Gita a Firenze

Ieri sono andata in gita a Firenze con la mia classe e con il “V” B, la classe degli snob.
Non ricordo nulla di ciò che ho visto, la giornata è stata un incubo. Sembra che quando qualcosa va storto, poi tutto debba continuare sullo stesso tono, almeno per un po’. E’ cominciata come una normale gita fuori porta, il pullman affittato dalla scuola è passato a prenderci puntuale davanti al liceo alle otto e trenta di ieri mattina. Con noi, in veste di accompagnatrice, la professoressa Paiello insieme ad un insegnante dell’altra classe. Non conoscevo nessuno dei ragazzi della sezione B, se non di vista o per averci parlato casualmente in qualche rara occasione. Le uniche due persone che conoscevo per nome erano Angela, figlia della nostra professoressa e un tale Massimo.
Quest’ultimo, è un ragazzino della nostra età, anzi più grande, è ripetente, ma che dimostra forse dodici anni. E’ bellino, bel viso, lineamenti regolari, occhi chiari molto vivaci, lentiggini, espressione da monello impenitente. Però sembra un bambino, non solo per la statura veramente ridotta, soprattutto per la levigatezza del viso, senza un’ombra di peluria. L’anno scorso mi aveva colpita perché un giorno era entrato nella nostra classe insieme ad un suo amico ed aveva cominciato a fare complimenti alle ragazze, senza rivolgersi a nessuna in particolare:
“Siete tutte così belle, sembra di stare in un paradiso di vergini. Non come nella mia classe, lì sono tutte brutte!”
Sì, aveva usato proprio queste parole e mi aveva colpita per la disinvoltura dei modi e per le espressioni usate. Così sono salita su quel maledetto pulmino senza malumori o prevenzioni di nessun tipo. Io e Gaia ci siamo infilate in un posto intorno alla metà del veicolo, dall’altra parte del corridoio, alla nostra stessa altezza, Mara e Caterina. Sui sedili in fondo, notoriamente occupati dal gruppo più turbolento della scolaresca, si era insediato un rumoroso assembramento del “V” B: tra di loro c’era anche questo Massimo.
Siamo partiti e per un po’ è andato tutto bene; certe situazioni hanno bisogno di tempo per decollare. Ero rilassata, guardavo fuori dal finestrino con Gaia accanto che ascoltava musica dal suo walkman. Intorno a me sentivo ragazze che parlavano, anche dietro erano tranquilli, all’inizio è sempre così. Poi le voci da dietro sono cresciute di tono, ragazzi che si alzavano, ragazzi che si spostavano di posto, che andavano a fare visita ad altri ragazzi seduti in altri posti. Gli elementi perturbatori della mia classe e quelli dell’altra hanno cominciato a scherzare insieme. Mi sono voltata a guardare e ho visto Mauro e Pietro, i galletti della mia classe, che fumavano in fondo insieme a tre o quattro ragazzi dell’altra sezione.
Queste situazioni mi hanno sempre messa a disagio, non mi appartengono, acuiscono il mio senso di estraneità, mi scatenano elucubrazioni di ogni tipo. Però ero ancora abbastanza tranquilla, sono in buoni rapporti con Mauro, gli altri non li conoscevo, anche se ridevano e scherzavano in modo derisorio. Poi Mauro e Pietro hanno condotto Massimo ed un altro, che in seguito ho scoperto chiamarsi Fabrizio, da Caterina per presentare loro l’idiota della nostra classe e prendersi gioco di lei:
“Vi presento Kukki, la ragazza più sexi della scuola. Caterina girati, saluta, non essere scontrosa!”
Lei guardava fuori dal finestrino, faceva finta di niente sperando che perdessero interesse. Ma loro avevano un lungo e noioso viaggio davanti, due lunghe ore da far passare in qualche modo. Allora si è girata, li ha guardati con quei suoi occhietti piccoli e ottusi, poi ha atteggiato le labbra carnose ad un timido sorriso.
“Ciao.”
Ha detto loro timidamente, la voce bassa, un bisbiglio, il viso sollevato a guardarli in attesa. Massimo ha ridacchiato, Mauro ha fatto una smorfia simile ad un sorriso, poi ha continuato ad umiliarla:
“Vedi, questo ragazzo qui si chiama Massimo ed è in cerca di una ragazza. Ho pensato che potevo presentargli te. Ti piace?”
Caterina è rimasta in silenzio, Mauro ha insistito:
“Non essere maleducata Kukki, ti piace Massimo? Guarda che bel ragazzetto! Allora rispondi!”
Sorriso impacciato, un altro bisbiglio:
“Ma, non lo so, che ti devo dire?”
Hanno continuato così per qualche minuto, ma lei reagiva poco. Mara stava in silenzio, lei non parla mai in queste situazioni, né loro hanno provato a coinvolgerla. E’ quasi paranormale il modo in cui viene rispettata nonostante stia sempre assieme a Caterina, come se intorno a lei ci fosse una sorta di aura protettiva. Mistero! Mauro e Pietro si sono allontanati, sono tornati dietro, Massimo e Fabrizio sono rimasti a scherzare con due loro compagne di classe, sedute proprio davanti a Gaia e a me.
Questa circostanza ha decretato l’inizio della mia persecuzione. Mi sono chinata verso Mara e Caterina, ho cominciato a chiacchierare con loro, con Mara per lo più. Le chiedevo se fosse mai stata a Firenze prima d’ora. Massimo si è girato verso di noi, ha notato che Caterina si era animata grazie al mio intervento:
“Kukki, se non sei interessata a me almeno presentami questa tua amica!”
Non mi piaceva la piega che stavano prendendo gli eventi e tuttavia ho reagito. Stupidamente, mi sono impegolata in un braccio di ferro verbale dal quale non sono più riuscita a divincolarmi. Mi ha guardata con quella sua faccia da schiaffi, la faccia che ho sempre immaginato dovesse avere il protagonista del “Giornalino di Gian Burrasca”, poi ha teso la mano verso di me: “Piacere, mi chiamo Massimo; lui è Fabrizio.”
Se li avessi ignorati sarebbe stato anche peggio, così ho accettato di presentarmi. Nel tendere la mano all’altro ragazzo, l’ho osservato per la prima volta. Anche lui un viso liscio, bambinesco, ma alto di statura, ben strutturato. La testa un po’ troppo grande ed il viso un po’ troppo largo, capelli corti ed orecchie a sventola, ma lineamenti gradevoli, occhi espressivi, nel complesso un bel ragazzo. Anche lui aveva sfoderato quel genere di sorriso beffardo, preludio a qualche sfottimento. Massimo:
“Senti Valentina, ma tu che tipo di ragazza sei? Voglio dire sei una che la dà – risatina di scherno ‐ oppure sei una morta tutta casa e scuola?”
Fabrizio:
“Dai Massimo, che domande fai? Non si tratta così una ragazza. Non lo vedi che la metti in imbarazzo?”
Sembrava una di quelle gag che si vedono nei film americani, l’amico più buono che modera quello sadico e sembra stare dalla tua parte, in realtà si sta divertendo un mondo.
“E di voi cosa mi dite? Scommetto che a parole muovete i treni, poi ve la fate sotto quando avete davanti qualcuna che fa sul serio!”
Ostentavo tutta la disinvoltura di cui ero capace, speravo di batterli sul loro stesso terreno. Se gli avessi dato a credere di essere una dura come loro, forse mi avrebbero lasciata in pace. O forse cercavo di dimostrare a me stessa di essere in grado di gestire situazioni ad alto rischio di bruciature. Quali che fossero le mie intenzioni o le loro, il risultato è stato di catturare definitivamente la loro attenzione.
Gaia ha indossato nuovamente le cuffie del suo walkman, ha cominciato a masticare ostentatamente la sua gomma americana, poi ha abbassato gli occhi guardandosi le mani con insistenza. Si sarebbe alzata e se ne sarebbe andata se non fosse stato troppo evidente il tradimento. La sua vigliaccheria è talmente patetica, le sue reazioni talmente prevedibili, che ho provato pena per lei invece della giusta indignazione.
Massimo:
“Ah, allora tu sei una tosta, una che ci sa fare, magari hai anche il ragazzo.”
Silenzio.
Fabrizio:
“Ce l’hai il ragazzo, sì o no?”
I suoi occhi mi scrutavano, forse era realmente interessato alla mia risposta. E’ un mio difetto, non riesco mai a mentire sulla mia vita privata, nemmeno quando sarebbe opportuno:
“Mi piace uno, ma lui non lo sa nemmeno.”
Risposta abbastanza sincera. In effetti, da qualche giorno a questa parte ho messo gli occhi su un tipo del “II” C, compagno di classe di un ragazzo che abita nel mio palazzo. Lo conosco di fama, per essere un ragazzo carino ma molto intellettuale, alto, moro, occhialetti, un bel tipo. L’ho incrociato un paio di volte che andava a trovare il mio coinquilino e all’improvviso l’ho trovato affascinante.
Fabrizio:
“Chi è questo ragazzo?”
Perché non sono stata zitta? No, non potevo, avevo l’ansia di dimostrare a quei due imbecilli, io più imbecille di loro, che esisteva davvero questo ragazzo:
“Daniele Campagna, lo conosci?”
Fabrizio:
“Sì, sta nel “II” C, giusto? Se vuoi vado a parlarci, gli dico che ti piace.”
Perché non gli ho sparato un nome qualsiasi di qualche ragazzo inesistente?
“No, non dirgli niente, non voglio assolutamente.”
Mi ha guardata con uno strano sorrisetto, ho capito di avere sbagliato.
Massimo:
“Senti, ma torniamo a noi, scommetto che non hai mai baciato nessuno in vita tua!”
“E invece ti sbagli, non ho nessun problema a baciare un ragazzo!”
Massimo:
“Non ti credo, sei una sparapalle, te la fai sotto all’idea di baciare qualcuno!”
“Ci vuoi scommettere?”
Gli è passato un lampo negli occhi, mi si è avvicinato e abbassando la voce ha insinuato mellifluamente:
“Dimostramelo, baciami adesso, qui, davanti a tutti.”
Poi si è fatto ancora più vicino, lentamente ha accostato il suo viso al mio, fino a quando la punta del suo naso quasi non toccava quella del mio. I suoi occhi erano fissi nei miei, colmi di sfida, di canzonatura, ridenti di trionfo, verdi come una palude. Non ho retto quello sguardo, ho spostato il mio sulle sue labbra, piccole, schiuse nell’attesa, leggermente screpolate. Quest’ultimo particolare ha in qualche modo scatenato il panico, che già minacciava di aggredirmi dall’inizio della conversazione. Mi sono allontanata e ho cominciato a balbettare frasi sconnesse, prive di senso alle mie stesse orecchie:
“NNo,nnon qui, non è il momento, poi non bacio mica così, a comando…bla, bla, bla,…” Ho blaterato frasi cretine, odiandomi nel momento stesso in cui mi uscivano di bocca, ma non riuscendo a bloccare il torrente maledetto che sgorgava dalle mie stesse corde vocali. Loro mi fissavano, soddisfatti, Fabrizio forse un po’ accigliato – perché avevo l’impressione che fosse dispiaciuto dell’eccessiva crudeltà dell’amico?‐, entrambi soddisfatti di avermi piegata.
Hanno continuato a tormentarmi per tutta la durata del viaggio, due gatti sullo stesso topo, contenti di giocarci insieme e di palleggiarselo l’un l’altro. Se come un topolino mi fossi arresa, impaurita e paralizzata in un angolo, forse mi avrebbero lasciata in pace. Avrebbero mollato la presa in cerca di prede più reattive. Ma io mi sono messa in testa di uscire da questa storia a testa alta, di trovare il modo per avere l’ultima parola. Il topolino che mostra i dentini sperando che i suoi torturatori li scambino per temibili canini. Patetica. Il gatto e la volpe sull’ingenuo Pinocchio. E Gaia continuava ad ascoltare musica da quel maledetto walkman. Loro sembravano non vederla nemmeno. Riesce a mimetizzarsi talmente bene con l’ambiente da risultare invisibile. La mia amica camaleonte. Mimetizzata con la tappezzeria del pulmino.
Abbiamo passato il casello per uscire dall’autostrada e loro commentavano la mia camicetta a scacchi rosa e fucsia. Abbiamo parcheggiato e scendendo i gradini del pullman sentivo i loro fiati sul collo che sghignazzando si auguravano che inciampassi. Arrivati a destinazione ho deciso, troppo tardi, che era meglio ignorarli, che forse era possibile essendo ormai in movimento, forse potevo sfuggire le loro insolenze. Mi illudevo. Ho guardato il panorama di Firenze dal belvedere di piazzale Michelangelo attraverso un velo di lacrime, ascoltando i loro commenti beffardi:
“Mi sembra che abbia il culo basso, che te ne pare?”
“No, Massi, non direi, dà quell’impressione perché è piatto e largo.”
Li ho avuti perennemente dietro durante gli spostamenti a piedi per le strade della città, due voci nell’orecchio che mi raggiungevano dovunque decidessi di spostarmi all’interno del gruppo. Mi bruciava anche la magra figura che mi costringevano a fare di fronte ai miei compagni di classe che di certo non erano sordi a questa persecuzione. Non osavo guardarmi intorno per paura di leggere nei loro occhi la pietà o, peggio, una finta indifferenza. Durante la visita all’interno della Galleria Palatina dell’Accademia, i due falchi sempre sulla loro preda, ho sentito Mauro difendermi, debole tentativo per mettere fine alla persecuzione:
“E dai ragazzi, lei no, lasciatela perdere.”
Non ho detto nulla, ma in quel momento ho sentito di amarlo, l’unico impulso di affetto che ho provato in mezzo a tutto il livore, il risentimento e l’odio assassino che mi porterò dentro finché campo al ricordo di questa orribile giornata. Giravo per le sale della Galleria Palatina di palazzo Pitti, commentavo gli splendidi Rubens, i Tiziano, i Raffaello insieme a Mara, lei così catturata dalla bellezza dei quadri, e facevamo finta di non sentire i commenti che dietro di noi arrivavano al mio indirizzo. Mara era come sorda alle cattiverie di cui mi omaggiavano ma stava con me, mi parlava come niente fosse e questo era il suo modo per darmi coraggio, per darmi una pacca sulla spalla dicendo:
“Non te la prendere, ignorali, non vale la pena di amareggiarsi di fronte ad una simile ottusità.”
Mentre ci aggiravamo all’interno del Duomo, sono riuscita a prendere le distanze, grazie alla vastità dello spazio, breve momento di tregua gradito quanto un’oasi di palme nel deserto. Durante il viaggio di ritorno mi hanno graziata per una buona metà del tempo, stanchi dopo la loro dura giornata di pubbliche relazioni. Si sono ritirati nel fondo, da lì li sentivo ogni tanto ridere ad alta voce, ma per lo più sono stati  tranquilli. All’arrivo, scendendo dal pulmino, mi hanno salutata con un minaccioso:
“Ci vediamo domani a scuola!”
Li ho guardati per un momento perplessa, chiedendomi quali fossero le loro intenzioni, ma non ho fatto commenti, ero veramente stanca e me ne sono andata a casa. Ieri sera non ho detto nulla. Ero troppo scioccata anche per confidarmi con mamma. Ho cenato in silenzio, un nodo mi stringeva la gola, impedendomi anche di mangiare. Sono andata a letto presto, ma non riuscivo a prendere sonno. Mi sono rivoltata a lungo su un fianco, poi sull’altro, poi a pancia in sotto. E intanto pensavo, pensavo, pensavo.
Si dice che l’adolescenza sia un'età difficile, un momento di passaggio tra la fanciullezza e l’età adulta. Per molti di noi la crudeltà è un modo come un altro per affrontare le nostre paure, un metodo a basso costo emotivo. Attraverso l’umiliazione e lo svilimento dei tuoi simili, hai l’illusione di avere il controllo: se riesci a sopraffare allora sei forte, ti sei guadagnato il rispetto del gruppo, sei accettato ed è più facile accettare te stesso. Questo ti permette di ignorare il fatto che i tuoi amici sono tutti più alti e formati di te, nonostante che tu sei stato bocciato e sei più grande di età. Puoi sentirti intelligente, magari astuto, tu conosci la vita, sei un uomo di mondo, che importa se probabilmente non arriverai al diploma perché non riesci a concentrarti sui libri. Studiare in fondo è una perdita di tempo, un’occupazione per gente inferiore, che non vede ad un palmo dal proprio naso. La tua cattiveria è il passaporto per l’accettazione nel gruppo. O forse non è così. Semplicemente esistono persone buone e persone cattive. Queste ultime, probabilmente, non sanno nemmeno di esserlo. I loro sono giochi innocenti, divertimenti innocui, per passare il tempo. E intanto ti fanno a pezzi. Scavano nel profondo e ti colpiscono dove fa più male.
Ho sbagliato. Per questi individui non esiste niente di più irresistibile di una persona in posizione di debolezza che ostenta una sicurezza fittizia, costruita per orgoglio. E loro lo sanno. Pregustano l’umiliazione e ci arrivano per gradi, sino a piegarti sulle ginocchia, fino a quando non ti vedono piangere o supplicare pietà.