EROS E PSICHE

  "Lasciar colei non posso per niente, e, se io potessi ancora, io non vorria; avertila convien per altra via."
(M.M.Boiardo)

    Molti secoli or sono, si dice agli albori dell’umanità, c’era la figlia del sovrano di un minuscolo regno divenuta famosa per la sua straordinaria bellezza. Una fanciulla considerata rara opera d’arte della Natura, per intenderci. Si chiamava Psiche. Tanto era bella ed eccezionali erano la grazia e l’armonia delle sue forme che si era sparsa la voce che Afrodite, dea dell’amore, avesse assunto in lei le sembianze umane. Questa convinzione, tuttavia, si rivelerà errata. La notizia era circolata rapidamente in ogni luogo del regno a tal punto che aveva destato un’incontrollabile curiosità in tutti gli uomini che, da ogni parte, si recavano ad ammirare quello straordinario splendore misto a fulgida graziosità bizzarra, espressione di qualcosa di inspiegabilmente arcano. ‐ Meraviglia delle meraviglie! Il suo corpo candido, quasi trasparente, etereo si mescola con l’aria e sembra dall’aria prendere forma –, enfatizzavano alcuni che erano rimasti ore e ore ad ammirarla. ‐ La strabiliante bellezza di questa bellissima fanciulla lascia incantati, stregati, storditi, estasiati, attoniti, abulici! – Esclamavano altri all’unisono.  Psiche aveva due sorelle che trovarono presto marito, mentre nessuno, invece, osava chiederla in sposa perché era convincimento diffuso che un comune mortale non potesse coniugarsi con una donna ritenuta divina. Neppure gli sforzi fatti dai genitori, affinché anche quest’altra figlia si maritasse, riuscirono nell’intento. Le furono presentati notabili ma anche uomini comuni. Niente da fare. Nessuno aveva il proposito di sfiorarla. Nessuno aveva l’audacia di congiungersi con Psiche. Che bizzarrie! Che contraddizioni! Che incoerenze! Gli uomini sono costantemente sedotti dalla bellezza fisica di una donna ma, quando ne vedono la perfezione, la loro mascolinità viene stranamente inibita. File lunghissime ed estenuanti di uomini procedevano lentamente nel grande salone della reggia, ogni giorno, per rimirare quell’incredibile prodigio della Natura. Conseguentemente tutta quella gente per far questo non solo aveva disertato i templi, i templi di tutti gli dei, compresi quelli di Afrodite, ma aveva abbandonato il lavoro, le case e le mogli le quali, non facendo sesso da molto tempo ormai, si sentivano abbandonate, depresse e sconfortate. Come drogati, tutti quegli uomini avevano allestito dei bivacchi attorno alla città per andare a contemplare, giorno dopo giorno, quell’impeccabile esemplare divino. La magnificenza di Psiche era tale che aveva creato una vera e propria rivoluzione in tutto il regno, suscitando nel popolo sentimenti inconsueti e strani, fino ad allora sconosciuti, che l’attrazione fisica da sola non poteva infondere. Ogni uomo si trovò di colpo in uno stato mentale che gli generava una condizione estatica nel momento in cui osservava Psiche, l’essere più bello mai nato in nessuna parte del mondo. Tutto questo, tuttavia, recava grande offesa agli dei, ad Afrodite, in particolare, venerata come dea dell’amore, la quale, notando che i templi dedicati a lei rimanevano deserti, non vedendosi venerata adorata idolatrata, incominciò dapprima a sentirsi trascurata oltraggiata vilipesa offesa, per adirarsi infine facendosi cogliere da tremenda invidia per quella fanciulla, la cui unica colpa era la sua eccezionale avvenenza. Afrodite riteneva che non era ammissibile che gli uomini adorassero una comune mortale, anche se bellissima e d’alto lignaggio, trascurando l’amore fisico e il piacere sessuale tanto cari a lei. Psiche aveva compromesso tutto ciò che la dea aveva promosso e realizzato nel corso del tempo tra gli uomini, e con ciò stava mettendo a rischio l’umana procreazione. Questo non era tollerabile per Afrodite, perché l’amore non poteva essere puro, ideale, incorporeo, elevato, non poteva essere soltanto amore espresso da qualcosa di impercettibile materialmente. Psiche per questo doveva essere punita inevitabilmente. Ma fu l’invidia o una sana e retta convinzione a indurre Afrodite a coinvolgere il figlio Eros? Questi era un fanciullo biondo, grazioso, bello, con gli occhi penetranti, che portava sempre con sé un arco e una faretra con due tipi di frecce, quelle dalla punta d’oro e quelle dalla punta di piombo. Le frecce con la punta dorata per trasmettere a chi era colpito il desiderio gioioso di amare, il godimento fisico del rapporto sessuale, il trasporto amoroso generato dai sensi. Le frecce con la punta plumbea per infondere, invece, l’incapacità d’amare, e per annullare l’impulso del desiderio amoroso. Eros assentì, come sempre, all’ordine della madre, ma nel suo agire gli si presentò un fatto strano, inconsueto, straordinario negli effetti, mai verificatosi prima di allora. Eros nel vedere per la prima volta Psiche se ne innamorò subito, suscitò senza farsi notare, in Psiche, un profondo desiderio amoroso, colpendola con una freccia dalla punta d’oro, e le trasferì, nel contempo, la voglia del godimento fisico. Eros le infiammò il cuore, la stremò, la soggiogò, le tolse la volontà di prendere qualunque decisione, s’impossessò di Psiche suscitandole atteggiamenti di delirio e di sfrenato impulso amoroso. Conquistò il suo corpo. E Psiche, a sua volta, inconsapevolmente trasferì in Eros attrazione spirituale associando, all’amore fisico e alla voglia amorosa, un inconsueto impulso passionale che il dio non aveva mai provato prima di allora. Eros, che fino ad allora aveva espresso soltanto amore fisico, da quel momento incominciò a godere dei deliziosi effluvi piacevoli dell’amore spirituale. Fu così che Eros e Psiche, Amore e Anima, costituirono una coppia divinamente perfetta. Eros che, fino ad allora, era stato un esecutore preciso e determinato degli ordini della madre, questa volta li eluse involontariamente. Di conseguenza, i due innamorati si trovarono, come per incanto, a dimorare beatamente in un palazzo immerso in un’oasi naturale, dove limpide acque di ruscelli e laghetti alimentavano un meraviglioso giardino incantato: alberi e cespugli colmi di fiori e di succosi frutti, dalle molteplici forme e dagli svariati colori, emanavano una mescolanza di profumi inebrianti le loro menti e solleticanti i loro cuori. Con impeto Eros aveva sconvolto e turbato Psiche che ormai era felice, soddisfatta e contenta per aver trovato finalmente il compagno della sua vita. Innamorati divennero amanti, ma sotto una condizione rigorosa e perentoria: Psiche quando giaceva accanto a Eros doveva rimanere bendata, e non doveva né vederlo né fargli domande di alcun genere. Non rispettando questa condizione il loro amore sarebbe svanito nel nulla. Per sempre. Per questo, stando sdraiati nello stesso talamo, si scambiavano amore vicendevolmente, ma Psiche rimaneva bendata. Eros, infatti, ogni sera, prima di mettersi a letto, stando nascosto, ricordava a Psiche di bendarsi. E Psiche eseguiva senza discutere. Furono le sorelle, invidiose prima per la bellezza e ora per cotanta fortuna, a stimolare in Psiche un’incontrollabile curiosità! Una notte, infatti, Psiche, colta da un innato desiderio di sapere, non ebbe la forza di rispettare il divieto inumano e irrazionale impostole da Eros. Era ingiusto e non aveva senso che, durante l’accoppiamento, lui poteva guardarla e lei non poteva vederlo. Fu spinta, dunque, dalla bramosia di ammirare il suo innamorato, e spiò Eros che giaceva dormiente dopo una lunga e dolce notte d’amore. Si tolse irrimediabilmente la benda, accese una lucerna ad olio per fare più luce, l’avvicinò al volto del suo amore e poi scoprendolo gli guardò tutto il corpo. Che sconcerto! Che sbalordimento! Che stupore! Che sussulto passionale! Che emozione profonda! Che eccitazione incantevole ebbe l’animo di Psiche! Che meravigliosa fu quella visione! Era bellissimo il volto di Eros, era dorata la sua chioma, era armonioso il suo corpo, era splendido e fulgido il suo candore. Le parve simile ad un dio. In quel momento, Psiche provò un’ebbrezza amorosa più intensa di prima e capì che l’avrebbe amato finché le fosse rimasto in corpo l’ultimo respiro, l’ultimo fiato, l’ultima molecola di ossigeno. A quella vista, alla fanciulla la passione le s’infiammò così fortemente che subito si sentì priva di forza, stremata, come se le si fossero sciolte le membra tal quale il sale in acqua. Non aveva provato mai qualcosa di simile e non aveva visto mai, in vita sua, un giovane più bello di Eros tra tutti quelli che il padre le aveva presentato e tra tutti quelli che avevano sfilato dinanzi a lei. Rimase estasiata, priva di volontà, avvinta, invasata, e traeva da quella visione nutrimento senza mai saziarsi di amore per Eros. Un sottile velo di sudore le coprì improvvisamente tutta l’epidermide che in quel momento divenne più fulgida. Subito dopo la fanciulla provò una sensazione di rilassamento, di benessere che le pervase tutto il corpo. Non aveva la forza di distogliere lo sguardo dal viso di Eros, dal suo corpo ignudo, da quel corpo luminoso che stranamente come il sole irradiava luce propria. Non appena rinsavì da quel meraviglioso smarrimento, Psiche si domandò perché Eros le aveva proibito di osservare cotanta bellezza. Distratta per un attimo da questo legittimo pensiero, un brivido inaspettato l’assalì, un impulso istintivo la colpì, la mano le tremò e la lucerna vacillò, mentre una piccola goccia d’olio caldo cadde sul corpo ignudo di Eros, che si svegliò di soprassalto, scosse la testa e si stropicciò gli occhi. Vide Psiche che, senza la benda, lo rimirava con stupito stupore. Che profondissimo dolore provò in quel momento, Eros. Dolore e rabbia assieme lo strinsero con forza, lo avvinsero inevitabilmente. ‐ Ahimè! Psiche, amore mio, anima mia, cosa hai fatto? Perché non hai rispettato ciò che ti avevo ordinato? Perché mi hai guardato? ‐ Esclamò Eros, dileguandosi improvvisamente nel buio della notte come polvere minuta al vento. Psiche pensò ad uno scherzo, o meglio ad un gioco. Con la lucerna cercò Eros nella stanza, e poi fuori. Lo cercò dappertutto, anche in giardino, tra gli alberi, sotto i cespugli, negli anfratti, ma invano. In un baleno, il suo amore, il suo sogno, il suo delirio, il letto, su cui avevano espresso i loro sentimenti più intimi, il palazzo, il giardino tutto, scomparvero immediatamente. Tutto si dissolse. Che desolazione amara provò. Ogni cosa evaporò subito come un velo d’acqua al sole rovente di agosto. Si trovò la fanciulla, sola, tremante, piangente, disperata, sventurata, abbandonata, trasognata, in un solo attimo. In un attimo soltanto! Tutto quel giardino paradisiaco si trasformò in deserto, improvvisamente. Il profondo piacere che aveva provato un momento prima si era trasformato subito dopo in una profonda angoscia. Provò quella sensazione che si prova al risveglio, di soprassalto, dopo un cattivo sogno. Non riusciva a comprendere Psiche ciò che era realmente successo. Invece ‐ già la notte aveva fatto posto ad un nuovo giorno ‐ si rese conto che non stava sognando. Si sentì, povera creatura, sola, abbandonata, afflitta, sconsolata, svuotata di ogni plausibile significato della vita, in quel momento. Tutto questo per aver dato ascolto alle cattivissime sorelle! Incominciò allora a cercare senza sosta alcuna e senza bussola. Errabonda attraversò montagne e valli, torrenti e fiumi, dirupi e anfratti, alla ricerca di Eros. Tutto fu vano. Era così disperata che incominciò piangendo ad invocare, addirittura, il dio Thanatos, per scrollarsi di dosso con la morte quel gran dolore, quella profonda afflizione che il distacco da Eros le aveva procurato. Voleva spegnersi per la disperazione, dissolversi come si era dissolto tutto ciò che di meraviglioso aveva provato prima. Quando un bel sogno finisce è come morire. Rimase delusa, poveretta, perché, pur pregando continuamente, nessun dio si prodigò per aiutarla. Tutti gli dei, compreso Zeus, non le dettero ascolto perché non volevano fare un torto alla crudele e spietata Afrodite. Solo la dea Demetra, colta dal sentimento di pietà, confidò a Psiche che Afrodite la invidiava e la odiava per la sua bellezza, e che ne desiderava la morte soprattutto dopo aver saputo del suo rapporto amoroso con il figlio Eros. La dea si limitò a riferirle solo questo e la pregò di non confidare a nessuno ciò di cui era venuta a conoscenza, per non irritare Afrodite, considerata la dea più potente dell’Olimpo. Ormai Psiche, avendo cercato inutilmente la soluzione al problema, pensò che sarebbe stato meglio recarsi da Afrodite e chiederle grazia. Salì sull’Olimpo, dove si presentò al cospetto della dea, la quale inveì contro di lei con inconsueta cattiveria, manifestando tutto l’odio che serbava in corpo. Comportamento incomprensibile per la dea dell’amore perché l’amore si contrappone sempre all’odio. Afrodite rimproverò Psiche sia perché aveva preteso di diventare sua nuora, sia perché possedeva cotanta bellezza, sia perché la considerava colpevole di aver tolto agli uomini il senso del rapporto amoroso, di aver distrutto il loro bisogno amoroso vanificandone il desiderio e di aver attenuato in loro il bisogno dell’amore fisico. Afrodite sosteneva che la bellezza di una donna doveva essere in grado di suscitare soltanto l’amore fisico, l’unico amore che gli uomini erano in grado di conoscere. Psiche, invece, aveva la colpa di trasferire nell’uomo un nuovo modo di concepire l’amore, l’amore che scaturiva dalla simbiosi dell’Amore con l’Anima. E Afrodite questo non poteva né condividerlo né sopportarlo. Nell’amore fisico, l’uomo poteva mostrare tutta la sua brutalità primordiale e il proprio istinto animalesco, dove non potevano trovare posto né i sentimenti né la spiritualità, perché era convinta che ciò avrebbe compromesso la procreazione e, quindi, la stessa esistenza dell’uomo sulla terra. La dea, tuttavia, concesse a Psiche ipocritamente un’occasione di salvezza: se voleva continuare a vivere doveva divenire sua schiava ed eseguire qualunque suo ordine. Psiche assentì e schiava fu. Afrodite allora le ordinò, per prima cosa, un lavoro impossibile da farsi in breve tempo; le comandò di separare i semi di frumento, avena, orzo, segale, lenticchie, contenuti nello stesso sacco e metterli in recipienti diversi. Doveva separare tutti quei grani prima che sopraggiungesse il vespro. Non era ammesso alcun minimo errore. Disperata Psiche, dopo aver iniziato quel compito, si rese conto che non avrebbe potuto farcela e, scoraggiata, incominciò a piangere. Nel frattempo, però, dal sacco sbucarono tantissime formiche che si divisero i compiti nella scelta e nel trasporto dei semi portando a compimento la separazione totale dei semi. Prima che facesse buio Psiche chiamò Afrodite la quale, meravigliata del lavoro portato a termine, s’infuriò per la rabbia. Ebbe il sospetto che il lavoro non fosse stato eseguito dalla fanciulla e andò a letto senza poter prendere sonno. Il giorno successivo, la dea ancora adirata e stanca per non aver dormito, ordinò a Psiche di riempire un sacco di fiocchi di lana dorata presso un gregge di pecore dal vello d’oro che pascolavano in un prato, difficile da raggiungere. Quel gregge oltretutto era del dio Apollo che aveva proibito a chiunque di avvicinarvisi, pena la morte. Psiche inconsapevole di ciò si incamminò verso quel prato e attraversò un folto canneto, le cui canne sfiorate dal vento vibrarono generando una voce salvifica che le consigliava di eseguire il lavoro al calar del sole, quando le pecore fossero rientrate all’ovile. Lei avrebbe potuto raccogliere facilmente tutti i fiocchi di lana che casualmente erano strappati dai folti rovi spinosi attraverso cui erano costretti a passare i preziosi ovini. In tal modo Psiche non avrebbe trasgredito il divieto del dio. Così fece. Afrodite si strabiliò nel vedere il sacco pieno di lana e, adirandosi ancor più di prima, diede alla fanciulla un altro compito, ancor più difficile, forse impossibile da eseguirsi. Le ordinò di recarsi nell’Averno e di riempire d’acqua del fiume Stige un’anfora di terracotta, facendo attenzione a non perderne neppure una goccia. Le consegnò la brocca e le indicò la strada. Psiche si avviò e scese, tramante e impaurita, in quel lugubre luogo dove sperava di restarvi, visto che per lei vivere ormai era diventato un continuo tormento. Andò da Caronte al quale chiese, piangendo, di traghettarla al di là del fiume Acheronte per raggiungere il fiume Stige. Il truce traghettatore, forse attratto da cotanta bellezza e dispiaciuto che una così deliziosa e innocente giovine fosse stata mandata negli inferi, si impietosì e l’accontentò. Arrivata al putrido fiume, Psiche riempì l’anfora, e si avviò sulla strada del ritorno avendo cura di non farne cadere neppure una goccia. Teneva, con le due mani, stretta al petto l’anfora piena della putrida acqua, i cui effluvi puzzolenti dopo un po’ di tempo la stordirono. Psiche stramazzò a terra, svenuta, esanime. La fragile anfora si ruppe e l’acqua in essa contenuta si cosparse in mille rivoli. Eros, rimasto invisibile fino a quel momento, aveva seguito Psiche, passo dopo passo, proteggendola in ogni sua azione sin da quando si era dileguato nel nulla. Lui aveva organizzato le formiche per la cernita dei semi, lui aveva fatto vibrare le canne per suggerirle come raccogliere la lana, lui aveva convinto Caronte di traghettarla oltre il fiume Acheronte. Nel buio dell’Averno, Eros si materializzò e portò fuori, alla luce, nel mondo dei vivi, la sua adorabile amata ancora priva di sensi. Poi, stringendola forte al petto, si sollevò in volo verso l’Olimpo, e la depose dolcemente dinnanzi al trono di Zeus, implorando il padre di tutti gli dei di avere pietà di quella meravigliosa ma sfortunata fanciulla, rea soltanto di essere bella, sulla quale si erano abbattute tante disgrazie paragonabili, come entità, alla sua bellezza che più che una qualità era stata considerata da sua madre Afrodite un difetto. Zeus, consapevole di tutto, fece rinsavire Psiche e la congiunse in matrimonio ad Eros in modo indissolubile e per l’eternità. Così, Eros e Psiche, Amore e Anima, non si separarono mai più, lottando eternamente contro Afrodite. Eros e Psiche vissero congiunti per sempre, immortali tra gli dei immortali, a testimoniare l’indissolubilità dell’Amore con l’Anima, a confermare che non può esserci Amore senza Anima, altrimenti non è vero Amore.