Il funerale della strega

Un giorno d’inverno morì una strega. Era una donna cattiva, che in vita aveva goduto nel far del male a molta gente. Nessuno se la sentiva di far parte del corteo funebre, lungo il sentiero che dal paese portava al camposanto. Il cimitero, posto sulla sommità di un monte, era sì un luogo di pianto, ma così bello da allargare il cuore; il lugubre sentiero che bisognava percorrere per raggiungerlo, invece, era solitario, tortuoso, arrampicato su un costone roccioso a strapiombo sull’orrida valle, tappezzato da erbe secche e scure, contornato da due file di scheletrici legni di alberi morti, che nessuno, neanche i più vecchi, ricordava più se mai erano stati esseri viventi coperti da verdi fronde. Chi poteva avere mai il coraggio di attraversare un luogo tanto cupo e pauroso in compagnia del cadavere della vecchia strega? Non se la sentiva il prete, né il becchino, né tanto meno i parenti ed i paesani, ai quali la donna, in vita, aveva fatto tanto male. Ma tant’è, neanche una strega può rimanere insepolta, e una soluzione bisognava trovarla. Il becchino, Bepi Picon, possedeva un vecchio asinello che utilizzava per portare le bare durante i cortei funebri. La bestia, animale mansueto e intelligente, conosceva ormai a memoria la strada dal paesello al camposanto, perché l’aveva percorsa molte volte, con la cassa del morto ben fissata alla sua groppa e il corteo funebre, in lacrime, dietro le sue terga. Così a Bepi Picon venne un’idea: carichiamo la bara sulla groppa dell’asino, la leghiamo ben bene perché non caschi e lasciamo che sia lui, da solo, a portare la vecchia al camposanto; è una bestia intelligente e conosce la strada a memoria; ed è un animale, non un cristiano, e non si lascerà certo impressionare dalle cose che a noi fanno paura. Noi poi ci facciamo coraggio, raggiungiamo il camposanto tutti insieme, più tardi, con calma, scarichiamo la bara e la caliamo nella fossa. Poi chiudiamo la tomba, finiamo il lavoro e ce ne torniamo a casa ben prima che faccia buio. Ben detto, buona idea, facciamo così... commentarono gli altri, ben lieti di essersi evitati il rischio di dover compiere il lugubre tragitto in compagnia della morta. Anche il prete approvò. Si caricò l’asinello, legando ben bene la bara sulla sua groppa; incoraggiata da una pacca sul fianco, la bestia, ligia, si inerpicò verso il camposanto per fare il suo dovere. Intanto i paesani se ne andarono all’osteria, per darsi coraggio e lasciare al somarello un congruo anticipo.
Quando pensavano che la bestia potesse ormai essere arrivata a destinazione, il becchino, un paio di aiutanti, il prete coi paramenti funebri insieme a qualche paesano coraggioso, si diressero verso la sommità del monte dove si trovava il cimitero. Intanto, il cielo si era fatto nero e cupo, e l’aria gelida. Sembrava quasi che soffiasse un alito di morte. Giunsero finalmente alla bella radura dove si trovava il Camposanto. Qui era tutta un’altra storia, tanto era bello il paesaggio che di colpo si apriva agli sguardi, con le tombe serene che si estendevano nel prato verde e ben curato e, più in là, la spettacolare vista sulla loro bella vallata. Ma c’era qualcosa che non andava: non si vedeva, da lontano, la sagoma familiare del vecchio somaro. Forse, laggiù c’era qualcosa... sì, eccola la bestia, ma non il solito placido animale, intento a brucare l’erba: il somaro era accasciato a terra, rovesciato malamente su un fianco, la bocca spalancata in modo innaturale, da cui era uscita una densa bava, che ora giaceva coagulata fra gli steli d’erba. Gli occhi aperti e sbarrati, la povera bestia era morta stecchita, la bara ancora ben fissata sulla sua groppa. Vincendo il timore che li assaliva, scaricarono la bara dalla groppa del povero animale e lì scoprirono la causa della morte: un lungo rettangolo, delle stesse dimensioni della bara, un rettangolo nero, di pelle e carni e ossi bruciati, profondamente inciso sulla schiena della bestia esattamente laddove era appoggiata la cassa della strega.