Con i piedi tra le nuvole

Alice è bella, Alice è bellissima. È una di quelle bellezze rare che più le guardi più capisci che sono meravigliose.
I capelli neri lucenti le illuminano il viso dove due grossi occhi neri fanno bella vista anche grazie ad un astutissimo trucco leggero che applica sul volto. I denti sono di un bianco ammaliante, fanno da sfondo al rosso vivo delle sue labbra carnose.
Ha le mani curate ed affusolate, sempre ben decorate da smalti spesso scuri, a volte persino neri che la rendono misteriosamente sexy. I seni! Li valorizza astutamente con i vestiti: una scollatura intrigante, una maglietta aderente; qualunque cosa indossi è difficile non far cadere lo sguardo, almeno per un istante, sui suoi seni. Le sue gambe dovrebbero essere sempre nude ma ciò non è sempre possibile, a volte le calze le coprono o i jeans prendono il posto della minigonna esaltando però il suo sedere.
Ha un ottimo gusto per l’abbigliamento. Veste sempre bene, sempre alla moda, con jeans a vita bassa che a volte lasciano vedere provocatoriamente, mai volgarmente, i perizoma che indossa solitamente.
I suoi piedi sono bellissimi ma erano l’unica parte del suo corpo che non le piaceva di lei e potendo preferiva coprirli. Una volta l’avevo sentita lamentarsi con una sua amica, non le piacevano. Neanche lo smalto con cui decorava le unghie dei piedi, sempre dello stesso colore di quello sulle mani, serviva a farle cambiare opinione. Neanche coperti le piacevano, faceva una gran fatica a trovare delle scarpe che non glieli facessero odiare.
Per me erano bellissimi, ogni feticista sarebbe impazzito se avesse avuto la fortuna di vederli, nudi e smaltati.
La prima volta che vidi Alice fu qualche anno fa, sull’autobus. Veniva dall’estate ed aveva ancora l’abbronzatura addosso. Era splendida, con tutto ciò che il suo corpo offriva in bella vista. Le gambe nude, i piedi scoperti e smaltati di nero come le mani, una maglietta aderente con ampia scollatura. Un vero incanto.
Non sapevo ancora il suo nome, lo scoprii nei giorni seguenti perché continuai a vederla tutte le mattine sull’autobus con le sue amiche. Andava al quinto liceo.
Ogni mattina saliva qualche fermata dopo la mia, così decisi sempre di aspettarla per sedermi dietro di lei, se era possibile, per poter ascoltare le sue parole, mai a fianco però, perché non ne avrei avuto il coraggio, ero troppo timido, allora, e non avrei saputo dirle nulla.
Aveva una bella voce con un accento fiorentino che la rendeva ancor più intrigante di quanto non fosse già.
Capitava spesso di sedermi vicino a lei, così potevo ascoltare quello che raccontava.
Iniziai a scoprire tutto di lei: cosa guardava in tv quando restava a casa, dove andava quando usciva, con chi ci andava, cosa faceva, quali bevande beveva, con chi fumava, quali ragazzi le piacevano, che musica ascoltava, quando andava al cinema, quando, invece, in discoteca, dove andava quando marinava la scuola, quando si assentava perché malata, come si chiamava suo fratello, quali erano gli argomenti di litigio con i suoi genitori, in quale università si sarebbe iscritta una volta concluso il liceo, quali erano i suoi desideri, le sue paure, quali i suoi sogni, quando compiva gli anni, come si chiamavano i suoi amici.
Ascoltavo anche loro per poter sapere cosa pensassero di lei. Era un’amica fidata, nessuna delle sue amiche aveva da ridire su di lei. Molti dei suoi amici, invece, avrebbero voluto avere con lei un altro tipo di rapporto ma lei non si concedeva se non per amore.
Mi appuntavo tutto su di un quaderno, giorno per giorno.
Lo rileggevo spesso, lo studiavo. Sapevo tutto di Alice.
Vedevo i film che vedeva lei, leggevo i libri che leggeva lei, fumavo le sigarette che fumava lei, bevevo quello che beveva lei, andavo a vedere le vetrine dei negozi dove comprava i vestiti. Facevo tutto quello che faceva lei.
Un giorno la sentì litigare col suo fidanzato. Si chiamava Marco, un tipo qualunque che sembrava non avere grandi qualità, aveva la sua stessa età, stavano assieme da qualche mese. Lei aveva l’impressione che la tradisse. Io la realtà la conoscevo, l’avevo sentita il giorno prima proprio da Marco che parlando con i suoi amici aveva raccontato che ad una festa aveva incontrato Sonia, una sua ex. Lei era leggermente brilla, così lui ne aveva approfittato perché, disse, non poteva farsi scappare l’occasione.
La gelosia mi invase. Lui non la capiva, non sapeva nulla di lei, non la meritava. Io invece sapevo tutto, la conoscevo in ogni sua cosa, avevamo gli stessi gusti, eravamo fatti per stare assieme.
Così mi decisi a far qualcosa.
Nei giorni seguenti, dopo che si lasciò con Marco, provai a sedermi accanto a lei ma ci riuscii solo in un paio d’occasioni senza però rivolgerle una parola. Avevo il cuore che mi batteva all’impazzata per l’emozione, ma non avevo il coraggio di dirle nulla. Pensavo di non essere il tipo che faceva per lei. Era troppo bella ed io non lo ero abbastanza per interessarle.
Poi una mattina, lo ricordo ancora, era l’ultimo giorno di scuola, mentre parlava con un’amica, si voltò verso di me e mi fece un sorriso.
Le piacevo, era chiaro, adesso non potevo perdere altro tempo. Come avevo potuto immaginare che lei giudicasse solo il lato esteriore delle persone. Lei era diversa, andava oltre. Aveva intuito che in me c’erano tante altre qualità.
Così aspettai alla fermata per prendere l’autobus col quale tornava a casa, dopo la scuola. Era strana, forse aveva capito che stavo attendendo solo il momento giusto.
La seguii fino a casa. Arrivati davanti al cancello della palazzina dove abitava mi precipitai per entrare insieme a lei.
Mi guardò con uno sguardo particolare. Era sorpresa di vedere che finalmente avevo deciso di agire. Non aspettava altro.
Entrai con lei in ascensore.
Mi guardò e mi chiese gentilmente: ‐ Tu vai al primo, vero?
Non riuscivo a dire una parola, avevo il cuore che mi batteva come mai, ero emozionantissimo.
‐ Conosci qualcuno in questo palazzo? Mi chiese sorridendomi.
Non riuscii a risponderle nulla in quel momento.
La rapii e la portai a casa con me. Viveva con me a casa mia, mi aspettava, tutti i giorni, davanti la tv che le lasciavo accesa in camera.
Dopo mangiato mi chiudevo in camera mia e passavo il resto della giornata con lei. Mi aiutava a fare i compiti, giocavamo insieme al computer, guardavamo la tv, facevamo delle lunghe discussioni su argomenti vari. Parlavamo dei suoi piedi. L’avevo convinta che aveva dei bellissimi piedi e che non doveva coprirli mai, così cominciò ad indossare le scarpe aperte che per lei avevo preso, di nascosto, da casa sua assieme a tutti i suoi vestiti affinché potesse essere più bella di quanto non fosse già. Parlavamo di noi, dei nostri sogni più segreti, delle nostre paure, di cosa avremmo fatto non appena fossi diventato maggiorenne. Volevamo sposarci e andare a vivere in una città dove non dovevamo nascondere il nostro amore al resto del mondo. Lei voleva avere tanti bambini, voleva che fossi il suo uomo per il resto della sua vita e io volevo esserlo.
Eravamo felici assieme. Non le facevo mancare niente, le facevo avere tutto ciò che voleva. La trattavo come una principessa perché lei era la mia principessa.
Ogni giorno, quando tornavo a casa, le portavo sempre un regalo. Dei fiori, le piacevano le rose blu, le più belle; dei vestiti nuovi perché potesse essere sempre alla moda, dei film da vedere, dei libri perché potesse continuare a studiare. Aveva rinunciato ad andare all’università perché voleva stare con me, ma io avevo insistito affinché continuasse a studiare. Era intelligente, era una cosa che mi piaceva molto di lei e volevo che continuasse a restarlo, altrimenti non avrei potuto continuare a fare con lei quelle discussioni che mi piaceva tanto fare. Con lei si poteva parlare di tutto, era intelligente quanto bella. Le regalavo anche dei trucchi e degli smalti affinché potesse continuare a farsi più bella di quanto non fosse già, nonostante non vedesse nessuno. Doveva essere solo mia e lei voleva essere solo mia. Faceva tutto questo perché mi amava e non voleva vedere che me.
Quando i miei entravano in camera mia, per le pulizie o per riordinarla, lei si nascondeva sotto il letto. Non voleva che ci scoprissero, aveva paura che non accettassero il nostro amore e ci dividessero. Diceva che gli altri non avrebbero potuto capire il nostro amore e che se ci avessero separati lei si sarebbe suicidata perché non avrebbe potuto sopportare la lontananza da me. Così continuammo ad amarci di nascosto, nella nostra stanza, lontano da tutti quelli che non avrebbero potuto capire il nostro amore.
Stavamo bene assieme, nulla sembrava intaccare il nostro amore.
Ma ieri, tornando da scuola, l’ho vista sull’autobus. Era scappata.
Se ne stava avvinghiata ad un ragazzo che non avevo mai visto. Calzava dei sandali ed aveva le unghie dei piedi e delle mani smaltati di nero. Aveva le gambe nude, coperte solo da una minigonna ed una magliettina aderente. Era bellissima come mai lo era stata prima per me.
Rimasi lì a guardarla senza dire una parola mentre quello sconosciuto sembrava consolarla.
Mi aveva abbandonato.
Poi ad un tratto si è girata verso di me, per un istante, guardandomi malamente.
È scesa alla sua fermata insieme a quel ragazzo che l’aiutava a portare due grosse valigie in cui aveva messo tutta la roba che aveva a casa mia. Stava ritornando a casa. È la seconda volta che ascolto questa storia, mio figlio l’ha confessata ieri a pranzo, tornato da scuola, lasciandomi sbalordito. Anche Francesca, mia moglie, ne è rimasta sconvolta, le si leggeva in viso la stessa paura che mi assaliva ed oggi non ha avuto la forza di accompagnarmi.
Ma non riesco ancora a credere che mio figlio abbia immaginato tutto ciò. Avevo sempre pensato che fosse un ragazzo introverso, troppo timido e solo. Se ne stava sempre chiuso in camera sua, da solo, senza vedere nessuno, anche se io avevo più volte cercato di convincerlo ad uscire o ad invitare un amico. In tre anni di liceo non l’ho visto parlare con nessuno. Nella sua stanza si era creato il suo paese delle meraviglie ed aveva pensato di condividerlo con Alice.
Non riesco ancora a crederci.
Guardavo lo psicologo continuare a prendere appunti, in un compassato silenzio, mentre mio figlio se ne stava tranquillamente seduto sulla poltrona di pelle. Lui ci credeva a quello che aveva raccontato. Io invece non riesco ancora a crederci.