Crash di sistema

<> Crash di sistema. 

Sperduto tra la veglia e il sonno. Brandelli di codice inutile, senza più alcun senso, mi vorticavano intorno.
Ed io al centro di tutto, in un vuoto che andava acquistando fisicità di giorno in giorno.
Lampi di ricordi improvvisi. Una vita intera all’improvviso.
E poi più niente.
«Svegliati.»
Una voce confusa raggiunge la mia mente. Reagisco ancora con molta lentezza. Rimetto a fatica insieme i pezzi. Pezzi che giungono non so da dove. Sono miei?
«Coraggio, è passata. Te la sei vista brutta ma è passata!»
Apro gli occhi e una luce bianca mi acceca.
Poi una eclisse: la testa calva di un anziano si pone tra me e la luce.
Mi sorride: «Ricordi cosa ti è successo?»
Ignoro la domanda, mentre una molto più importante rapisce la mia attenzione: chi sono io? Sto per aprire la bocca e chiederlo a quell’individuo quando mi torna tutto in mente.
Una vita intera in una frazione di secondo. Ricordo tutto… quasi tutto.
Mi concentro di nuovo sulla sua domanda.
«Veramente no; ero al lavoro allo stabilimento quando ho perso i sensi e mi sono ritrovato qui. A proposito, dove mi trovo?»
«Sei al pronto soccorso, hai subìto un trauma cranico. Un braccio meccanico ti è venuto addosso. Proprio un brutto incidente.»
Per un attimo perdo la sicurezza appena riconquistata: non ero più sicuro dell’anno e del luogo in cui mi trovavo. Come se all’improvviso l’immagine che avevo nella memoria fosse andata fuori fuoco.
Lo chiedo, esitante.
Il medico sorride di nuovo e mi risponde prontamente: «Sei a Varsavia, è l’11 ottobre del 1939. Non devi preoccuparti, è normale: lo stato confusionale ti abbandonerà fra un po’. Nel frattempo riposati.»
«Sì, credo di averne bisogno.»
Chiudo gli occhi e il torpore mi avvolge nelle sue spire, fino a ché i suoni scompaiono e mi riaddormento prima di poter pensare altro.


«Muoviti, cazzo!»
Apro gli occhi e senza riflettere mi metto a correre. L’allarme suonava da diversi secondi, una nuova ondata era in arrivo. Corro nel lungo corridoio scuro che separa il reparto di vestizione dai nostri velivoli. Nella fretta ho lasciato l’armadietto aperto ma Bob mi aveva trascinato via con uno strattone, d’altro canto eravamo gli ultimi.
«Cazzo, non puoi lasciare che capiti in queste occasioni!» Bob mi urla dietro con il suo solito tono agitato. Aveva sempre quel tono, anche nelle occasioni più calme.
«E cosa credi che possa fare? Sai che non lo controllo.» rispondo con lo stesso identico tono.
«Beh, le pillole che prendi? Prendine di più, no?»
«Non mi stanno facendo niente, gli svenimenti e le allucinazioni continuano.» Finisco la frase e trovo un istante per pensare a quell’ultima visione: devo aver letto troppi libri di fantascienza, mi dico, per arrivare ad immaginare posti così assurdi e irreali.
«Fortuna che a guidare sono io… Merda!»
Il corridoio terminò, cedendo il passo al ponte di collegamento mobile: le pareti trasparenti mostravano uno spettacolo terrificante. Le navi venivano colpite prima ancora di armarsi; migliaia di esplosioni fino all’orbita più bassa.
«Mio Dio, no!» la frase mi scaturisce da sola, dal profondo, quando mi volto a sinistra e vedo un frammento di un velivolo distrutto, che ci piomba addosso.
«Bob, via di qui! Subito…»


Un solo istante di buio e poi riapro gli occhi.
I suoni sono cambiati: c’è calma  e tranquillità intorno a me.
Non mi sento confuso, sono stordito ma mi considero lucido a sufficienza.
«Sei fortunato, ti abbiamo preso appena in tempo.» disse una voce, con il tono di chi ripete ogni giorno sempre le stesse cose.
«Devo essere svenuto, mi sembrava solo un momento fa di essere…»
«Lo so, è normale in questi casi. Sei svenuto senza un apparente motivo, subito dopo aver urlato strane parole. I tuoi compagni si sono preoccupati…»
«Ricordo bene cosa è successo, non serve che me lo ripetiate. Ma vi prego, ditemi del mio compagno.»
«Il tuo compagno?»
«Sì, Bob. Il sottotenente Robert Taylor, matricola numero 183643.»
Capisco all’improvviso di non essere sdraiato, sono all’interno di una sorta di loculo trasparente pervaso da una tenue luce verdognola, sono quasi in piedi. L’inserviente che davanti a me teneva con la mano la lastra ermetica di sicurezza mi guarda come se fossi un alieno. Si avvicina e mi parla in un orecchio: «Credevo di averti già detto di smettere con quella roba: non ti potrò coprire per sempre, e comunque il tuo superiore si renderà conto prima o poi di ciò che sta accadendo. Adesso vai, coraggio: torna al lavoro. Ti è passata.»
Mi aiuta ad uscire dall’incubatore, improvvisamente la memoria di una vita intera fatta di avventure e scorribande se ne va e un’altra prende il suo posto. Lo shock è forte, inizio a tremare. Ricordo tutto: ero un semplice meccanico di trivelle su una colonia del settore C3, ma sognavo spesso e volentieri di andarmene.
Quando il pessimismo mi schiaffeggiava ricordandomi che avrei finito lì i miei giorni, allora trovavo altri modi per andarmene comunque…
… droghe.
Droghe che mi creavano una realtà parallela, che mi facevano rivivere gli antichi tempi della guerra. Droghe così evolute da crearmi un vero e proprio passato di ricordi, quasi tali da simulare anni di vita alle spalle.
Eppure qualcosa non quadrava.
Avevo ancora un vago ricordo di una civiltà aliena… un mondo lontano nel tempo e nello spazio, in cui ero stato un meccanico… ricordo la parola Varsavia, ma non la associo a nulla di concreto.
Strana come sensazione, mi ripeto mentre mi rivesto: non era una allucinazione come le altre. Sembrava più profonda, familiare… pericolosa.
«Non capisci più niente vero?»
Una voce roca e sporca mi coglie alla sprovvista mentre sto per riprendere il turno.
Mi volto, e faccio a mala pena in tempo a distinguere un essere dall’aspetto repellente e sudicio che mi fissa negli occhi.
Me lo trovo a pochi centimetri dal mio naso, e questo mi impedisce di vedere la lama che tiene nascosta dietro il fianco.
Con un movimento fulmineo agita l’arma fendendo l’aria, e con lei anche la mia gola: faccio in tempo a sentire la sua ultima frase: «Devi muoverti, capisci? La macchina controlla tutto, devi trovarla se vuoi fermarti.»
La vita mi passa davanti. Rivedo il matrimonio e i miei figli, mentre continuo a tentare di capire perché stia accadendo. Tentare di trovare un movente.
Ma ero ancora stordito dalla droga per rendermi conto fino in fondo che ero stato assassinato.
Chiudo gli occhi ancora una volta.


«Biglietti, prego!»
La voce aveva un tono insistente e scocciato: forse non era il primo tentativo che faceva di svegliarmi.
Il suono sordo e ripetitivo di un treno in corsa si fece largo nella mia mente.
Apro gli occhi e cerco si stirarmi senza invadere gli altri posti a sedere.
La luce del mattino illuminava tutto il vagone con il suo timbro dorato: all’esterno, subito oltre la ferrovia, un dirupo scendeva per diverse decine di metri, fino al mare.
Il treno stava costeggiando il golfo di Trieste.
Alzo lo sguardo e metto a fuoco il controllore: era rimasto in silenzio per alcuni istanti, aspettando che mi svegliassi per bene. Era alla ricerca affannosa del mio sguardo, e appena lo trovo ripeté: 
«Biglietti, prego!»
Ogni giorno dovevo fare i conti con il ritardo di quel maledetto treno: la coincidenza era soli sette minuti dopo e ne impiegavo circa tre per raggiungere la fermata dell’autobus.
E quel treno faceva ritardo un giorno sì e uno anche.
Gli consegno il biglietto senza neppure guardarlo in faccia: mi volto verso il mare, a guardare tutti quei triangoli colorati che si muovevano lentamente su di esso.
Fra poco sarei stato a bordo di uno di quelli, e le onde, che da quassù apparivano congelate e immobili, mi avrebbero dato diverse noie, oggi.
«… La macchina!»
La frase del controllore era stata probabilmente più lunga, ma distratto dai miei pensieri avevo registrato solo quella parola.
… la macchina…
«Quale macchina?» faccio io, perplesso.
«Non ha usato la macchinetta per obliterare il biglietto?»
Ignoro la domanda inquisitoria di quell’individuo e un improvviso panico mi assale quando mi rendo conto di avere la mente totalmente vuota e sgombra di ricordi di ogni genere. A parte quelle poche informazioni sul fatto di essere pendolare e di dover salire su una barca a vela ogni giorno, mi rendo conto di non possederne altre. Attorno a quei ricordi c’è il vuoto, il buio completo.
Ignoro perfino il mio nome.
Ma la cosa più insensata è il fatto che concentrandomi su quei pochi elementi ancora in mio possesso vengo pervaso da una strana sicurezza, una certezza in una vita e un passato che, non so come, ignoro del tutto. Arrivo perfino a provare un forte senso di noia di vivere, tipico di chi ripete lo stesso “tram tram” per anni e anni, ma tuttavia non ne ho alcuna memoria.
La voce insistente del controllore continua ad aumentare di volume, richiamando l’attenzione degli altri pendolari del mattino, mentre io continuo a navigare alla cieca nel buio della mia mente.
In un istante mi raggiungono dei ricordi sconnessi: sono tre esperienze, tre momenti di vita che credo mi appartengano ma troppo assurdi per essere reali.
Sono lontani tra loro. Estremamente lontani; eppure ho la strana sensazione di averli provati di recente, di averli vissuti in sequenza.
Come dei sogni dentro ai sogni.
A quell’ultima consapevolezza segue immediato un forte senso di nausea, un giramento di testa mi costringe a chiudere gli occhi. Se fossi stato in piedi probabilmente sarei caduto.
Il paesaggio continua a girarmi intorno.
Quei ricordi confusi e inconciliabili iniziano a prendere fisicità, acquistano realismo e concretezza.
Ne distinguo sempre più i particolari.
Decido di lasciarmi andare e non curarmi più della soluzione di tutto ciò: mi rivolgo al controllore.
«Lei non dovrebbe darmi l’ennesima spiegazione che giustifica i miei ricordi precedenti?»
«Come ha detto prego?»
Il tentativo aveva fallito miseramente: mi resi conto della stupidaggine che avevo detto, o per lo meno di quanto potesse apparire idiota quella domanda, vista dall’esterno.
«Niente, mi scusi.»
La speranza di uscire da quel caos si dileguò in un secondo, così come era arrivata.
Tornai a fissare il mare, in una inquietudine crescente.
Se fosse stato realmente un sogno sarebbe stato un incubo, ma purtroppo era la realtà.
«Se vuole può risolvere questa situazione.»
La frase del controllore richiamò la mia attenzione e tornai a fissarlo con rinnovata curiosità e speranza.
Forse non ero solo.
«Può timbrarlo all’arrivo.»
«Posso… cosa?» quell’individuo era di nuovo passato dall’essere la mia guida e salvezza all’essere la creatura più inutile dell’Universo.
«C’è una nuova legge, in questi casi può timbrarlo all’arrivo: ecco. C’è una macchina apposta per i casi come questi.»
Mi consegna una specie di ricevuta, non so cosa sia, non la leggo nemmeno. Non mi interessa, così come non mi importa nulla della legge di cui aveva parlato quell’individuo, che ora stava già controllando gli altri passeggeri.
Tento in tutti i modi di ricordare qualcosa di quella nuova vita in cui mi ero ritrovato ma non c’è verso, paradossalmente ho più immagini provenienti da quelle allucinazioni o sogni che dalla realtà che mi circonda.
Resto in silenzio a lungo.
Il treno raggiunge il terminal e i pendolari escono con la solita fretta dagli scompartimenti.
Io invece mi attardo, evitando la ressa: oggi non credo che prenderò l’autobus, mi dico.
Non ho voglia. Non ne ho più.
Scendo dal treno e una gelida folata di bora mi ricorda di essere in inverno inoltrato.
Arriva alla spicciolata qualche remota immagine della mia vita triestina, ma sono ricordi sconnessi ancora una volta.
Non li comprendo fino in fondo: mi appaiono come vissuti in prima persona ma non sembrano sposarsi affatto con la vita di un pendolare.
Rifiuto quelle immagini, le allontano: voglio credere che ci sia una spiegazione logica a tutto questo. Sento di aver passato il punto di non ritorno, il limite massimo di sopportazione: se dovesse anche tornarmi tutto alla mente non credo che lo accetterei. Non mi andrebbe più bene, ormai. Non potrei andare al lavoro come se nulla fosse, anche perché non so quanto potrebbe durare la cosa, prima che qualcun altro mi svegli dicendomi che erano tutte allucinazioni.
Non sono in grado di credere a nulla di ciò che faccio, a questo punto.
Nella rassegnazione e passività più totali cammino lentamente, prendendomi tutto il tempo necessario per raggiungere la fine del binario.
Prendo dalla tasca il foglio consegnatomi dal conducente: c’è una intestazione.
Parla di questa nuova macchina: contiene un database con tutti i clienti delle ferrovie dello stato.
Mi chiedo come possano conoscere i miei dati.
L’inconscio mi suggerisce la risposta: i biglietti, mi dico. I biglietti sono cambiati adesso. Ogni persona possiede un biglietto personale che la identifica e che memorizza i suoi viaggi.
Tre nuove immagini mi tornano alla mente: è assurdo, ma sulla colonia C3, che fosse stata una allucinazione o chissà cosa, c’era tuttavia uno di quei biglietti. Mi spuntava dalla tasca della giubba.
Anche nel sogno precedente ce n’era uno: era nel mio armadietto, che era rimasto aperto quando Bob mi aveva trascinato via, verso la morte.
E perfino a Varsavia, nel ’39, avevo posseduto uno di quei biglietti.
Uno strano disegno prende forma, il numero di tasselli aumenta ma non riescono ancora ad incastrarsi nel modo giusto e non fanno altro, così, che aumentare la mia confusione.
Acquisto la consapevolezza che il biglietto era sempre stato lo stesso, uno solo: l’unica cosa, forse, che accomunava quelle tre visioni e questa ultima realtà.
Entro in stazione, mi guardo intorno e individuo la macchina in questione.
Sembra una normale obliteratrice, ma possiede un piccolo display nella parte superiore.
Metto una mano nella tasca sinistra e trovo il biglietto: sembra un normale biglietto ferroviario, ma manca il nome sopra.
So che dovrebbe esserci perché il biglietto è identificativo del proprietario, ma sul mio non c’è.
Mi avvicino alla macchina.
Alcune persone ogni tanto arrivano, la usano e poi se ne vanno. Proprio come una normale obliteratrice.
Aspetto che non ci sia nessuno, poi provo io: sul display compare la scritta

<> Digitare una domanda…

Provo a scrivere
<Cosa sei?>.
Attendo un po’, poi compare la scritta di errore, accompagnata dal messaggio laconico:

<> Non è stata trovata una risposta alla domanda.

Provo in un altro modo:
<Qual è il tuo scopo?>
La risposta questa volta non si fa attendere:

<> Il mio scopo è il controllo di tutto il traffico ferroviario.
<> Il mio database contiene tutti i clienti delle ferrovie dello stato.
<> Gestisco e aggiorno tutti i biglietti emessi.

Prendo il mio biglietto, lo guardo ancora una volta e lo infilo nella fessura.
Compare immediatamente la scritta:

<> Errore grave. Biglietto privo di codice. Arresto del sistema in corso!

Aspetto un paio di secondi, poi il buio.
All’improvviso scompare tutto, la stazione, la voce dall’altoparlante, i rumori, la luce.
Il mio corpo non riceve più informazioni dall’esterno.
I miei ricordi scompaiono, la mia mente si svuota di quel poco che aveva e si pulisce.
Rimane solo quel display davanti a me, debolmente luminoso.
Un cursore continua a lampeggiare.
Dopo diversi secondi compare un ultima scritta:

<> Kernel non trovato. Impossibile riavviare.
<> Specificare un percorso per il Kernel di sistema.

Non riesco più a pensare: non tanto per il disorientamento o la paura, ma semplicemente perché non ho più elementi su cui impostare un pensiero.
L’unica cosa che mi echeggia nella mente e una sola domanda.
“Chi sono io?”
Vorrei guardare intorno, ma non riesco a voltarmi: non mi sento più il corpo ma considero la possibilità che non esista più.
Ad ogni modo, anche voltandomi non credo che avrei visto gran ché: ero circondato dall’oscurità più totale.
Aspetto ancora un po’, indeciso; poi decido di ignorare le scritte senza senso che compaiono su quel display e faccio la mia domanda. Non posso digitarla, ma pensarla è sufficiente per vederla comparire d’innanzi a me:
<Chi sono io?>

<> Sistema ripristinato.

FINE