Dietro le tende

La signora Rossana era una vecchia amica. Vecchia per modo di dire. Quando era ragazza, ed io solo un bambino, la sua famiglia era stata vicina di casa dei miei e avevo assistito, inconsapevole, a tutti i suoi cambiamenti adolescenziali, rimpiangendo di aver perso una compagna di giochi con cui scambiare fumetti. Ricordo ancora il mio stupore quando la vidi per la prima volta in minigonna, e mia madre, cercando di interpretare i miei pensieri inespressi, mi disse, con un mezzo sorriso misterioso, che Rossana non poteva più giocare con me perché era diventata “signorina”. Tanto valeva mi dicesse che era diventata un’aliena dello spazio!
Crescendo, non ci eravamo mai persi del tutto di vista. La nostra era un’amicizia in sordina, di quelle che ti vedi una volta ogni mille anni ed è come se ti fossi lasciato un attimo prima.
Era stata la prima persona cui avevo osato mostrare i miei primi raccontini, ricevendone preziosi incoraggiamenti, e per questo le ero molto grato. Così, nonostante con gli anni fossero cambiate tante cose per entrambi, vedersi era sempre una gioia. Facevamo lunghissime chiacchierate e tante risate.
A volte, nei momenti in cui la discussione si faceva seria, sentivo nell’aria come una sorta di elettricità. Incrociando il suo sguardo mi sembrava di cogliere come dei lampi, come se in quegli occhi qualcosa si affacciasse a spiarmi. Ma mi dicevo che erano tutte mie fantasie e non ci badavo.
Un giorno, avrò avuto si e no diciassette anni, come le altre volte, ero passato a trovarla nel primo pomeriggio e dopo il solito caffè ci eravamo spostati in salotto. C’era qualcosa di diverso nell’aria, un aroma, un profumo nuovo, che non riuscivo a collegare a niente, sebbene sulla tavola in mezzo alla sala trionfasse un gran vaso pieno di fiori freschi. Rossana aveva il solito finto – ora lo so ‐ buonumore che hanno tutti quelli che dicono a se stessi e agli altri che tutto va bene, anche quando non è vero, e parlava stranamente meno del solito, senza però sviare l’attenzione dalle mie parole.
Io parlavo e parlavo, raccontandole, da insicuro cronico qual’ero, dei miei mille interrogativi esistenziali, fatti di vicende scolastiche, lavorative ed amorose. Ad un certo punto non ebbi altro da dire, mentre lei mi fissava con un misterioso sorriso incoraggiante, ma senza dire una parola. Mi sembrava strano che non dicesse nulla, chiacchierona come la conoscevo, ma se cercavo di coinvolgerla in una discussione, si limitava ad abbassare gli occhi, per poi rialzarli subito dopo, lasciando le mie domande per aria.
Finalmente mi chiese dei miei racconti, come fosse l’unico argomento di cui si aspettasse di sentire parlare, e la cosa un po’ mi spiazzò. Da mesi, ormai, non riuscivo a buttar giù una parola che mi piacesse, ed il cestino sotto la mia scrivania era zeppo di fogli appallottolati. Pensai che in qualche modo avesse intuito che evitavo l’argomento ma accettai l’occasione che lei mi offriva, per vuotare il sacco.
Così le spiegai di come sentissi in testa milioni di parole e migliaia di storie, che aspettavano solo di essere messe su carta, e di come sentissi un tappo dentro che non permetteva loro di uscire. Di come le parole mi sparissero dalla mente, al limite della deficienza mentale, ogni volta che provavo ad esprimerle, e di come, nel contempo, le sentissi affollarsi davanti all’uscita della mia mente, come una folla scalmanata che chiedesse attenzione. Degli orrendi risultati ottenuti cercando di dar loro un ordine ed un senso e di come non mi interessasse il successo e la fama, ma solo dare libero sfogo a quella ridda, a quella fiumana di personaggi che chiedevano di poter parlare attraverso me. Del senso di liberazione e tristezza, al tempo stesso, che provavo ogni volta che riuscivo a mettere la parola FINE ad una nuova storia. E di come questa terribile tensione mi avesse più volte fatto venire voglia di buttare la macchina da scrivere dalla finestra…
Mi volsi a guardarla. Mi ero lasciato prendere dal mio sfogo al punto tale da non percepirne più la presenza accanto a me. Ma Rossana era ancora lì, il sorriso un po’ divertito, lo sguardo sempre dolce. Io invece mi sentivo in terribile imbarazzo, messo a nudo, con una vampa di calore sul collo e sulle guance. Va bene che lei era un’amica e potevo star sicuro che non lo avrebbe raccontato ad anima viva, ma sentivo di aver abbassato tutte le mie difese, rivelandole cose che già mi faceva male raccontare a me stesso. Erano i miei sogni più nascosti, le mie ambizioni più segrete, e continuavo a sentirle sempre un pelo al di là della punta delle mie dita. Era la mia ferita segreta. Il tormento che faceva ridere i miei amici quando provavo a parlarne con loro. Ma non Rossana, lei non rideva.
Forse dal mio improvviso silenzio capì che stavo scappando. Stavo, infatti, per alzarmi con l’intenzione di trovare una scusa per andar via, quando me la trovai di fronte, vicinissima. Mi prese una guancia nella mano, cosa che mi diede come una scarica elettrica, che attribuii alla tensione del discorso. Poi mi diede un bacio, dolcissimo, a fior di labbra, ed io sentii che qualcosa dentro di me si rilassava, si distendeva. La guardai stupito e grato, pensando che…
“Vieni”, disse piano. Mi affidai a lei e mi ritrovai in camera da letto, tra le sue braccia. Anch’io la stringevo con braccia che sembravano non essere più mie, che si muovevano senza mia volontà, mentre il resto del mio corpo rivendicava una vita propria con una forza che non avevo mai sperimentato. Col suo corpo sul mio, mi sentii bene come non mi ero mai sentito prima.
Mi accasciai, infine, con la faccia sul suo seno, respirandone il caldo profumo, e chiusi gli occhi.
Si alzò dal letto dolcemente, lasciandomi fra le coperte ed i cuscini che ancora odoravano di lei. Quando riaprii gli occhi era quasi del tutto rivestita. La mia Rossana era ridiventata la signora Rossana e questa signora aveva due figli ed un marito che presto sarebbero tornati.
Mi rivestii in silenzio. Non sapevo cosa dire o quali domande fare. Lasciai che fosse lei a fare il primo passo. A dirmi, magari, cosa dovevo fare.
Rossana mi prese il viso fra le mani, fissandomi dritto negli occhi. “Scrivi, hai capito? Qualunque cosa tu faccia nella vita, non smettere mai di scrivere. So cosa sei capace di fare, cosa riesci a trasmettere, l’ho provato con tutto quello che mi hai portato finora. Tu hai un dono, non puoi buttarlo via. Non rinunciare ai tuoi sogni, non smettere mai di provare a realizzarli, o non ti resteranno che rimpianti. Lasciali uscire quei personaggi di cui parlavi, lasciali parlare, uno per uno. E se un giorno non sapessi cosa raccontare, racconta di oggi. Sarò l’unica a sapere che è vero”.
L’abbracciai, confuso e commosso. C’erano tante domande che avrei voluto farle, in verità, ma mi sembravano tutte inutili.
“Ora và” disse lei, “non preoccuparti per me, andrà tutto bene. Pensa solo a scrivere e a farti la tua strada. Farò sempre il tifo per te e un giorno sono sicura che leggerò di te sui giornali”.
Non potevo fingere che non fosse successo nulla. Le sue parole erano una spinta ad andare avanti ma, lo sentivo, anche un addio. Ci salutammo, fingendo entrambi, come se così non fosse, ma fu l’ultima volta che la vidi.
Qualche mese più tardi, un giorno, tornando da scuola, seppi che Rossana si era improvvisamente separata dal marito ed era andata ad abitare, insieme ai figli, in un’altra città. Nessuno sapeva quale. Di lei s’era persa ogni traccia. Ci rimasi male. Poi pensai che quella fosse proprio la sua intenzione e non provai neanche a cercarla. Del resto non avrei saputo come.
Due anni dopo fui io a fare le valigie e a salire sul treno della speranza, alla volta di Milano, dove mi aspettavano gli studi universitari. Non ho mai più smesso di scrivere ed oggi mi guadagno da vivere lavorando per un giornale. Al di là degli articoli, però, ho anche scritto e pubblicato storie di vario tipo.
Per cui questo proprio lo dovevo, a Rossana, che ovviamente non è il vero nome di quella donna per me straordinaria. Anche se tutti gli altri penseranno che è solo una storia, spero che lei legga queste parole e sappia che aveva visto più lontano di me, perché con quel gesto mi ha garantito un futuro.