I Tre Rivi

Quella domenica era cominciata male. Una pioggerellina uggiosa di quelle che cadendo sussurrano: “Ti volevi divertire caro, oggi che è domenica, eh? He he, he!”, per cui uno già è urtato al primo acchito. Comunque, avviai il locomotore e mi diressi verso Montevinaio, incontro al destino che, è proprio il caso di dirlo, si sarebbe rivelato tre volte rio!

Stavo appena lasciando il punto ridente capoluogo, quando il mezzo tecnologico che strappa l’uomo alla meditativa solitudine per spingerlo tra le fauci dei gendarmi, novelli briganti inguattati lungo la via, squillò e la voce sorniona del capocaccia, m’interrogò: “Che fai? Dove sei?”.
“Eh”, risposi titubante, “starei uscendo dalla città per venir da voi”.
“Ah, vieni?”.
“No? Non devo venire?”.
“Mah, sai, qui pioviggina”.
“Anche qui, ma ad Est si apre sotto il soffio di una  simpatica tramontana gelata”.
“Ah, allora…”.
Oltre al campanello della suoneria del telefono anche uno d’allarme era risuonato in me, ma decisi d’ignorarlo, perché all’uomo si insegna che occorre misconoscere quelle intuizioni che spesso, invece, agli animali salvano la vita. Proseguii imperterrito.
Dopo la consueta mezz’oretta di tragitto, stavolta assai grigiastro, giunsi a destinazione, ove mi accolse un’allegra e persistente pioggerella che inumidendomi, parve ribadire: “Ah, sei venuto lo stesso, eh? Bene! Benvenuto caro, buon divertimento”. Per fortuna la plumbea cappa atmosferica era avversata da una opposta, che si dipartiva dalla forza aerea eppur terrigna del fuoco, dipanando verso l’alto una caligine riscaldante e di tutt’altro genere. Infatti, profumava. Ma di che, esattamente?! Uhm. L’unica era scoprirlo.
Discesi la ripida ma breve callaia che conduceva al rialto ed alla fiamma, ove mi accolse l’appetitosa vista di spiedini posti a rosolare sulla brace. Meno invitanti erano le dubbiose espressioni di coloro che le manducavano. Nondimeno, come resistere alla ciccia affumicata?
A gentile offerta del cuoco ne posi uno sui tizzoni, lestamente coperto di sale e pepe. Tanta pronta sollecitudine m’insospettì non poco, ma avevo accettato e poi avevo freddo e fame. Entrambi miei stati abituali.
Appena cotto, addentai il boccone, dopo aver scroccato il pane ad un insolitamente disinteressato segretario. Addentare è il termine giusto, ma per digrumarlo avrei dovuto dire azzannare, laddove la natura mi avesse fornito di tale dentatura. Buono, eh? Buono e saporito, ma duro, duro dannato.
“Secondo te, che bestia è?”, m’interrogò il capocaccia.
“Mah, non saprei, forse cane?”, azzardai.
“Macché cane!”, s’inalberò il macellaio.
“Per me è tarpone”, spiegò il di lui genitore.
“Io non son nuovo alla cacciagione, e a me sembra capriolo”, specificò con la sua voce calma e pacata il buon Corradino, alzando una mano per dar forza al discorso.
“No!”, garantì il cuciniere.
“Abbia a essere nutria?”, ipotizzò il Principe, così detto per la delicatezza dei modi e ricercatezza dell’eloquio.
“Nemmeno, perché la nutria è morbida”, sancì il decano dei cacciatori.
“Allora spinosa”, propose il capocanaio che nel frattempo si liberava del boccone senza ingurgitarlo.
“Neppure, sarebbe più dolce”, borbottai tra un crampo e l’altro della mascella.
“Non rimane che la volpe o il tasso”, decretò il capocaccia dell’anno avanti, forte delle sue evidentemente variegate esperienze culinarie.
“La volpe è più rossa”. “Il tasso è più grasso”, specificammo prima Corradino e poi io.
E lo chef rideva e coceva, coceva e rideva.
“Ce n’è per tutti se l’oste ne coce!”, citò un vecchio adagio popolare il nostro decano, che più vicino ai novanta che agli ottanta pure immancabilmente presenziava a testimoniare che la passione non ha età.
Come Dio volle, smise di piovere ed i fumi arborei ed equorei s’unirono in una sola cortina nebbiosa che si distese e poi si dissolse, lasciando il celeste campo agli immensi, candidi nembi che lo solcavano solenni e maestosi, transeunti testimoni del rito millenario che s’andava apparecchiando: la caccia al setoloso dentato!
Ci approntammo alla partenza alleggeriti nello spirito, per quanto appesantiti nello stomaco che aveva preso a belare le sue rimostranze, adottando forse la voce delle carni che ospitava….
Io pescai i numeri relativi a due poste contigue, giacché la presenza di Corradino accanto alla mia, oltre che garanzia di sicurezza ed ammaestramento, era anche fonte per me di sincero piacere. Provavo, infatti, una profonda stima venatoria, unita a umana simpatia per quel tiratore ponderato e consumato, con la folta barba alla garibaldina e l’attento occhio ceruleo intonato ai limpidi paesaggi maremmani e schietto al par di essi, a far da contrappunto alla pelle abbronzata e solcata anzi tempo, lavorata dal sole e dall’aria come i campi colti ed incolti su cui aveva trascorso l’esistenza. Artefice ferace e al contempo partecipe fruitore della terra verzicante, in un accordato, simbiotico suggello. Insomma, il compagno ideale di caccia e di cammino che si presentò tosto aspro, erto ed irto. E sdrucciolevole assai….
Le poste riservateci, secondo i numeri estratti, si rivelarono, come al solito, le ultime e le più disagevoli da raggiungere. Laggiù, laggiù oltre un primo colle, al di là di un secondo, in fondo ad un ripido declivio, ecco che potei finalmente far giacere le stanche membra affardellate.
“Questa è la posta migliore!”, mi assicurò il vecchio capocaccia, “anno ce n’ho ammazzati quattro”.
“E io due”, rincarò Corradino.
“Ecco”, dissi tra me e me, “stai a vedere”. Perché il lettore è bene abbia contezza che allorquando mi rassicurano circa le buone probabilità dell’impresa, è matematicamente certo il verificarsi dell’opposto esito. Tuttavia, dire che quel luogo fosse la dimora di una fata, non rende ragione neppur per metà all’incanto fascinoso che m’irretì non appena ebbi avuto modo di sedermi ed acquetarmi.
Un rivo sonoro e saltellante, corrente tra sassi e cadente da massi, donava la vita alla forra in cui mi era toccato di appostarmi e che, tra i vasti aperti campi, rinserrava una dimensione incantata la cui poesia non può descriversi a parole: lucenti faggi dalla nivea scorza imbiancavano le ripe ingentilendole e donando loro un’aria nordica, montana, mentre un pioppo plurisecolare, dal tronco incommensurabile, avvinghiato al bordo dell’acqua, nodoso, contorto e screpolato, forniva ricetto ad innumerevoli generazioni di passeri. E là, dove il tempo aveva aperto vaste e profonde ferite solcandone la corteccia, una tenera ed apparentemente pietosa edera s’inerpicava a celarle ed a scaldarle, riparandole contro gli assalti del dirompente gelo.
L’aria tutta era solcata da un profluvio di gialle foglie turbinanti, che la tramontana rubesta faceva vorticare tingendo d’oro il rivo ed il suolo, naturali castoni ai focati rubini che qua e la sgargiavano dai pungitopo, per quanto dubito che i topi siano così sprovveduti da farsi bucare da quelle piante come invece, regolarmente, capita ai cristiani.
Gli spazi aerei venivano costantemente ritagliati e suddivisi da fili di sole, che i ragni volanti imprigionavano con le loro seriche scie, consentendo agli immoti arbusti di unirsi lievemente or qua, or là secondo il capriccio dell’aria aulente. E la musica delle acque irrequiete sovrastava il canto degli uccelli ed il rimestio dei pensieri sino ad affogarli tutti e trascinarli lontano a valle, schiacciati sotto i rivoltanti cogoli.
In alto a sinistra, sopra di me, si stagliava la figura seduta di Corradino, la schiena eretta, l’arma quieta ma pronta appoggiata ad un ginocchio, accarezzata dalle dita desiose, mentre sul costone di rimpetto il fornaio andava scartando l’involto che s’era portato, aprendo le ostilità con gli ungulati già insaccati. E, su tutti, un cielo traforato di verde e grigio, giallo e bruno, colorato dai mutevoli dipinti che le alte ramaglie ondeggianti al tramontano componevano instancabilmente.
Era tutto bello, così bello e pacifico che, manco a dirsi, non poteva durare. Non un abbaio incrinava la quiete, neanche un latrato penetrava le selve, né, tanto meno il dirompente contatto del fuoco con la polvere pirica squassava i sensi, eccitando gli animi. Quel sito così fiabesco mi si prestava mirabilmente a comporre un racconto, ma, forse proprio per questo, si negava a qualsiasi altro impiego, compreso quello venatorio.
Da non molto il mio animo si era placato, accordandosi ai battiti del cuore che aveva cessato le extra sistole della marcia, quando avverti l’inconfondibile scatto metallico dell’otturatore dell’automatico di Corradino. Stava scaricando l’arma. Lo guardai e capii. La ciccia pelosa non transitava per tale landa ed urgeva abbandonare l’infruttuosa cacciata per iniziarne un’altra altrove.
Come predetto, l’infausto oracolo avverava con crudele malevolenza la propria esattezza.
Scaricai il fucile, mi ricaricai dello zaino, ed abbarbicandomi alla bell’e meglio ai più improbabili appigli, m’issai dal greto, senza lasciare, però, che la sua musica purificatrice abbandonasse il mio animo.
Ed ecco il bello: eravamo, come già notato, le ultime poste, e tutte le precedenti s’erano adesso incamminate verso la nuova destinazione, sì che urgeva raggiungerle rapidamente; solo che la medesima strada che coperta in discesa richiede un dato tempo, se percorsa in salita, pur non allungandosi di un centimetro, per imperscrutabili leggi fisiche richiede un lasso quanto meno doppio, che nel mio caso si triplica dovendo impegnarmi a convincere delle riottose membra ad assecondare una volontà a dir poco ottimistica, fin quando il cuore, gettato oltre l’ostacolo, non rimbalza all’indietro mollando contraccolpi titanici ad una cassa che la natura non volle grande.
E intanto Corrado, direte voi, che mi sopravanza di qualche lustro, soffriva, ansimava, si strascicava?
Soffriva certo, o meglio, friggeva, pur senza mostrarlo, a dovermi aspettare in cima al colle che mi vedeva arrancante scalatore paonazzo e sfiatato. Alfin giungemmo e mi sprofondai nel sedile della vettura, affabulando qualche scusa che non suonasse eccessivamente mortificante. Ma d’altronde, come dicono gli Alpini: “Ci mancò la fortuna, non il valore” e se per fortuna intendevano il fiato, nessuno fu più Alpino di me.
Dopo un tragitto ampiamente insufficiente affinché potessi riuscire a recuperar risorse che mi consentissero di spostarmi in stazione eretta, dovemmo ributtarci giù per una pendenza, la quale, più che precipite, era proprio uno scatafosso su cui stambecchi di buon senso si sarebbero ben guardati dall’azzardarsi.
Il burrone, solcato da insidiose fenditure frananti camuffate da irridenti ciuffi d’erba, cessava come tagliato da una lama spietata, con un salto di un metro, su di un lutulente fiumiciattolo. Un fangoso rivoletto che serpeggiava malevolo e infido nel bel mezzo d’un motoso pantano. Un masso segnava il limite tra la terra friabile e quella marcia e cedevole che sbarrava la strada. Cioè, la sbarrava a me, perché, evidentemente, ai colleghi che mi precedevano aveva mostrato il proprio favore consentendo loro un sicuro ed asciutto passaggio. Comunque, dato che indietro non si torna diceva un tale, osservai bene il compagno davanti a me e mi accinsi ad imitarne il gesto atletico.
Premetto che i miei arti inferiori avevano ripreso a baccagliare con il muscolo cardiaco e con l’apparato respiratorio, e che, non riuscendo a fiaccare l’indomito volere del loro signore e padrone, avevano di già consumato un vile tradimento incrociandosi poc’anzi ed infliggendomi quella che tecnicamente si definisce una “culata coi contro fiocchi”, ma ci voleva ben altro! Quello, appunto, che stava per capitami.
Eravamo, dunque, rimasti al gesto atletico del mio predecessore, il quale, posto il piede sinistro sul masso, lasciava cadere il destro in un punto della fanga donde si dava lo slancio per scavalcare a volo il canaletto. Niente d’insormontabile, a prima vista.
Montato sul masso, presi la mira, modestamente infallibile, dell’orma umana da ricalcare e mi lasciai andare su quella pesta per spiccarne il balzo da pillaccherone.
Quello fu il passo del destino che si chiuse su di me. Anzi, per essere esatti, sul mio arto che fu istantaneamente risucchiato nel gorgo del brago fino al polpaccio, imprigionandolo in una morsa vischiosa, che esercitò una forza pari e contraria a quella impressa al resto della mia persona, così che in un battito d’ali fangose, mi ritrovai diffuso e impresso esattamente al centro del melmoso rivo, imparentando ogni arto disteso con l’impregnante padule.
“Subito corsero, ti sollevarono, ti ripulirono, ti asciugarono!”, dirai tu, o ingenuo lettore, ignaro e incredulo della perfidia umana e specialmente di quella del cinghialaio maremmano. No amico caro non corsero, non potevano neanche volendolo, benché comunque non lo volessero, perché le forze mancarono loro per l’empia risata che li squassò, abbandonandomi alla mia sorte infangata!
Dopo che m’ebbi raffigurando il soldato napoleonico di Waterloo, con lo zaino pendulo da una parte e lo schioppo ciondoloni dall’altra, col berretto sugli occhi ed i panni arricchiti da una pigmentazione mimetica nuova e non ricercata, mi avviai con disinvolto stile, per quanto l’abbigliamento mèzzo e gocciolante lo consentisse, verso lo sganasciato gruppo in mia premurosa attesa, augurando loro ogni gioia e soddisfazione dalla vita. E con quale premura furono ricambiati i miei auguri! Subito, per paura che bagnato potessi raffreddarmi, fui collocato in una splendida postazione completamente aperta al gelido soffio della tramontana, in modo che mi potessi asciugare, dissero, come infatti avvenne al termine delle due ore in cui potei giovarmi di quello spontaneo phon della natura. Siderale. Prima di lasciarmi alla sosta criogenica, il capocaccia, con sollecita premura, mi apostrofò con tal bel garbo: “Te mettiti qui e augurati che passi un cinghiale”.
“Te augurati che io gli tiri, se passa”, fu la risposta che formulai nel mio intimo senza esplicarla dato che il mio morale cominciava a cedere sotto i colpi del fato beffardo, eppur giustificata sarebbe stata la mia rampogna e vi spiego il motivo. La mia posta si trovava su di un sentiero largo forse un metro, forse meno. Alle spalle uno spaventoso orrido con un tuffo di quindici metri sul cui fondo ruggiva un fiume, il terzo e per fortuna ultimo della giornata, così precipitevole da aver perfettamente levigato il fondo roccioso e la base delle due rive. Di fronte, proprio sul bordo dello stradello, si levava un poggio, alto, spiovente, decorato da pochi alberelli fragili e stenti che ben difficilmente avrebbero potuto arrestare la caduta di un animale abbattuto e precipite e, se il capocaccia contava che io frapponessi la mia assai moderatamente ginnica complessione alla frana suina per confondermi ad essa in un amplesso setoloso che solo la corrente del rivo avrebbe potuto districare dopo che vi fossimo dirupati, ebbene era destinato ad una cocente disillusione.
Soffiava il vento, piegando al proprio volere le chiome delle piante e la mia, perché mi s’era infradiciato anche il cappello, e montavano in me i dubbi secolari che turbano l’umanità da tempo immemore: “Chi sono io? Donde vengo, dove vado? Ma soprattutto, che accidenti ci faccio qui?”, quand’ecco che un cosetto nero mi si avvicinò irridente, ed era chiaro che l’impudente scoiattolo aveva trovato la risposta all’ultima domanda e moriva dalla voglia di trasmettermela. Gli si leggeva negli occhietti malevoli e canzonatori la sentenza che solo l’eccessiva escrescenza dentale gli impediva di compitare: “Il bischero!”. E tale dovette essere il giudizio condiviso in quel dì di caccia dal mondo animale riunito a ridente simposio, ben lontano dalle nostre canne poco tonanti, giacché di cinghiali non se ne mostrò uno neanche per carità cristiana.
Ciò sia di monito all’uomo predatore: “Chi al fratello cacciatore non sovviene in soccorso, di preda non vedrà nemmanco l’osso”. Io lo dissi e qui lo sottoscrivo.
Un unico risultato positivo raggiunsi al termine della contro risalita che mi riconduceva alla civiltà: finalmente avevo digerito il montone.