I Toraja a Sulawesi

I Toraja, li avevo incontrati in uno dei documentari favolosi di Folco Quilici. Quando mi si propose il viaggio in Indonesia, anni fa, accettai subito. Prima dell’ultima tappa, la turistica Bali, dopo le magiche, Giava e Sumatra, era in programma, una sosta alle isole Celebes, per visitare i Toraja, a Sulawesi. Niente di più spaesante nella mia vita. I toraja sono un’etnia di provenienza dalla Cambogia. Giunti sulle rive delle Celebes, non furono ben accolti, loro cristiani animisti, dai locali, musulmani. Si rifugiarono sulle cime dei monti, nelle invalicabili foreste. Dovendo costruirsi delle capanne, pensarono di rovesciare le loro eleganti imbarcazioni. Questo divenne il modello di costruzione negli anni a seguire. Ed è la prima meraviglia che s’incontra. I trofei di corna di tori le ornano. Ad agosto è l’epoca dei funerali. Se ricordate Omero, non avrete dimenticato il termine ecatombe……che comportava il sacrificio di centinaia di tori. Permane questo rito tra i Toraja, che tra l’altro è stato limitato nel numero, in età moderna, dal governo, per non dissanguare l’economia agricola. Mi restano quadri di ricordi, indelebili nel tempo. L’attesa dell’epoca dei funerali, agosto, fa sì che visitando la capanna della capo tribù, sì, era una donna, vidi il suocero deceduto, impacchettato in una stuoia vegetale, nella camera dei nipotini, sotto il loro letto. Assolutamente inodore. La presentazione oceanica dei tori nella verde pianura. Gli ori degli ornamenti, lamelle sulle corna ritorte. Loro, gli abitanti, arrampicati sugli alberi, in silenzio, come animali impagliati. Di prima mattina, mi vennero a prendere con una jeep. “Se teme il sangue non venga” – fu la premessa. Alba, nebbia fumosa tra gli alberi. Un recinto, un doppio giro di ombre nere, accovacciate, in mantelli e copricapo neri. Solo occhi. C’è sangue dappertutto, scorre tra l’erba. Un odore nauseante. Il toro abbattuto, fuma dalla carne rossa, mentre lo spellano con i machete. Ma già, al palo centrale, viene portato un altro toro. Il giovane della tribù si gioca la sua entrata nell’età del guerriero, con il colpo di machete, che deve essere netto, forte alla giugulare del toro. Un muggito lamentoso, un gorgogliare rosso nero dalla gola. Il toro barcolla e cade tra le urla. Basta così, vado via. Incontrerò al tramonto la processione, scomposta e traballante come il baldacchino sulle spalle di una miriade di esseri affannati.  Nella foresta, quasi buia, una parete di roccia ha loculi scavati. Fantocci vestiti, dagli occhi vividi, luccicanti fanno da guardia e rappresentano i morti. Quegli occhi m’imbarazzano. Mi sono addosso. Il lamento dei maiali sgozzati, ultimo sacrificio. Il sole da posto alla luna.