I miei amori non sono mai esistiti *

I miei amori non sono mai esistiti oppure non sapevano niente, perché nessuno di loro si è presentato puntuale agli appuntamenti col mio cuore.
I miei amori li ho tenuti in grembo come figli, come il figlio della vergine Maria, concepiti per non so quale misteriosa opera dello spirito.
Di alcuni mi sono dimenticata presto e in vero li vedo a volte patire d’abbandono e smarrimento. Ma quando io do le spalle ad un amore, lo faccio sul serio, e di lui nulla mi resta se non un’orma trascurata in qualche regione della memoria. Un lembo di terra dove il seme del desiderio non attecchisce più. E il desiderio, si sa, fa da balia all’amore.
Così spesso accade, che mentre uno è deciso a bere dal mio seno quel nettare che prima pensava inutile, io abbia già cominciato ad allevarne un altro non mostrando più di un timido cenno di rimpianto.
Ciò che i miei amori mi hanno insegnato è a morire d’agonia. Non di una morte precisa ma simile a quella di un animale ferito che vagabonda ai margini della vita. E semmai mi è venuto meno il respiro è stato nell’istante in cui ho rinunciato alla loro custodia.
Credo che le donne come me siano malate, malate di un’indomabile follia che pretende di contagiare quanti la rifiutano. Perché la follia più grande è quella di non amare e nell’amore io mi riscopro periodicamente sana.
So bene che “sana” è termine dissonante per una che va predicando l’amore che non esiste come il più grande. Eppure chi può affermare che non sia vero? L’unica differenza tra un amore che i più definiscono “carnale” e i miei sta nel tempo in cui essi vengono consumati. Per questo mi sono meritata l’appellativo di “veggente” capace di prevedere le mie storie ancor prima di aver incendiato un uomo di passione. Anche se poi, come dicevo, arriva puntualmente in ritardo.
Ma se ci fossimo trovati a ballare la medesima sensuale danza l’uno abbracciato alla solitudine dell’altro, probabilmente non avrei mai scritto di loro perché è il lutto e il tormentarsi d’amore ad ispirare i poeti. Ed ognuno di questi ha la sua “Beatrice” o la sua “Laura”, quell’angelo terreno a cui giurare eterna fede o da tradire come un Giuda per ciondolare esanime al cappio del disonore.
La maggior parte degli amori chiamati “eterni” si mantengono tali perché continuano a vagare nell’illusione che un domani esisteranno.
Ed io ricordo sempre d’accudire queste assenze. Sono la donna dell’assenza, delle incontenibili mancanze che attende chi non c’è mentre ricama e disfa una tela infinita nel notturno sopore dei mortali.    ** Ispirato al "Tormento delle figure" di Alda Merini*