Banana Boat

          “Ti ho inviato quel brano di quel disco di Vinicius, che cercavi. Scaricati  il file e mettilo nella discoteca di Tunes”.
E’ vero: l’adattamento è un processo lento e non uniforme per ogni essere  umano. Io sono tra i più lenti a recepirlo.
“ Ma di un file, che cazzo me ne faccio? Scusa l’irruenza e forse la, non  mia, perfetta educazione, venutasi a corrompere con gli anni”
“ Te lo scarichi sull’I pod e te lo senti quando vuoi.”

Barbera, quella mattina, era venuto nella 3° C, al Colombo, indossando una  tuta nuova. Era della Genova bene, lui. Il padre era nei tessuti. Lo ricordo,  lungo e biondo. Un sorriso aiutato da lampi azzurri dei suoi occhi.
“Ieri sera, su Radio Montecarlo, ho sentito una musica fatata…un certo  Harry Belafonte. Mi sembra che il disco si chiamasse ‘Banana Boat’. Ragazzi  dovreste cercare di sentirlo. E’ un deliquio!“
A casa, si traduceva Senofonte con la radio, in sottofondo. La voce  femminile, nell’eloquio musicale francese, presentava le novità discografiche. La vicinanza della Costa Azzurra, la foto, pseudo autografata, della Bardot,  sulla spalliera del letto, creavano un ambiente di fuga, per noi ragazzotti di  buone maniere. Poi l’annuncio interrompeva ogni libresca  attenzione:  Banana Boat par Belafonte, c’est pour vous!”
L’Anabasi era dimenticata. L’urlo senofonteo delle schiere greche, alla vista  del mare, “Tàlata, Tàlata” faceva posto ad un nuovo suono gutturale, che sapeva  di foresta sudamericana, di sole, di donne mulatte, dalla pelle lucida di  sudore.
“Vai su Montecarlo, sintonizzati, sbrigati…senti un po’?”
Era una catena velocissima di telefonate. Per giorni ci si accontentava di questa parentesi sonora. “Da Ghio, al grattacielo, è arrivato il disco. Un 45 giri che va a ruba. Bisogna prenotarlo…”
In realtà la prenotazione serviva a coprire il tempo per accumulare i soldi  per l’acquisto del disco. Un pomeriggio era dedicato a questo. L’inserviente, esperto di Ghio, alla tua richiesta, prelevava il disco dalla copertina  multicolore dal reparto ‘Novità’. Ti accompagnava alla cabina , lasciandoti  solo all’ascolto. Harry, foresta, isole, mari, mulatte ti avvolgevano in un suono, che non era realtà. Il ritorno a casa aveva la consapevolezza di un possesso. Una tattilità, tra le mani, che ti dava promesse. L’arrivo, era  chiudersi in camera a risentire quel motivo per ore intere. Forse i giovani d’ oggi devono iniettarsi eroina, per raggiungere il nostro sballo d’allora.
“ No, ascolta…non mandarmi il file. Ti ringrazio, ma non saprei cosa farne…“