"Cara Italia..."

Cara Italia,
ti scrivo come una figlia scrive alla propria madre, per avere la sua comprensione e lasciarsi cullare dalle sue braccia. 
Mi chiamo Berta ed insieme a Salvatore, in un piccolo paese della Sabina, in una casa che non era nostra e al lavoro nella terra dei Marchesi, legittimi proprietari per nascita, abbiamo gettato le basi per realizzare il sogno di vivere le gioie della famiglia. Nascere in una famiglia povera è già un'ingiustizia e lavorare la terra di un altro uomo... è una delle altre che dobbiamo subire perché l'uguaglianza è, e rimarrà, solo un'utopia. Noi eravamo ricchi solo di lavoro; dei raccolti rimaneva ben poco, dopo averne consegnato i due terzi al padrone, e, dal ricavato della vendita del bestiame, eravamo quasi sempre esclusi. 
I figli non si sono fatti attendere ma vederli penare per fame o  per freddo...non chiedevano l'agio o il superfluo, ma lo stretto necessario e qualche opportunità per il futuro. Dimmi, Tu, Italia, od altri avreste spianato loro la strada affinché potessero mettere a frutto i talenti che, alla nascita, vengono assegnati ad ognuno di noi, a chi più a chi meno? Nessun'opportunità, ne ero certa.
Abbandonammo, così, i nostri averi più grandi, gli "affetti", genitori, zii, cugini e tutti gli amici tranne due che portammo con noi: Evelino e Colomba... i nostri figli. Partimmo nel 1909 imbarcati sulla Luisiana, da Napoli, verso l'America. Abbiamo percorso la dura strada dell'emigrante che deve convivere con la nostalgia per te, Italia, e per i familiari lontani... negli occhi le colline coperte di vitigni generosi, la bellezza dei monti, i piani coperti d'oro nel mese di giugno e i canti della tua gente che, con la falce in mano, ne mieteva le messi... Sono stata tante volte sul punto di gettare la spugna, ma c'erano i figli, quelli che erano nati in Italia e quelli che si erano aggiunti: Chiara nel 1909 e Italia nel 1912. Sì, la nostra quarta figlia ha il tuo nome a sottolineare ciò che rappresentavi per noi, sentimento che non si era affievolito con la lontananza, anzi...
Nel 1915 nacque Vincenzo o Gimì come fu poi chiamato da tutti. Superammo il periodo in cui mio marito Salvatore si ammalò di broncopolmonite, perse il lavoro e non bastarono gli aiuti di anime pie e di quelle dell'assistenza sociale a sostenere la nostra numerosa famiglia... Avremmo perso anche la casa se il proprietario non ci avesse offerto una villetta che non riusciva ad affittare perché si diceva in giro che la sera fosse infestata da fantasmi. La cedeva a titolo gratuito per due anni, a noi,  con il compito di ripulirla dalle presenze, che i rumori e le grida provenienti da quell'edificio, sembrava confermassero in pieno.
Naturalmente non era vero. Non c'erano fantasmi  ma solo bande di delinquenti e prostitute che l'avevano scelto come covo.  Salvatore, barricato all'ultimo piano insieme a noi, ai primi rumori, o urla o semplicemente al primo muoversi di foglia, sparava nella tromba delle scale o dal terrazzo tutt'intorno alla casa, vari colpi con il fucile che aveva chiesto ed ottenuto, insieme a cinquanta cartucce, dal padrone di casa. La fortuna per la quale  avevamo affrontato il lungo viaggio era finalmente  a portata di mano. 
Mio marito chiamò i suoi fratelli Luca e Nazareno ed anche tre dei miei, Eliseo, Baldassarre e Sestilio  e poi numerosi paesani Pio, Armando ed altri. In questo modo riempì la villetta di uomini italiani onesti e forti che in poco tempo la resero una delle residenze più tranquille di Mount Vernon di New York. Evelino era diventato un ragazzo,  frequentava la scuola con buon profitto ottenendo lodi anche nei corsi di nuoto; nel tempo libero andava sul ponte di Brooklyn da dove si tuffava per andare a ripescare le monete che i passanti gettavano in acqua per lui. Anche i fratelli, quando furono in grado di seguirlo, andarono ad ammirarlo in quei tuffi.... Italia era un'adolescente modello e mi aiutava nei numerosi e pesanti lavori richiesti per mantenere la pensione di trenta stanze in cui avevamo trasformato la villetta che ora ci dava soddisfazioni economiche e di prestigio. 
Gimì, invece, era un discolo. Il più piccolo, il più terribile, il più disubbidiente... mi ha procurato tanti spaventi ma rimane il più amato. Ho temuto per la sua vita quando è tornato a casa, urlando e piangendo, tenendosi il dito medio della mano destra, ben stretto nella mano sinistra per bloccarne il sangue... troppo piccolo per spiegare cosa fosse successo e non si seppe mai come, chi o cosa l'avesse mutilato. 
Istintivo e imprevedibile, un giorno, dal suo giro per il quartiere con i fratelli, tornò a casa sbandierando una pistola trovata chissà dove, la puntò allo zio Sestilio, seduto in cucina... " Hands up!" Intimò. Lo zio alzò le mani, stando al gioco. Partì un colpo che, fortunatamente, sfiorò lo zio... grande confusione, corse gente di casa, vennero agenti. Sarebbero stati guai per  noi se Evelino, nel suo corretto americano, non fosse riuscito a spiegare alla polizia la dinamica dei fatti  Nel 1917  diedi alla luce Cherinna, l'ultima figlia. La fortuna era lì, potevamo allungare una mano, prenderla, farla nostra... ma così non è stato. 
Due anni dopo, nel momento in cui raccoglievamo il frutto delle nostre fatiche, mi ammalai. Sotto la mia resa definitiva però, nel 1920, c'era la firma della mala sorte che si accanì  contro di noi e, senza un motivo, mi portò via Colomba e Chiara con malattie come la difterite  e le convulsioni,  che oggi non spaventano più... Un dolore immenso, il colpo di grazia per la mia salute. Il medico di famiglia mi consigliò di tornare in Italia dove potevo guarire con l'aria pulita e il mangiare ogni mattina il siero del latte dopo aver tolto il formaggio... 
Ed eccomi qui, sulla Louisiana, mentre saluto il mio sogno americano,  destinazione il porto di Napoli.  Italia, sto tornando da te, con Italia, Cherinna e Gimì.  Mio marito Salvatore ed Evelino sono rimasti a New York per vendere l'attività che ci stava arricchendo, ma a quale costo! Nel mio cuore non c'è gioia, quella che avevo immaginato e sognato come compagna del mio ritorno; oggi lascio qui, in America, un pezzo di cuore.
Torno da te con ferite che non si rimargineranno. Tu sii clemente, dammi un po' di tempo,  un giorno, forse tornerò ad amarti.
Berta Bernardinetti 
New York aprile 1921