Certi pensieri di ghiaccio

‐ Guardi che in casa nostra si cucina con il burro e lo strutto; l'olio lo usiamo solo per non fare cigolare i cardini delle porte.

Così rispose al medico di famiglia che poco prima, ironizzando, gli aveva chiesto di cambiare almeno i condimenti, perché il livello del sangue nei trigliceridi e nel colesterolo era troppo basso.

Oltre che con l'olio anche con i dottori aveva un pessimo rapporto, e pure con l'acqua, che appena poteva sostituiva egregiamente con altri liquidi.

Per esempio placava la sete, scacciava i momenti brutti e ricamava quelli belli con un buon bicchiere di vino, ma in caso di necessità andava bene anche quello di qualità inferiore.

L'unica concessione che dopo la visita fece al medico fu di prendere le pastiglie prescritte, naturalmente senza l'ausilio dell'acqua.

Per dire la verità più di una volta ci aveva provato, ma gli erano sempre andate di traverso, cosa che invece con il vino non succedeva.

Non che considerasse l'acqua un bene superfluo, tutt'altro: aveva sempre fatto il contadino e capiva benissimo l'importanza di quella risorsa per la campagna, l'orto, il frutteto, le bestie.

Il fatto era che l'acqua aveva riempito la sua vita di fatica e rabbia, lacrime e sensi di colpa.

Notti intere a bagno nei freddi fontanili per portare a casa un po' di pesce da vendere per poche lire alle famiglie che abitavano con lui alla cascina; ore e ore di lavoro per aprire e chiudere le pesanti paratoie delle rogge e dei canali d'irrigazione; spesso il lavoro di mesi perso in poco tempo a causa della pioggia che sembrava buttata giù a secchi, o della grandine che a volte aveva la forza devastante di una fitta gragnuola di sassi e bastonate.

Per non parlare di quando, lasciata la cascina, prese in gestione un frutteto di collina.

Diverse volte l’anno doveva fare i trattamenti contro i parassiti che aggredivano le piante.

Sopra un carretto metteva una grossa cisterna, la riempiva di acqua e veleno e poi, a forza di braccia, via lungo il sentiero in salita che collegava le fasce della collina dov'erano sistemate le piante di frutta da irrorare.

Un massacro a cui, come aiutanti, dovevamo partecipare anche noi ragazzi.

Immensa la fatica, soprattutto nei mesi estivi, quando il caldo africano sbottava; forte, in quei momenti, la voglia di essere altrove.

Capitava anche che se c'era qualche improvvisa folata di vento, l'acqua marcia spruzzata sulle piante tornasse indietro, con gran soddisfazione dei parassiti; quando succedeva non era certo una situazione piacevole: oltre alla fatica la beffa.

Noi ragazzi poi eravamo svantaggiati: per via della giovane età e del fatto che frequentavamo il corso di catechismo, non potevamo imprecare; cosa che invece regolarmente faceva nostro padre, subito rimproverato dalla moglie che lo richiamava all'istante ai suoi doveri educativi nei nostri confronti.

Lui allora si azzittiva, poi prendeva il fiasco del vino che teneva di fianco alla botte e ne tracannava una discreta quantità.

Ricordo ancora oggi la fatica di quelle ore rubate al gioco, la sensazione sgradevole degli spruzzi di acqua e merda che andavano ad aggiungersi al sudore, il prurito e l'odore pungente che impregnava la pelle e ti restava addosso come una rogna.

Ci fu però un fatto che segnò profondamente la sua esistenza e scavò un solco profondo tra lui e l'acqua.

Accadde tutto al ritorno da Barbata: paese della bassa bergamasca, dove in quei giorni ci eravamo recati per far visita ai parenti.

Avevamo lasciato da poco la stazione e stavamo percorrendo il viale alberato che conduceva al frutteto; a un tratto si avvicinò una persona in bicicletta e disse a nostro padre che doveva andare subito ai canali perché era annegato un ragazzo che forse lui conosceva.

Quando arrivò sul posto e il carabiniere tolse il telo che copriva il giovane, lui lo riconobbe e per un momento sentì il corpo abbandonarlo.

Era il nipote, il suo nipote preferito che trascorreva le vacanze estive al frutteto, ma che in quei giorni, per la nostra assenza, era ospite in casa d'altri.

E pensare che pochi mesi prima il fiume che dava l'acqua a quel canale maledetto gli aveva regalato un momento di felicità: lui e un suo amico avevano pescato un luccio di dieci chili.

Un evento straordinario, al punto che nei giorni successivi uscì persino un articolo sul quotidiano locale con tanto di foto: lui sorridente e orgoglioso che sollevava deciso la pesante preda.

Pianse molto quel giorno maledetto e anche nei giorni successivi, e offuscò con il vino la visione che spesso tornava del nipote, poco più che un cucciolo d'uomo, rigonfio d'acqua e lo strisciante senso di colpa che lo opprimeva.

Non andò più a pescare, e restò per sempre alla larga dal fiume, dai canali e, per quanto possibile, dall'acqua stessa.

Quando alcuni anni dopo arrivò l'età della pensione, lasciò la campagna e comprò una casa nel centro storico del paese, attaccata al circolo vinicolo cooperativo.

Un giorno il barista gli chiese perché non aveva scelto un'abitazione con del verde intorno.

Lui, che stava bevendo del vino, posò il bicchiere sul banco e poi, cercando lo sguardo dell'uomo che aveva di fronte, rispose:

‐ Ho sempre fatto il contadino, in mezzo all'acqua, alla terra, al letame; e ho visto tanto di quel verde, che se anche non ne vedrò più sono a posto per il resto della vita!

Ostia come mi mancano le sue istintive battute! Come mi manca lui!

Se oggi fosse qui, lo porterei in quel ristorante del biellese che anche lui conosceva, dove fanno la polenta concia (che i medici chiamano polenta assassina) gravida di formaggi e liquida di burro fuso.

Da bere, per sciogliere certi pensieri di ghiaccio, ordinerei una buona bottiglia di rosso con sentori di frutteto: che l'acqua, come la vita, a volte fa male, e il vino...