Cesare e Ninni

Pensionato, magari giovanile nell’aspetto, sempre sobrio nel vestire, di poche parole e quasi mai sorridente: questo al primo impatto era il signor Cesare.Era rimasto vedovo da qualche anno; la sua compagna di vita, sua moglie, la sua “Ninni”, Giovanna, se n’era andata quasi in punta di piedi, quasi a scansare al suo Cé un pezzetto di dolore. Si erano sposati giovanissimi, forse, addirittura, diceva qualcuno, con il “consenso”, come si faceva per i minorenni, allora. Cé e Ninni, come i genovesi di un tempo, non davano confidenza, parlavano poco anche con i vicini di casa; operaio lui, dell’Ansaldo, come tanti di quella generazione del primo dopoguerra; casalinga lei, donna dell’entroterra, radici contadine, di quelle che anche in città coltivavano una piantina di rosmarino sul davanzale. Da quando Ninni era andata, Cé si era aggrovigliato ancor di più su sé stesso riuscendo a diventare, in poco tempo accigliato, burbero, scontroso e, per qualcuno, forse, indisponente. L’uomo retto, che si era preso sempre cura della sua Ninni, quello rispettoso delle regole sino alla noia; che beveva un solo bicchiere di vino a pasto anche quando andavano in trattoria o nelle rare vacanze; che sapeva cucinare, che aiutava in casa; il signor Cesare, sempre il primo a pagare le spese del condominio, si sentiva, dentro, carico di rabbia, come se tutto il mondo lo avesse offeso, portandogli via Ninni. Era sabato, quasi le otto di mattina, Cé usci di casa e, come faceva da un po’ di tempo, con l’asciugamano e un libro, si diresse verso la spiaggia; si era detto, quasi a convincersene o scusarsi, che almeno un po’ di sole poteva prenderlo, magari qualche acciacco si sarebbe un po’ lenito. Arrivò dopo poco, abitava nelle vicinanze; distese il telo sui sassi, nella zona dove questi erano un po’ più piccoli e arrotondati dal lavoro del mare, si spogliò, sedette e, inforcati gli occhiali, cominciò a sfogliare il libro alla ricerca del cartoncino colorato che usava come segno. Un libro di poesie, di uno spagnolo; non conosceva l’autore ma, gironzolando per il centro storico, su una bancarella, era rimasto colpito dal titolo: “La voce a te dovuta”. In una qualche maniera, quelle parole, lo portavano a ricordare la sua compagna, come se si rammaricasse di averla sempre tenuta nella penombra, in seconda fila rispetto a lui. Ma, dentro, quel libro, parlava di passioni, di un modo di amare intenso e pervadente; subito, dalle prime righe, capì che quel suo approccio con il titolo era quanto di più sbagliato potesse aver inteso.   *“sento già la tua pelleche mi offre il ritornoal palpito iniziale**senza luce, prima del mondo,*totale, senza forma, caos.”

Continuò, però, a leggere; pian piano, pagina dopo pagina, cominciò un suo viaggio a ritroso; le parole del poeta, come una vitamina che rinfranca il corpo, destarono ricordi, di quando lui e Ninni erano una cosa sola, un unico essere fatto di giovani corpi che si cercavano e si amavano; con una lacrima e un sorriso gli balenò l’immagine di quella volta, nel portone; vennero scoperti sul più bello dal nonno di lei; fortuna volle che il vecchietto, oltre a un’innata simpatia fosse anche pieno di vino e, nella penombra del sottoscala, non avesse riconosciuto sua nipote in quel miscuglio di corpi; solo un’esclamazione: “O Belin!”, con la lingua attorcigliata dal bere, e riprese a salire lentamente.Ninni e Cé, fra loro, ricordavano spesso l’episodio ma mai lo avevano raccontato a qualcuno, non era loro costume far uscire da casa anche la più piccola e pura delle intimità. Cé, assorto in tutti questi pensieri, umidicci di qualche lacrima, non si era accorto che lì vicino, un poco più verso la riva, dove si sente meglio la brezza del mare, si era sdraiata una sua vicina di casa. La signora Gina, esuberante ex fruttivendola del mercato, vedova anche lei, da meno anni, però. Era già una mezz’ora che Gina lo fissava, magari facendo finta, come solo una donna sa fare, di guardar oltre o di aggiustare un angolo del telo girato dal venticello lieve e odoroso del mattino; lo fissava e sorrideva con tenerezza, quasi che avesse scovato, involontariamente, un varco per capire chi fosse e come fosse realmente il signor Cesare. Quel libro, lei, lo conosceva bene, quei versi, anni addietro, sembrava che li avesse scritti il suo Arturo per lei, altro che quello spagnolo; Arturo, che prima che marito le fu amante, che la convinse a sconquassare un matrimonio, che a testa alta e fiero passo la portava in giro sotto braccio, con il suo papillon di seta e il gilet con tanto di orologio a cipolla e catena; Arturo che le fece fare le ferie in motocicletta; Arturo, il suo grande amore; e grande Pedro Salinas che adoperava così bene le parole, che descriveva, metteva su carta tutto quello che il suo animo provava e che la parola non riusciva a dire. “L’amava veramente tanto, la sua Ninni!” esordì, affermando. Cé, come se riemergesse da un’apnea da record, a quelle parole, tirò un lungo e rumoroso respiro, traducendo in fame d’aria, quasi da asmatico, l’aridità del suo vivere; la pioggia, quando cade su un terreno secco, in un primo momento, non bagna, solleva solo la polvere. Alzò lo sguardo dal libro, con timore; quella voce, pacata, dolce gli era entrata dentro ai padiglioni come un volo di zanzara a luci spente, rimbombando nel cervello, quasi non trovasse una via di fuga, rimbalzando in ogni direzione; due occhi tondi, quasi infantili, gli stavano sorridendo; si accorse di esser arrossito e sperò, illudendosi, che l’abbronzatura avesse, in qualche maniera, coperto l’incendio del viso. “Sì, Gina, Ninni era tutto, per me.” Per quel mattino, queste, furono le uniche parole che gli usciron di bocca. Tornò a casa, poco prima di mezzogiorno; aveva in programma le solite faccende domestiche, dal cucinarsi qualcosa al dare qualche colpo di scopa o lavare qualche panno; nulla di tutto questo accadde; cominciò a rovistare in libreria, cercando i quaderni di Ninni; quella donna gli aveva sempre scritto qualche riga, magari piccoli pensieri quando lui era al lavoro o, negli ultimi tempi, nelle interminabili sedute di chemio, al day hospital; ricordi di quando, appena sposati, avevano l’abitudine di leggere insieme un libro e magari, alla fine, di discutere sui personaggi. Trovò, finalmente quel che cercava; un quaderno di quelli con la copertina nera e lucida, i bordi delle pagine di colore rosso, la carta ben patinata e le rigature bluette; era proprio quello, l’ultimo quaderno di Ninni. Lo prese dallo scaffale quasi con devozione; stando ben attento a non scivolare dalla scaletta a tre gradini che adoperava per arrivare ai ripiani alti, scese, accese il piccolo stereo che si era comprato qualche giorno prima, cercò il suo pezzo preferito, di Morricone, la colonna sonora di “Giù la testa” e si andò a sedere in poltrona. Cominciò a sfogliare, sapendo che le poche frasi che cercava erano verso la fine del quaderno; trovò la pagina giusta, si sistemò con cura gli occhiali sul naso, si appoggiò completamente allo schienale della poltrona; un respiro profondo, le note lunghe e le voci di quel pezzo che gli davano serenità e cominciò a leggere: