muse, trasferiva dolci parole:
‐ Salve, o dolce fanciulla! – Esclamò Apollo. E la fanciulla si voltò di scatto, sorpresa da quella voce e turbata da quell’inaspettata domanda.
‐ Chi sei tu, o graziosa giovinetta, che vivi in quest’oasi di pace, in questo tempio votato all’eccelsa Artemide? E’ lecito sapere il tuo nome? ‐ Continuò con voce gentile Apollo.
‐ Mi chiamo Dafne, mi sono donata con l’anima e con il corpo alla dea Artemide, che adoro più di me stessa, perché ella mi ha dato la libertà, ha fatto nascere in me l’amore per la natura e per tutte le cose belle che la natura genera ed offre; io amo la pace e la tranquillità – rispose con voce tremolante, forse un po’ impaurita, la fanciulla che concluse aggiungendo:
‐ Chi sei tu, straniero, che chiedi il nome mio? – Chiese Dafne.
‐ O dolce Dafne, il mio nome è Apollo, non sono uno straniero, vivo già da molti lustri in quest’immensa e bellissima vallata, e mi rammarico di non aver saputo prima della tua presenza tra questi luoghi ameni, ‐ precisò repentinamente.
‐ Anch’io amo la natura, la caccia, la verdeggiante selva che ricopre come un vellutato manto questo magnifico monte e mi diletto ad ascoltare musica e osservare il linguaggio movimentato della danza, godo nel sentire recitare versi poetici, che incantano tanto il mio cuore. Desidero conoscere le storie belle e brutte degli uomini, e voglio conoscere i segreti e i misteri che avvolgono tutti gli esseri umani. Amo soprattutto l’amore, il sentimento più sublime che l’uomo possegga, perché mi fa volare con la mente, leggero e leggiadro, libero nel mondo dei sogni e dei buoni prefiggimenti, ‐ aggiunse Apollo che continuò, ‐ vivo con nove fanciulle, le Muse, che mi allietano ogni giorno per tutto il giorno, mi trasmettono sensazioni eccelse e divine, sono tutte bellissime, ma nessuna di loro riesce ad eguagliare la tua bellezza, o Dafne. Una di loro, Erato, mi fa addormentare e mi fa sognare. Erato un bel dì mi ha fatto fare un sogno che allora ho considerato brutto e per questo l’ho rimproverata a malo modo, ma adesso devo ravvedermi perché nel sogno c’eri tu, o Dafne, che sei la fanciulla più bella che finora mi sia capitata. Io ho visto in sogno il tuo splendido viso, ho osservato il tuo corpo in tutta la sua eccelsa magnificenza mentre lo bagnavi nelle leggiadre fresche acque correnti di un rivolo. Io già ti conoscevo, senza averti incontrata mai.  Io, ora devo dire grazie a quel sogno, ti desideravo prima di conoscerti, il mio cuore già ardeva per te di passione. Ed oggi, l’averti ritrovata così per caso ha concesso un po’ di conforto al mio cuore che bramava di vederti e di toccarti.
‐ O Apollo, ti sono grata del complimento che mi fai, ma la mia bellezza proviene dalla devozione che ho per Artemide. Ella mi mantiene pura, casta ed immacolata, ‐ rispose emozionata Dafne.
‐ Io prego, ogni giorno, la grande Artemide perché tramite ella io possa trasmettere agli uomini l’amore tra di loro al fine di debellare l’odio, e di apprezzare e rispettare la natura. Io amo Artemide più di ogni altra cosa al mondo e non posso amare nessun altro, ‐ concluse, con voce tremebonda, la giovane che mentre parlava si allontanava accomiatandosi nella sua stanza.
Dafne aveva giurato di rimanere devota alla dea per tutta la sua vita, cercava di non sentire, o forse non comprendeva, ciò che il cuor in quel momento le comandava. Non poteva innamorarsi, anche se quel tremolio vocale le aveva fatto presagire inconsciamente che il suo animo esprimeva un sentimento amoroso per quel biondo giovane brillante, leggiadro, caloroso, passionale, bello, che si era presentato dinnanzi a lei. Era la prima volta, comunque, che a lei si presentava un fatto del genere. Dafne ingenuamente non capiva da cosa derivasse quel brivido strano che le percorreva tutto il corpo, subitaneamente al cospetto di Apollo. Ella aveva giurato castità alla dea della caccia e non poteva tradirla. Eros, tuttavia, le aveva sconquassato il cuore per fare un dispetto ad Apollo, ma il dispetto lo aveva fatto anche a lei che non c’entrava niente. E Dafne non era ancora in grado di percepire il significato di cotanto scombussolamento che le aveva tolto la serenità e la tranquillità possedute fino a quel momento. Dafne pregò Artemide per questo, ma non ebbe alcun sollievo.
Apollo rimasto solo andò via, quella volta, ma il suo intento era di ritornare in quel tempio per godere almeno della vista della leggiadra giovane che lo ammaliava, lo affascinava, lo rendeva inerme, gli annullava la volontà, gli scioglieva le membra.
Si sdraiò sul letto costruito su un grosso ramo del solito platano, e non volle quella volta la compagnia delle Muse, perché voleva, senza alcuna distrazione, pensare intensamente alla sua amata e meditare coi pensieri che gli balenavano nella mente. Apollo dispiaciuto avvilito per la prima volta, depresso come non mai, si addormentò quella sera, mentre il cielo si riempiva lentamente di luccicanti e pulsanti stelle che tremolavano, fisse su un cielo ammantato di un nero mantello in accordo con il tremolio del suo cuore.
Continuò nei giorni seguenti a visitare il tempio e a dialogare con Dafne trasmettendole le sue effusioni amorose, ma, ormai stanco dei diversi quotidiani tentativi risultati vani, arrivò al punto di chiederle di sposarlo, così e semplicemente. Dafne rimase stordita da tale richiesta ma rifiutò. Apollo insistette. Dafne ebbe ancora un attimo di smarrimento. Forse la vista di Apollo, la sua avvenenza, la sua alterezza, la sua possanza fisica, il suo fascino divino avevano fatto innamorare anche lei. Forse! Fuggì perché non se la sentì di negargli la proposta ancora una volta. Sicuramente quel gesto aveva fatto presagire che l’innamoramento aveva colpito anche lei. L’amore e la devozione, che provava per Artemide, erano così grandi che però non potevano essere intaccati. Non poteva l’innocente fanciulla contemporaneamente amare Artemide e Apollo! Correva leggera Dafne come una lepre che fugge dinnanzi al pericolo del cacciatore. Apollo la inseguì, le corse dietro per tanto tempo finché la raggiunse, le afferrò delicatamente un braccio e la tirò seco. Dafne si arrese voltandosi e cedendosi senza resistenza alcuna. Apollo strinse tra le sue braccia Dafne, e Dafne avvinghiò spontaneamente tra le sue braccia il corpo di Apollo. Si adagiarono e stesero le loro membra per terra su un cumulo di paglia secca sotto un possente platano vigoroso. Apollo avvicinò il suo petto al seno prosperoso di Dafne e i due cuori palpitarono assieme. Era bellissimo per Dafne e per Apollo provare quelle incomprensibili sensazioni che erano sensazioni d’amore. Dafne non aveva più volontà di decidere. La devozione per Artemide era come se non ci fosse più nella sua mente. Il suo modo di vivere era stato stravolto, alterato, sconvolto piacevolmente e sgradevolmente al tempo stesso. Le sue membra si sciolsero nel corpo di Apollo come lo zucchero nell’acqua, in un attimo. Apollo e Dafne divennero una cosa unica, un unico corpo. Dafne era come addormentata, il suo corpo giaceva intorpidito tra le braccia di Apollo. Era posseduta da Apollo, e Apollo era posseduto da Dafne. Ma un attimo dopo, Dafne si svegliò da quel piacevole torpore, rinsavì, la sua mente già offuscata incominciò a riprendere vigore, a ragionare, ancora la sua castità non era stata compromessa. La mente prese il sopravvento sul cuore. La fanciulla chiamò silenziosamente in aiuto Artèmide ed ebbe la forza di svincolarsi dal desiderio amoroso che l’aveva avvinta ad Apollo, per la prima volta. La sua mente era divisa tra due pensieri: l’amore per Artemide e l’amore per Apollo. Ma non poteva dividersi. Si divincolò e fuggì ancora una volta. Dafne prima era fuggita per sottrarsi alla richiesta fattale da Apollo, ora fuggiva per sottrarsi all’amore di Apollo. Apollo la inseguì un’altra volta, ma per l’ultima volta. Dafne, correndo, si infiltrò dentro un grande cespuglio di odorose piante di alloro, forse per nascondersi. E lì scomparve. Apollo la chiamò, ma inutilmente, la cercò tra quei verdi e rigogliosi virgulti, che nascondevano una stretta e profonda dolina che le piogge acide nel tempo avevano scavato nella bianca roccia calcarea. Dafne era caduta per sempre in quel buco che si trovava là celato da quel cespuglio, sempreverde e odoroso, di alloro. Non un grido, non un lamento, niente che facesse pensare ad una grande tragedia d’amore. Per amore di Artemide, ma anche per amore di Apollo, Dafne era scomparsa, scomparsa per sempre, fuggendo dall’amore e per amore. Ella giaceva ora laggiù in fondo a quella fossa naturale che era diventata la sua tomba, adombrata da quel grande cespuglio di alloro. Apollo, vide quella dolina, ma non si rese conto che Dafne fosse caduta là. La cercò invano. Era scomparsa nel nulla, la fanciulla si era dileguata nell’aria come acqua al sole. La chiamò ripetutamente: Dafne! Dafne! Dafne, amore mio, dove sei? Dafne, tesoro grande, ritorna da me! – Ma il suo richiamo fu inutile. Pianse tanto, era la prima volta che piangeva, il forte e vigoroso Apollo. Era disperato per aver perduto il suo unico grande primo e ultimo amore. L’aveva persa prima nel sogno, ora l’aveva persa per sempre. In Dafne Apollo aveva trovato la sintesi delle sue nove Muse, aveva scoperto il mescolamento armonioso della poesia con la musica, aveva ritrovato la miscellanea di tutte le arti che lui aveva amato e che aveva apprezzato sempre, e che avrebbe continuato a prediligere. Nella sola Dafne aveva trovato fuse insieme le diverse virtù delle sue nove adorate fanciulle. Rimase ad aspettarla per diversi giorni e diverse notti, dimenticandosi di ciò che faceva e di ciò che lo aveva dilettato sempre, almeno sino allora. Disperato, sconsolato, con monotono lamento mentre diceva: ‐ Amore, amore mio, presto te n’andasti, in un tempo pari ad un batter d’ali volasti via dal mio cuore, nella tristezza mi lasciasti, nella completa disperazione mi abbandonasti, ‐ prese alcuni teneri rami lunghi di alloro, li intrecciò con le sue mani tremanti, piegò la treccia facendone una corona che pose sulla sua testa a ricordo perenne della sua amata. E fece questo per ricordarsi anche che quello che gli era capitato non era un sogno, ma era una crudele e disumana realtà. Non gli rimase altro che ritornare a vivere come prima, ma per sempre con il rimpianto di Dafne nel cuore.