Guardando con ciglia d'occhi un ramo di lillà

Dietro di noi avevamo una finestra con le sbarre. La porta dell'armadio era difettosa e bastava un filo di vento per farla sbattere. Quando guardavamo il cortile dalle sbarre, l'armadio era alle nostre spalle. E sbatteva. Sbatteva a intermittenze regolari, con la voce rotta dei cardini. E cigolava di notte dando voce ai mostri zebrati che vedevamo camminare per terra. Sapevamo benissimo che erano i rami ischeletriti del lillà che entravano dalle sbarre per dominare i nostri sogni. Quando ci sedevamo sul letto in cui dormivamo, parlavamo guardando le ombre. La percezione del buio era la distanza che ci avvicinava. Io, potevo sentire il tremore delle sue spalle. Se la guardavo vedevo solo due occhi fermi e senza paura che volevano stringermi forte. I miei, molto probabilmente, non sapevano nascondere la paura e lei mi stringeva la mano per farmi coraggio. Quell'anno, quando fiorì il lillà, il terrore si volatilizzò insieme al profumo dolce dei fiori che entrava dalla grande finestra della nostra camera.
Eravamo più o meno consapevoli di essere sole coi nostri sogni. Spesso parlavamo dei nostri desideri e dei nostri sogni. Per Erika i desideri erano qualcosa di astratto da fare in due mentre i sogni nascevano nei pensieri e dovevamo farli da sole protette dal peso delle coperte, possibilmente di notte. Io invece sognavo di notte e anche di giorno e sognavo sola. Avevo centinaia di sogni e neanche lo straccio di un desiderio. Forse per me non c'era nessuna differenza tra sogno e desiderio. Mi capitava spesso di fare sogni deprimenti. Anche i pensieri a volte mi deprimevano. Come quella volta ad Agosto, col caldo soffocante che faceva sudare gli occhi. Avevo imparato a trattenere le lacrime tra le ciglia. Spesso le assorbivo inghiottendole intere e sparivano, dileguandosi come acqua piovana nelle crepe della terra, alcune volte si ingolfavano ristagnando per ore ai bordi dell’occhio, raramente acquisivano il vigore del fiume in piena.
“ La prossima settimana parto, hanno deciso di mandarmi per un mese dagli zii, ci pensi?” disse Erika “Un mese al mare!”
Le mani di Erika, si muovevano allegre accompagnando ogni parola, fremevano e tremavano all’idea di andar via per alcuni giorni. Distesa sul letto la guardavo mentre gesticolava in aria la sua felicità sentendomi inutile in quella realtà né più né meno com’era stato inutile l’ultimo sogno che non riuscivo a ricordare, e galleggiava nella mia mente attaccato come un naufrago a una tavoletta di sughero e resisteva alla burrasca dei pensieri rimanendo in superficie quel tanto che bastava per non affogare. Quella frase arrivò come un’onda maligna e il sogno annegò inabissandosi nei mari oscuri della memoria.
Strinsi le labbra restando in silenzio. Il desiderio di Erika di allontanarsi da casa per alcuni giorni stava per realizzarsi.
Sarebbe andata in vacanza a casa di una zia che abitava vicino al mare.
Chi poteva dire che quello non fosse un altro sogno da dimenticare?
Nell'armadio che cigolava c'era un profumo nuovo, di pulito. Dieci grucce nude di legno chiaro e un vestito che ballava da solo. Forse era fatto di seta, se lo sfioravo lo sentivo frusciare. Lo toccai, piano però. Non lo volevo sporcare. Quando mia sorella mi aveva dato la notizia aveva un'espressione un pochino improbabile. Forse non credeva veramente a quella promessa. Io mi accorgevo di non dire nulla. Stavo zitta. Avevo il respiro che mi ringhiava nel petto e camminavo all'indietro come i gamberi. Non capivo che fine avessero fatto gli altri vestiti. Qualche volta mi capitava di pensare che potesse essere mio quel vestito. Io avevo un vestito comodo che mi copriva abbastanza. Non era brutto e non era mio.
Avevo i sandali nuovi comprati al mercato e non potevo metterli in casa. Andavo in giro scalza. Qualche volta mi mettevo un paio di scarpe vecchie che trovai nella cantina di nonna. Mi piacevano molto le cose che mi appartenevano. Ma non potevo dire di avere una cosa che veramente mi appartenesse. Tutte le cose che avevo erano appartenute a qualcun altro prima di me.
Poi, arrivò il grande giorno. L'afa era ovunque. Anche il marmo stava sudando nella vena ghiacciata. Non entrava un filo d'aria e le sbarre erano nascoste dalla tenda. Il caldo pesante chiamava a gran voce un pensiero ossessivo e febbrile. Fuori c'era un sole accecante e io restai sola a guardare la curva affossata al centro del letto. Aveva messo in valigia il vestito e le scarpe eleganti comprate da “Cenerentola”. Avevo negli occhi il rosso nuovo della pelle; una striscia sottile, elegante che avvolgeva il dorso del piede di Erika. E sembrava più alta con quel tacco che l'alzava leggermente da terra.
La valigia era vicina alla porta, tutti erano contenti e io brillavo da sola, nel buio della mia camera. Ed ascoltavo le risa che arrivavano attenuate dalla porta serrata. Dall'armadio arrivava la luce di undici grucce vuote. Lui era triste quanto me, con quella carta ingiallita sul primo ripiano. Non stava cigolando. Se ne stava zitto zitto con la sua desolazione.
Alla fine era partita. Avevo sentito il rumore dell'auto. C'era uno strano silenzio.
Sembrava che tutta la casa fosse diventata l'unico grande luogo di desolazione nel mondo.
Passavo i miei giorni in questa stanza. Non volevo uscire e non volevo andare a dormire.
Alle sette però sentii odore di carne alla griglia. Avevo fame, stavano arrostendo il maiale.
L'odore mi stava risvegliando dal torpore.
Mio padre venne da me e mi disse che la cena era in tavola.
Io chiusi per un attimo gli occhi e mi strinsi abbracciandomi. Poi, assaporai il fresco del marmo coi piedi scalzi.
Entrai con fare indifferente in cucina.
Mia madre stava tagliando la carne e mio padre buttava acqua sul carbone.
“Fuoco sopra il fuoco, fuoco in cielo e fuoco in terra.”
Mia madre buttò a tavola quelle quattro parole.
“Non sei venuta a salutare Erika.”
Io restai in piedi e non parlai. Mi guardavo passivamente le mani rendendomi conto che avevo le unghie piene di terra. Quelle mani infangate erano come un cerotto indispensabile per tamponare il mio stato d'animo.
Ero rassegnata alla malinconia, alla solitudine. Forse ero rassegnata anche all'indifferenza che provavano gli altri quando mi causavano dolore.
Gli altri erano loro.
Avevano voci impostate al comando.
Poi, una voce mi chiese di andare a lavarmi le mani. Non distinsi di chi era la voce. Però, aveva un timbro deciso, un tono di potere.
Non ero sempre ubbidiente. Accostai la sedia alla tavola e feci finta di non sentire. Come sempre si misero a discutere sulle cose di casa; sul fiume che era in secca da un mese, sui soldi del consorzio che non arrivavano e sull'affitto che c'era da pagare.
Come sempre li ascoltavo.
Ero seduta a tavola e mi accorsi di avere le braccia poggiate sopra un tavolo apparecchiato al passato.
Volevo scrivere qualcosa.
Mi portarono via il piatto.