Foglie, scarponi e pezzetti di legno

A mia figlia Aurora
Mi chiamo Bart Friman, come mio nonno, che a dire il vero si chiamava Bartholomew Freeman, militare della RAF e inglese doc, il quale decise di fermarsi in Italia alla fine della guerra, per sposare mia nonna Michela, che, tra un bombardamento e l'altro, era incinta di mio padre.
L'uso e le inflessioni dialettali della ricostruzione, nel dopoguerra, hanno poi storpiato la forma del mio cognome, ma la sostanza del mio essere italoinglese, o angloitaliano, mi ha destinato, in modo quasi karmico, ad oscillare come un pendolo, per viaggi prima, per lavoro poi, tra la Malpensa e Heathrow…
Insomma, chiamatemi Bart e saremo amici.
Per vivere, faccio sia lo psicologo criminale che lo psicologo infantile. Secondo qualcuno dei miei illustri colleghi lo sono di nome e di fatto. Criminale ed infantile, non psicologo.
A mia difesa ammetto di avere la tendenza a muovermi un po' sopra le righe, nel mio lavoro. Ricordo che mio figlio Michael, dieci anni, l'anno scorso, durante uno scambio di idee sulle regole, mi disse: "Il cappello parlante ti avrebbe destinato alla serpe verde…"
Il punto secondo me è che se si vuole raggiungere una verità oggettiva in storie e situazioni a volte complesse quanto drammatiche, non sempre ci si può muovere secondo le regole…
Qualche mese fa, per esempio, ricevetti da una clinica del veronese l'invito a presentarmi per assumere l'incarico di una perizia su un caso controverso di duplice infanticidio. Quando lo assunsi non immaginavo quanto avrebbe potuto esserlo.
Secondo la scheda informativa anticipatami via mail dal procuratore legale, che lessi durante il viaggio in aereo, la signora Stefania S., 35 anni, era accusata di aver ucciso le due figliolette di 12 e 11 anni durante una sorta di raptus, avvenuto in una sperduta località di montagna, senza alcun testimone. Successivamente era stata ritrovata in casa, in uno stato confusionale sospeso a metà tra realtà e allucinazione e ricoverata in una clinica psichiatrica.
La scheda diceva inoltre che la donna era separata e del marito, Andrea T., non si aveva più traccia. Le ultime notizie lo davano mesi addietro in partenza, a quanto pareva definitiva, per la Spagna. "Un marito‐padre esemplare", segnai a margine sulla mia scheda.
La prima volta che la incontrai, la paziente era in pieno stato allucinatorio, la terapia farmacologica aveva solamente limitato le sue azioni.
Durante i primi colloqui asserì, con voce calma e delirante convinzione, di vedere nella sua stanza della clinica, le due figliolette morte, che venivano ora a salutarla e a farle compagnia, ora a rimproverarla e perseguitarla, non tanto per la morte che ella, presumibilmente, aveva, volontariamente o meno, causato loro, quanto per non essere stata una buona madre e non averle, a suo giudizio, sapute amare abbastanza. In quei momenti la paziente era così tormentata dal senso di colpa da dover essere contenuta a letto per evitare gesti autolesivi.
Per una pietosa fortuna, uno di quei misteriosi, e a volte misericordiosi, meccanismi della psiche aveva rimosso dalla sua memoria il momento del delitto, così come il concetto stesso della scomparsa delle bambine. Diversamente, sarebbe stato molto difficile evitare azioni estreme.
Dai reiterati colloqui con la paziente risultava impossibile risalire a cosa effettivamente fosse successo al momento del duplice delitto. La sua mente oscillava continuamente tra la realtà della clinica, il campeggio con le bambine e alcuni suoi ricordi d'infanzia…
Su quest'ultima area, in particolare, si erano istintivamente concentrati i miei sforzi investigativi. C'era qualcosa di oscuro nei ricordi della paziente: quando si avvicinava al ricordo di quella che sembrava una gita in campagna fatta da bambina con i suoi genitori, di colpo si bloccava, chiudendosi in un mutismo assoluto, le braccia strette intorno alle ginocchia, mentre i suoi occhi sbarrati esprimevano un terrore senza nome…
Come sempre in questi casi, il mio compito era dimostrare se la paziente fosse consapevole o meno delle sue azioni al momento del delitto, o almeno, visto che non c'erano altri testimoni, dovevo cercare di capire cosa fosse realmente successo… Ma rimettendo insieme i vari pezzi del puzzle non riuscivo a venirne a capo. Mancava qualcosa…
Riascoltando i resoconti registrati della paziente provavo una sensazione di tragedia incombente, di dramma dietro l'angolo. Ma non riuscivo a focalizzarlo…
Amo il mio lavoro, e ho scelto di svolgerlo da libero professionista per avere la massima libertà d'azione possibile e nessun superiore cui dover rendere conto. Ma ci sono momenti in cui mi scontro con la realtà di fatto che tutti gli sforzi di una sola persona non sempre sono sufficienti a trovare il proverbiale bandolo della matassa.
La ricostruzione del passato della paziente sarebbe stata una buona via per raggiungerne i ricordi rimossi, ma sembrava che tutti i suoi congiunti appartenessero già da tempo al mondo dei più, eccezion fatta per il marito che, a quanto pareva, non aveva alcuna voglia di farsi trovare e che in ogni caso, tra l'esserci o il non esserci… Con buona pace di Amleto.
Per fortuna a volte il destino, il caso o come lo si voglia chiamare dà una mano… anche se nei modi più impensati.
La direzione della clinica mi aveva assegnato, in modo alquanto freddo e formalmente distaccato, uno studiolo, dove poter tenere le mie carte per tutta la durata delle indagini peritali. Circa una settimana dopo il mio arrivo, rientrando una mattina dal mio giro tra commissariato, dove avevo chiesto ed ottenuto dal magistrato di riesaminare i documenti stilati dalla scientifica, e tribunale, dove il procuratore legale mi aveva fatto il quadro della situazione della mia assistita, trovai sulla scrivania la stampa di una mail indirizzata alla direzione della clinica, lasciata lì senza un biglietto, un post‐it o altra spiegazione. Lì per lì pensai ad un errore di consegna, ad una svista: non ero certo io il direttore! Tuttavia lessi…   Spettabile Direzione Clinica "Villa Lavinia",
mi chiamo Enrica S. e sono la sorella della signora Stefania S. che ho saputo essere vostra degente. Mi scuso per essermi fatta viva solo ora, ma ormai da anni vivo e lavoro in Francia e per vicissitudini che sarò lieta di spiegarVi, da quando mi sono trasferita non ho più avuto contatti con mia sorella.
Solo pochi giorni fa, durante un viaggio di lavoro, ho appreso casualmente dalla stampa italiana la notizia della tragedia avvenutale. Non essendo riuscita ad aiutarla prima, ho sentito il bisogno di fare qualcosa adesso, dopo tanti anni.
Desidero riabbracciare mia sorella e, se possibile, aiutarla nella sua attuale situazione.
Sarò ovviamente lieta di ricambiare la Vostra cortesia dove mi sarà possibile e come riterreTe più opportuno.
Sperando che la mia proposta incontri il Vostro interesse, porgo Cordiali saluti Enrica S . Fissai immediatamente l'incontro con la signora Enrica per la metà della mia terza settimana di indagini e di tollerata (dalla direzione) permanenza in clinica.
Quando, il mercoledì successivo, accompagnata da un'infermiera, Enrica S. entrò nel mio studiolo, per un attimo non credetti ai miei occhi: non era solo la sorella della mia paziente, era la sua gemella identica!
Ripresomi, dopo un momento di sguardi reciprocamente imbarazzati, la feci accomodare su una delle due poltroncine in pelle sotto la finestra, tanto per dare un tono meno ufficiale e formale alla cosa.
Poi iniziai: ‐ lei mi scuserà, ma vedendola sono rimasto senza parole! ‐ ‐ Non si scusi ‐ rispose, con un lieve accento francese, e la sottile tendenza ad accentuare le vocali finali… ‐ capisco la sua reazione, nella mia mail non l'avevo precisato… ‐ poi, come percorsa un brivido improvviso aggiunse ‐ Le spiace se fumo? Mi aiuterebbe a rilassarmi, vista la ragione della mia presenza qui… ‐
Annuii semplicemente, passandole, in modo piuttosto goffo a dire il vero, un posacenere che si trovava sulla scrivania e che avevo usato fino a quel momento come fermacarte.
Mentre Enrica accendeva la sua sigaretta con pochi gesti essenziali, mi concessi un istante per riprendermi e studiarla: se fisicamente era identica a Stefania, quanto era diversa dentro?
Un tailleur gessato, che mi parve sobrio ma elegante, con la gonna che da sopra il ginocchio lasciava scoperte due gambe notevoli ed evidentemente ben curate, la giacca aperta sulla camicia bianca, una di quelle con il colletto largo, i primi due bottoni slacciati, i lembi scostati quel tanto da attrarre senza dare adito a facili promesse… Le lunghe dita affusolate e sottili estrassero la sigaretta da un elegante astuccio in pelle, senza alcuna fretta, senza alcun movimento brusco, fluidamente…
I suoi gesti non sembravano studiati ma notai che anche lei stava usando quegli istanti per riflettere, come per concentrarsi su qualcosa che era ancora lontano, nella sua mente.
Oltre la prima, lunga boccata di fumo che si stese tra di noi come una nebbia sottile, osservai un viso sul quale il trucco era stato steso in modo talmente impeccabile e apparentemente discreto da sembrare quasi inesistente, mentre lasciava che l'attenzione di chi osservava fosse attratta dai suoi lineamenti in modo quasi casuale…
Tutto, nella donna che avevo di fronte, parlava di cura del particolare, di meticolosa attenzione al dettaglio, dosata in modo tale da renderla attraente ma non appariscente. Una volontà di ferro in guanto di velluto, pensai. Forza, stile e discrezione… Mentre lasciavo che il mio istinto reagisse alle sensazioni che ella mi dava, una improvvisa convinzione si accese in me: quella donna aveva sofferto prima di diventare ciò che io vedevo, doveva aver costruito se stessa pezzo dopo pezzo e non doveva essere stato facile. Ecco perché la sua eleganza, il suo atteggiamento mi apparivano così… forgiati, più che semplicemente indossati.
Lasciai che finisse la sigaretta mentre mettevo via il mio blocco per appunti, in modo da rendere il nostro colloquio il più disteso e rilassato possibile.
Quando il suo sguardo cominciò a volgersi verso un punto indefinito oltre il vetro della finestra, ‐cosa può dirmi ‐ iniziai con calma ‐ della sua infanzia con sua sorella? La prego, non risparmi alcun particolare. Per quanto possa sembrarle insignificante, potrebbe essere importante per risalire alla verità circa i fatti che riguardano sua sorella Stefania ‐
Senza distogliere lo sguardo dalla finestra, con un tono di voce apparentemente atono e distaccato, come se le sue parole provenissero da un angolo remoto dei suoi pensieri: ‐ ho letto sui giornali che la tragedia è avvenuta in un bosco di montagna, e che sono stati trovati strani giocattoli, fatti con rami e pezzi di stoffa, vicino al luogo del delitto ‐ rispose.
‐ Si ‐ confermai dopo un istante ‐ questo le ha fatto venire in mente qualcosa? ‐
‐ Per caso mia sorella ha parlato di un fantasma nel bosco? ‐
‐ Si ‐ risposi ancora, mentre sentivo che tanto valeva giocare a carte scoperte se volevo guadagnarmi la sua fiducia. ‐ Anzi, a dire il vero è il centro del suo delirio. Dai colloqui effettuati dall'equipe della clinica e da me stesso, sembra che sua sorella sia convinta che le bambine siano state rapite dal fantasma di una bambina persasi in quel bosco anni fa. Ne imita spesso il triste richiamo con voce infantile, come se l'avesse sentita veramente, ma non si riesce ad andare oltre… ‐ Il fantasma chiama la mamma, vero? ‐ chiese Enrica con un tono che mi parve scontato e rassegnato, come di chi fa una domanda sapendo già la triste risposta. Ciò attirò la mia attenzione.
‐ Si signora, ma, mi scusi, come fa lei a conoscere questi particolari? Non mi pare che la stampa li avesse resi noti… ‐
‐ La voce della bambina che chiama la mamma ‐ si volse, assumendo un tono forzatamente lento, come stesse cercando di trattenersi, di arginare qualcosa che dentro di lei stava arrivando di corsa, troppo di corsa, forse, da molto, molto lontano… ‐ la bambina scomparsa nel bosco che chiama la mamma… Quella bambina è lei! La voce che dice di sentire è la sua stessa! La sua… di tanti anni fa… ‐
Avevo quasi timore di parlare, di interrompere il flusso dei suoi pensieri, ma ebbi l'impressione che esitasse un attimo di troppo, come chi getti lo sguardo in un pozzo buio e profondo ed avvertendo istintivamente la paura di cadervi, se ne ritragga ‐ la prego, signora, si spieghi meglio ‐ tentai di incitarla, cercando nel contempo di farle sentire la mia presenza, fuori e dentro il suo mondo di immagini mentali.
Si distolse per un attimo dai suoi pensieri e mi fissò, come a volersi sincerare che fossi veramente lì con lei, accanto a lei ‐ sono cose che credevo di aver ormai dimenticato… Dopo tanti anni ero riuscita a non sognare nemmeno più quella storia… Ma quando ho letto l'articolo sul giornale… E' stato come se tutte le porte della mia memoria si spalancassero di nuovo… come se tutto stesse succedendo ancora… Così ho capito che dovevo fare qualcosa, che non potevo continuare a scappare… ‐
Si rivolse di nuovo al vuoto del cielo plumbeo di quel pomeriggio ‐ quando eravamo bambine… ‐ cominciò, con voce spezzata, esitante… Ed in quell'istante sentii che ora eravamo entrambi sull'orlo di un abisso, dalla cui sommità una bambina con la voce di donna mi indicava, col ditino teso, qualcosa che avveniva laggiù, sul fondo, in un buio denso e vischioso di nere ombre vive…
‐ Quell'uomo… nostro padre… abusava di noi… di me e mia sorella… di nascosto da nostra madre. Mi prendeva da sola, me o Stefania… e quando aveva finito…mi minacciava… dicendo che se avessi parlato a qualcuno di quello che lui chiamava "il nostro segreto", sarebbe successo qualcosa di brutto a mia sorella o a nostra madre.
Noi due, terrorizzate, per anni non ne parlammo nemmeno fra noi, convinte che almeno all'altra fosse stata risparmiata quella… brutta cosa… quella bestialità. Nostra madre era una donna dolce ma debole, non sospettava minimamente cosa avvenisse tra noi… e nostro padre. Fino al giorno della gita nel bosco…
Era novembre inoltrato. Avevamo circa undici anni. Gli alberi avevano tutti i colori dell'autunno e le foglie cadute formavano tutto intorno un morbido tappeto che scricchiolava leggermente sotto i nostri piedi. Andammo tutti insieme a fare una gita per i boschi e ne approfittammo per mangiare all'aperto. Era una bellissima giornata. Dopo pranzo, i nostri genitori si addormentarono in macchina e noi, io e mia sorella, sedute su una vecchia coperta schiena contro schiena, cominciammo a giocare costruendo delle bambole con pezzi di stracci vecchi, che avevamo trovato in auto, e ramoscelli d'albero.
Quando fu il momento di vestire le nostre bambole… entrambe ci rendemmo di colpo conto che le stavamo vestendo in modo tale da legar loro le gambe molto strette, in modo che non si potessero allargare senza essere spezzate… e nessuna delle due aveva suggerito all'altra come fare…
Quel particolare ci aprì di colpo gli occhi, all'improvviso ci rendemmo ognuna conto che l'altra sapeva tutto, sul segreto di papà… Non ci fu bisogno di parole… se anche avessimo saputo cosa dire…
All'improvviso udimmo aprirsi lo sportello dell'auto… e cominciammo a tremare… sentivamo sulle foglie secche il suono degli scarponi da montagna di nostro padre, farsi sempre più vicino… Ci disse di andare a cercar funghi con lui finché la mamma dormiva, così al suo risveglio le avremmo fatto una sorpresa…
A volte i bambini capiscono molto più di quel che non dicano… fu un attimo… Stefania ed io cominciammo a correre per il bosco mentre nostro padre ci inseguiva, gridando che ce l'avrebbe fatta pagare se non ci fossimo fermate… e noi cercavamo di correre ancora più forte, tenendoci strette per mano… cercando ognuna di dare forza all'altra… ma nostro padre ci stava raggiungendo… sicuramente lo avrebbe fatto… ancora.
All'improvviso ci trovammo sull'orlo di un crepaccio, a strapiombo su un torrente gonfiato dalle piogge autunnali… lui stava arrivando… nel panico ci dividemmo e corremmo in direzioni opposte… Io riuscii a nascondermi in mezzo ai rovi, pungendomi e graffiandomi dappertutto, sperando che lui mi superasse… dal mio nascondiglio invece lo vidi raggiungere e afferrare mia sorella per i capelli… e Stefania… nel tentativo di divincolarsi… cadde nel torrente…
Corsi allora dalla mamma e le rivelai tutto piangendo, chiedendole perdono perché la stavo mettendo in pericolo… ma anche Stefania ora era in pericolo… Ricordo che mi guardò incredula per attimi interminabili… poi, vedendo nostro padre tornare indietro con la faccia stravolta, gli occhi sbarrati e la camicia strappata sul petto, mi caricò in macchina e senza dire una parola mi portò dai Carabinieri. Per fortuna di nascosto da nostro padre aveva imparato a guidare… Io rimasi in caserma, mentre lei tornava nel bosco a cercare mia sorella. Con loro.
Non vidi più nostro padre e non so che fine abbia fatto. Anni dopo seppi che era stato arrestato. La mamma ci raccontò che non voleva più averlo in casa e che lui se n'era andato. Invece c'era stato il processo, dove lui aveva confessato tutto… Per una volta, noi non ne avevamo saputo nulla. Per una volta era stata la mamma a proteggerci.
Ritrovarono mia sorella nel letto del torrente, l'acqua fortunatamente aveva attutito la caduta e lei si era ritrovata sulla riva, tutta zuppa e infangata, con una delle nostre bamboline di stracci stretta al petto. Riuscirono a ritrovarla perché la udirono chiamare nostra madre… con la stessa voce da bambina che ha sentito lei, dottore.
Mi guardò. Lacrime silenziose le correvano insieme lungo le guance, nere di mascara… Le porsi un fazzoletto in un gesto che mi parve poca cosa rispetto al suo dolore di bambina e di donna con dentro un simile segreto…
‐ Quando tornammo a casa ‐ continuò, accettando con un minuscolo sorriso il mio misero gesto ed asciugandosi le guance ‐ mi resi conto che mia sorella non ricordava nulla di tutto quel che le era successo ‐
Si fermò un momento, come a riprendere fiato.
‐ L'unica cosa che, anni dopo, mi fece capire che, da qualche parte, dentro di lei, quei ricordi orribili c'erano ancora, fu una strana favola che inventò quando frequentavamo le superiori: la storia di una bambina abbandonata nei boschi il cui fantasma di notte chiamava la madre. Oltre questo mia sorella non ricordò mai nulla. Io e la mamma decidemmo fosse meglio così, che era già sufficiente che li ricordassimo noi, quei momenti…
Qualche anno dopo io vinsi una borsa di studio all'estero e scelsi la Francia, dov'era ambientata la maggior parte dei film che guardavo allora. Là conobbi Jean‐Pierre. Aveva poco più dei miei anni ma era già il tipo di uomo che avrei voluto fosse mio padre: dolce, forte e premuroso. Decisi che almeno sarebbe stato il padre dei miei figli.
Ci sposammo dopo circa un anno ed io rinacqui con lui. Tornai in Italia solo quando morì mia madre, ma non mi fu possibile incontrare Stefania: suo marito aveva deciso di lasciare il funerale prima della fine della cerimonia e lei lo aveva seguito, senza opporre alcuna resistenza. Capii subito che aveva trovato un altro padre da cui farsi maltrattare, ma non potei fermarla.
Così me ne tornai a Lione, sperando che Stefania trovasse la forza di chiedere il mio aiuto: l'avrei accolta immediatamente e senza riserve in casa mia… Ma non lo fece mai…
‐ Ecco dottore, ‐ disse traendo un gran sospiro, come a riprendere il controllo di sé e della realtà circostante, mentre finiva di asciugare la ultime lacrime ‐ questi sono i fatti. Sono venticinque anni che mi porto dentro questo peso. Spero che aver ricordato tutto quel che ho impiegato anni a dimenticare, serva almeno ad aiutare mia sorella. Ora, se non ha altro da chiedermi, potrei vederla?
‐ Mi alzai lentamente, interiormente ancora scosso da quella vicenda. Aprii la porta e gettai uno sguardo in direzione della guardiola d'ingresso ‐ Infermiera, per favore potrebbe accompagnare la signora alla camera 28? ‐ Poi mi rivolsi a quella donna coraggiosa e… ‐ Arrivederla signora Enrica, e grazie di essere venuta. La farò richiamare per l'epoca del processo, ma stia tranquilla, ora sono sicuro di riuscire ad aiutare sua sorella. Le auguro tutta la felicità che merita ‐
‐ Faccia il possibile, dottore. Vorrei tanto portare mia sorella in Francia con me per farla curare lì e starle accanto, finalmente insieme dopo tutti questi anni… Anche lei ha diritto ad un'altra possibilità… ‐ altre lacrime stavano già brillando tra le sue ciglia ‐ faccia tutto il possibile. Adieu ‐
Il giorno del processo l'aula traboccava di folla. La vicenda aveva suscitato così tanto scalpore da attirare, oltre ai giornalisti, decine di persone ansiose di sapere come la corte avrebbe giudicato "la donna che aveva assassinato le sue figlie". L'imputata non era in aula, il Direttore sanitario della clinica ne aveva certificato l'impossibilità a presenziare.
Quando fu il momento di presentare le prove a discarico l'avvocato Orlandi, il cui studio legale aveva chiesto il mio intervento quale perito della difesa, si alzò in piedi e con voce calma declamò: ‐ Signor giudice, Vostro onore, signori giurati, è mio parere che i fatti esposti nella presente perizia, alla luce della testimonianza inattaccabile della signora Enrica S., sorella dell'imputata, e della documentazione giudiziaria allegata, riguardante i fatti avvenuti all'imputata stessa quand'era bambina, dimostreranno senza dubbio alcuno a questa corte, che l'imputata non era, al momento dei fatti in oggetto, capace di intendere e di volere, in quanto prigioniera involontaria dei propri ricordi rimossi.
Come spiegherò alla corte, la notte del duplice infanticidio, per un bizzarro e tragico scherzo del destino, alcuni orribili ricordi tornarono di colpo alla mente dell'imputata, per chissà quale fattore scatenante, ed ella, fino a quel momento madre tenera e premurosa, per evitare alle figlie la stessa sorte che aveva subito da bambina, le nascose, per così dire, nell'unico modo in cui, nella sua mente sconvolta, suo padre, il proprio padre, non le avrebbe mai trovate. Fatto, quest'ultimo, supportato dallo stesso attuale delirio dell'imputata, come risulta dalle registrazioni comprese nella presente perizia, secondo la quale per l'imputata le figlie non sono morte, ma sono nascoste da qualche parte nel bosco e prima o poi torneranno… ‐
Stefania S. venne riconosciuta colpevole del duplice omicidio ma in base agli articoli di legge sull'infermità mentale, venne dichiarata "incapace di intendere e di volere al momento dei fatti" e la sentenza finale fu che trascorresse un periodo di cura in una struttura psichiatrica giudiziaria da definirsi.
Enrica, la gemella, riuscì ad ottenere, in quella stessa occasione, il nulla osta, in quanto unica congiunta vivente, a che il periodo di cura venisse trascorso a Lione, ove risiede tuttora.
Durante il percorso alla volta del Catullo, dove mi aspettava l'aereo che mi avrebbe riportato a Gatwick, ripensai a quanto e cosa avevo sentito in tutta quella storia. Per distrarmi, durante il viaggio ripensai a mio figlio Michael, dal quale ero ansioso di farmi spiegare, per l'ennesima volta, la storia del cappello parlante e della serpe verde…
Lieto fine di una brutta storia? Non lo so, in questi casi è sempre una vittoria di Pirro. Una brutta storia, comunque, come ne capitano di brutte nel mio lavoro.
Passando per Trafalgar Square, diretto a casa, mentre Londra si prepara al Natale e i cori di ragazzi intonano le carole di casa in casa, infilo una mano nella tasca del soprabito e accarezzo il portachiavi che mi ha regalato mio figlio, il cui ciondolo riproduce il pupazzo Simpson che porta il mio nome. I bambini… che cosa meravigliosa…