Gabriele, Barba e Baffino a cinfunghi

          “Ero con Barba e il tempo si metteva al brutto”, raccontava Gabriele a Baffino, mentre cercavano cucchi e porcini su alla Piana del Tesoro, tra il mirto e le ginestre.

“Brutto quanto?”, s’informò Baffino.
“Eh, brutto tanto, ma intanto era tanto che si cercava e tanto che fai? S’è deciso di terminare il giro! Si pensava che nel bosco, comunque, non sarebbe venuta giù fitta. Tutto alto bosco di cerro, ornelli, corniolo. Insomma, s’era riparati. O almeno, così si sperava. Hai trovato niente costì?”.
“No. Ci son già passati. I fungacci son tutti rivoltati”.
“Eh, ci siamo venuti troppo tardi. Guarda qua! Tutti i roghi son districati. Ci hanno fatto un’autostrada. Ci si passa troppo bene qui. Che vuoi trovare? Inoltriamoci più giù, nel fitto, e vedrai che qualche fungo si trova”.
“Ma giù dove?”, si preoccupò, istantaneamente, Baffino, che ben conosceva la propensione dell’amico a fare l’esploratore che apre nuove strade dove nessun altro s’avventurava per buoni e fondati motivi.
“Giù! Taglia giù, a sinistra, verso il fosso, così poi si sbuca nei campi e si ripiglia la strada di casa”, lo spronò la guida intrepida.
Baffino lo fissò senza commentare. Sospirò e raccomandò, come sempre, l’anima, le caviglie, i ginocchi e tutto il resto al suo Angelo Custode, cominciando a fendere lentamente una macchiona aggrovigliata di ginestrone, senza poter vedere nemmeno ove posasse il piede ed augurandosi di non pestare una vipera o di precipitare per uno scataborro.
Come Dio volle, dopo un po’, il sottobosco si allargò e si diradò, riducendosi a un tappeto di foglie marce, rami tarlati e fradici, e massi insidiosi, ricoperti da muschi e detriti. Il tutto, ovviamente, disseminato lungo una ripa che obbligava l’improvvido viandante ad attaccarsi a tronchi e arbusti per poterla discendere arrivando in fondo, il più possibile, intero. Il tutto, ovviamente, senza vedere un fungo!
E intanto faceva buio.
“Guarda Gabriele che di qui si passa male. Per ora si va, ma si fa buio. La macchia si restringe. Non vedo stradelli”.
“Ma sì, sì, vieni, vieni!”, vociò l’avventuriero che aveva sorpassato l’amico buttandosi a capofitto per quel troncacollo, come fosse Mercurio piedalato. Ma, purtroppo, per lui, non lo era, sicché, di lì a poco, si sentì un grandissimo franiccio, il rumore secco di rami troncati ed un tonfo clamoroso di un corpo che precipitava al suolo.
Baffino, che aveva assistito, anzi, per dirla tutta, s’era gustato pienamente la scena, s’accostò informandosi cortesemente: “Fatto male?”.
“Mi son storto completamente un dito. Mi si è girato all’indietro”, si dolse l’argonauta.
“Ah, sì? Quasi certamente rotto allora”, partecipò, l’altro, commosso, al suo dolore.
“Può darsi, però hai visto come ho tenuto bene in alto il paniere? Tutti i funghi salvati!”.
“Vedo”, accondiscese Baffino. “Ti sei fatto altro?”.
“Non mi pare”, tossì Gabriele levandosi e indicando un punto. “Guarda! Qui c’è un passaggio fatto dai caprioli. Seguiamo quello”.
“Seguiamolo”, acconsentì la sua vittima, del tutto priva di speranza, mormorando tra sé e sé: “Purché, più avanti, non se ne debba seguire uno tracciato dai cinghiali. Già ora mi tocca andare avanti tutto gobbo, povera schiena”.
Ora, sappia, il lettore, che tali considerazioni non andrebbero mai formulate a voce alta nel bosco, anzi, a dirla tutta, nemmeno pensate. Fatto sta che, mentre seguitavano a dirupare per quel versante pendente, la macchia parve aver udito i suoi timori, sì che prese a piegarsi su se stessa, a serrarsi, ad ingobbirsi, come se un pesante coperchio venisse gradatamente premuto sulle due aragoste pronte ad essere bollite.
E’ vero che l’inclinazione del terreno, costantemente privo di ogni genere di spora e muffa neppur lontanamente somigliante a un fungo, prese ad addolcirsi, tanto che si poteva camminare col solo ausilio del bastone senza doversi appendere alle liane dell’edera, ma è pur vero che quest’ultime furono sostituite da quelle spinose, tenaci, laceranti, in Maremma note come stracciabracali. La luce parve deflettersi da quei luoghi tenebrosi, non riuscendo a vincere la parete spinosa che a mo’ di tenda da camera di tortura calava, inviolabile ed impenetrabile, da alberi ormai invisibili, sovrastata da un muraglione di inaccessibili rovi che costituivano un argine di oltre tre metri d’altezza da quel lato del fosso. Lato che dovevano attraversare per poter vivere!
“E ora?”, fu tutto ciò non che pensò, ma che si limitò a dire Baffino.
“E ora non possiamo risalire”, fu la considerazione della guida fratturata. “Perché è troppo tardi e prima di arrivare in cima sarebbe buio ed io son poco pratico di questi posti”.
“Me n’ero accorto”, costatò Baffino, urtando l’altro che protestò: “E’ così buio, perché siamo partiti troppo tardi! Dovevi arrivare prima, non si può andare a funghi alle tre!”.
“E’ così buio, perché a quest’ora cala il sole, e non è colpa mia se lavorando, non mi son potuto liberare prima!”, replicò seccato, ma prima che la querela procedesse, il battistrada aveva già posato l’occhio su un buco. Un foro nero poco più alto di cinquanta centimetri e largo una trentina, che pareva la tana del Bianconiglio, con la differenza che, anziché interrarsi verso il sottosuolo, procedeva diritto attraverso il muro di spine.
“Guarda!”, esclamò Giulivo Gabriele.
“Che devo guardare?”, domandò assai meno incline all’entusiasmo, Baffino.
“Un foro. Un foro di cinghiali. Andiamo!”.
“Ma sei matto?”, ma l’altro s’era già tuffato e procedeva al passo del giaguaro, in mezzo al fango pesticciato dagli ungulati che, presumibilmente, usavano quella lurida galleria come dormitorio. “Vieni, vieni, si passa!”, fu la voce ovattata che giunse a porgere l’invito meno allettante che Baffino avesse ricevuto in vita sua. “Ahhh…”, sospirò di nuovo. “Ma chi me lo fa fare?”, e s’inginocchiò rassegnato a lasciare, in quel budello, bottoni, lembi di stoffa, brandelli di pelle e litri di sudore, in cambio di graffi nel collo, punture sul viso, contusioni alle ginocchia ed ai gomiti ed abrasioni sparse per tutto il resto del corpo.
“Vieniiii…..”, filtrò lontano un richiamo che poteva anche essere stato lanciato da un folletto, tanto assurdo ed incredibile appariva quel passaggio per essere calcato da un essere umano. Calcato non è il termine giusto. Direi piuttosto strisciato.
Sopra, una cappa di tenebra ed immota ostilità che cancellava dalla mente persino il ricordo della luce. Ai lati, pareti così annodate ed intricate che, se il famoso principe se le fosse trovate dinanzi, avrebbe lasciato la Bella Addormentata ai suoi sonni tranquilli vitam aeternam et amen. Sotto, meglio sorvolare. Ma ciò che più preoccupava Baffino era l’incontro con una vipera, almeno sino a che la guida, da distanze insondabili, suggerì: “Speriamo di non trovarci faccia a faccia con un cinghiale, perché qui ci trita!”.
Baffino s’arrestò alzando gli occhi al Cielo per sospirare nuovamente, ma non vi riuscì perché un tralcio secco di un rovo gli entrò nel colletto attaccandosi alla guancia e conficcandosi nel labbro. In quel momento nessuna forza al mondo avrebbe potuto evitare l’esplosione di un colpo teoricamente accidentale della sua arma diretto in avanti o, comunque, nella direzione da cui giungevano stropiccii, calpestii, scricchiolii. Dio volle, per la salvezza delle due anime e di uno dei due corpi, che fosse disarmato.
Mentre stava sputando pezzi di legno e non so che, tamponando il sangue con una manica lercia e terrosa, lo raggiunse il suono più irritante e inaspettato. Qualcuno rideva. Era lui. Gabriele. Quella gran carogna che era scivolata oltre il bordo ed il termine dell’ostacolo, senza, purtroppo, precipitare nel fosso sottostante, ma, anzi, incoraggiava l’amico, ridendo delle sue sanguinose disgrazie. “Che ridi?!”, esplose Baffino. “E c’è da ridere qui, sì. Non si sa nemmeno se ne usciremo e lui se la ride! Nemmeno da soldato ho patito a questa maniera! Bello il mio Comando, come ci stavo comodo! Ahia! Ahia! Non ridere maledetto”.
Intanto, l’abietto, se la rideva e riprendeva, riprendeva e se la rideva sfruttando uno di quegli odiosi marchingegni che il genio malefico dell’uomo ha messo a disposizione della sua pervicacie e depravata empietà.
Alla fine di un percorso di guerra che i cinghiali avrebbero probabilmente evitato per almeno due giorni, tanto era stato impuzzolentito dalle generose effusioni sanguigne dei due uomini, Baffino si lasciò scivolare al di là del l’accesso a quel girone dantesco che certo sarebbe comparso nella Divina Commedia, solo che Dante avesse conosciuto un po’ meglio la Maremma.
Riprendendo fiato e provando inutilmente a liberarsi le vesti lacere da residui di fango e forse altro che le impregnavano, conseguendo l’unico risultato di spargerle nelle poche zone che non avevano raggiunte, Baffino, quasi esalando, mormorò: “Te hai una fortuna sola. Che questo bastone che ho in mano me l’ha regalato mia moglie e ci sono troppo affezionato…!”.
Gabriele sorrise luciferino, anzi ghignò stridulo e malevolo, indicando lo stradone, tutto in ripida salita, che li attendeva per poter ritornare alla civiltà, mentre un venticello ghiaccio gelava loro il sudore addosso, e le ombre della prima sera già si stendevano a confondere contorni ed idee.
“Ah, non me ne importa niente!”, asserì, convinto, Baffino. “Mi basta poter camminare dritto e son pronto a fare anche cinque chilometri!”.
“Cinque?!”, insinuò perfido il così detto amico. “Avrai da ridirlo!”, e s’incamminò lesto, come se su di lui la fatica non avesse effetto.
Mentre, bisogna dire, con passo non proprio elastico, i due sopravvissuti ascendevano l’irta erta, Baffino, che s’era ripreso prima di quanto non credesse,  e alleggerito dalla consolazione di non esser stato offerto in cibo ai cinghiali, domandò: “Prima, avevi preso a raccontarmi di Barba. Che dicevi?”.
“Ah, sì.”, si rammentò Gabriele. “Dicevo che s’era andati a funghi e qualcosa s’era trovato, ma il tempo imbruttiva”.
“Ma quando?”.
“L’altro giorno. Quando venne giù quello stonfo d’acqua!”.
“Ah. Mi ricordo. Un temporale buffo!”.
“Eh, appunto. E noi s’era nel bosco con due panieri pieni e si veniva via. Corradino aveva il suo, più un bigoncio di plastica che s’era portato dietro in previsione di riempirli entrambi”.
“Previsione azzeccata?”.
“Abbastanza. Insomma, s’era quasi usciti quando, o te! Una bestia di ottanta chili stesa lì davanti a noi!”.
“Morta!”.
“Sì, ma da poco. Buonissima. Aveva una palla nel costato ed era ancora calda. Il corpo fumava. Te che avresti fatto?”.
“Eh, io me la sarei presa, ma ottanta chili…anche in due, poi coi corbelli pieni di funghi…. Come avete fatto?”.
“Abbiamo deciso di farlo a pezzi sul posto e lasciare lì gli scarti”.
“Ma, e con che l’avete spezzato?”.
“Eh, appunto. Serviva la mannaia e non ce l’avevamo. Sicché, Corradino mi ha dato un paniere ed io sono corso alla macchina, per andare a prendere a casa l’attrezzo necessario. Son partito ed avrò fatto…che ti posso dire?, tre chilometri, quando è venuta giù l’ira di Dio! Veniva giù come le funi!”.
“E sei tronato indietro a riprendere Barba?”.
“Sì, eh! E il cinghiale? Si lasciava lì? Ho proseguito fino a casa”.
“E quel disgraziato di Barba?”.
“Sotto l’acqua. Tanto ormai era bagnato”.
“Che delinquente che sei! E poi?”.
“Ho preso l’attrezzo e son tornato indietro. Che ci avrò messo? Capirai. Nemmeno mezz’ora!”.
“Eh, certo. E Barba mezz’ora sotto l’acqua a prendersela tutta!”.
“In parte”.
“Come in parte?”.
“Sì, quando son tornato aveva rovesciato il bigoncio in terra e se l’era messo sul capo”.
Baffino non seppe trattenere un sorriso che gli impedì di dire quel che pensava, ma anzi considerò: “Almeno i funghi si saranno lavati”.
“Poco. Nel fango…”.
Baffino rise e guardò l’amico che ghignò con lui. “E poi?”, domandò.
“Eh, poi ho dato la mannaia a Barba. Tu vedessi bella. Una lama affilatissima. Spessa un dito, ben bilanciata. Lunga mezzo metro. Peccato per il manico”.
“Perché? Che aveva il manico?”.
“Barba aveva chiesto al fabbro di farglielo con un todino di ferro. Come quelli dei segnali stradali”.
“E invece?”.
“Eh, invece l’aveva fatto, di testa sua, con un palo di legno”.
“Va beh. Magari sarà stato più pesante, ma la sua funzione la svolgeva lo stesso, no?”.
“Mica tanto. Forse perché era tutto bagnato, forse perché col buio che arrivava Barba avrà calibrato male l’inclinazione, fatto sta che al primo colpo gli s’è troncato in mano”.
“Il manico?!”.
“Sì”.
Anche le ghiandaie volarono via gracchiando, sebbene già appollaiate sui rami, quando la risata dei due uomini rimbombò tra i colli.
“E che ha detto?”, tossì Baffino tra le lacrime.
“Te lo puoi immaginare. Roba mai sentita prima in Cielo o in terra”.
“Ah, in terra non lo so, ma in Cielo senz’altro! E come avete fatto a dividerlo, allora?”.
“Eh, per fortuna, era rimasto un moncone del manico che sporgeva dalla lama abbastanza da essere impugnato e quindi a furia di colpi s’è compiuta l’operazione”.
“Immagino come vi sarete conciati”.
“Mica tanto”.
“Come mai?”.
“Veniva giù a ritrecine!”.
“Sciagurati! Ma ce l’avete fatta?”.
“Eh, certo. Con diversi viaggi…. E che facevi? Lo lasciavi lì? Un cinghiale a quel modo!”.
“Ah, no, no certo. Ma insomma…”.
Intanto, la pietosa notte era scesa a coprire i sanguinari misfatti di quella terra selvaggia e selvatica nota come Maremma, che non ha mai rinunciato ai suoi onesti briganti. Ove il pepe che si aspira è polvere da sparo, ove il sole non si limita a tramontare, ma, coricandosi, brucia il mare e la terra e gli uomini che lo ammirano, radicati in quell’unico elemento che li plasma e li fonde in tutt’uno di virilità ancestrale e umile rispetto.
Baffino e Gabriele non pronunciarono altre parole, scomparendo nel buio, uno accanto all’altro, seguitando per una via che innumerevoli viatori avevano percorso prima di loro. Così, anch’essi avevano contribuito ad arricchire, con le nuove storie, il cesello antico di infinite altre, intarsiando il baldacchino stellato che brilla in alto, su ciò che fu e che è Maremma.