Fuori tempo

‐ Diventare cavaliere, come mio padre ‐
Rispondeva questo a chiunque gli chiedesse cosa volesse “fare da grande”. E, infatti, era questo quello che sognava, cercare di rassomigliare ad una persona di cui fino a quel momento aveva solo sentito parlare. Perché lui non aveva mai conosciuto suo padre, fortuna che, invece, era toccata ad altri. Ed erano proprio questi altri che parlavano di suo padre; ne parlavano sempre, come si parla di una leggenda, come si parla di un eroe… come si parla di un morto.
E lui viveva nell’ombra di questi bisbigli, mormorii che generava essendo “il figlio”. Ma a lui non interessava, non bramava la gloria di un eroe morto. Lui cercava il padre, ne voleva ripercorrere i passi, sperando di capire se, oltre ad un eroe, era stato anche un uomo che lo aveva amato.
E così nel bagliore sfocato di un sogno trascorse i giorni che, nella loro infinita monotonia, lo accompagnavano.
Nessuno si stupì quando iniziò a maneggiare la spada; una spada che ondeggiava nelle sue mani rendendo tutto più simile ad una macabra danza per far scorrere sangue e acqua.
Diventò tiratore scelto, quasi l’arco fosse un suo amico d’infanzia.
E così, fra armi, allenamenti e sogni, crebbe. Quando decise di abbandonare il suo villaggio fu una scelta come tante altre. Non aveva nulla che ormai lo legava a quell’ambiente quasi idilliaco.
Da allora camminò. La strada la sua casa, il mondo la sua avventura. Nessuno, però, gli aveva mai spiegato che gli eroi cappa e spada esistono solo nelle fiabe, che ormai non c’era nessuna damigella da salvare e che quel mondo, che lui si illudeva di conoscere, in realtà era ben diverso.
Tuttavia non si fermò, ma intestardito dal suo sogno perseverò in quella che riteneva un’impresa sensificatrice.
E cavaliere lo fu, trovò il suo re, a cui giurò fedeltà.
‐ Fierezza, forza, coraggio ed onore ‐
Rispose così a quel re quando questi gli chiese per cosa combattesse.
Sì, era cavaliere, aveva un re, ma nel profondo sentiva che qualcosa mancava. Era la perfida notte che, portando la sua oscurità, recava questo tormenti. Perché quando lui non combatteva, non si allenava e nel suo giaciglio si limitava a osservare le stelle, prima che il sonno potesse liberarlo dalla stanchezza, dalle profondità dei suoi visceri qualcosa giungeva a tormentarlo. Come se fosse una voce che poi gli sussurrava all’orecchio: ‐ È questo che vuoi? ‐
Lui in quel sogno ci credeva, e preferiva ignorare quella voce, sapendo che l’alba del giorno successivo l’avrebbe portata via.
Ma la voce non si arrese, trovò, infatti, validi alleati negli specchi. Somigliava quasi ad una maledizione.
Erano i suoi occhi. Loro, riflessi da uno specchio, parevano essere latori di qualcosa, un qualche strano tipo di sentimento a lui sconosciuto.
“Quanto era facile essere bambini, coltivando sogni improbabili…”
Questi furono i suoi pensieri quando ormai il suo sangue si stava rapprendendo sul suolo del suo ultimo campo di battaglia. Poteva quasi udire il rumore dello scorrere lento di quel liquido rosso e denso sulla sua schiena. La battaglia gli perpetrava intorno, ma lui, anche nei suoi ultimi aliti di vita, si sentiva solo. Non era questo quello che sognava. No, morire per una causa sbagliata ed un re senza terra non poteva essere la sua fine. Eppure mentre ancora cercava un senso alla sua esistenza nella sua bocca, impastata di sangue e sabbia, si congelarono delle parole. Le stesse che da bambino ripeteva sempre. 

Una cosa restò dell’eroe nel tempo sbagliato, fu un figlio, che nacque poco dopo.
Una volta, dopo che la madre aveva appena terminato di raccontargli una fiaba, nel momento in cui il sonno stava per coglierlo, mormorò: ‐ Mamma, io da grande voglio… diventare cavaliere, come mio padre ‐.