Il gioco di Katy

Katy Watson era una bella bambina, bionda e paffuta, con splendidi occhi chiari. Si era rivelata fin dai primi mesi molto intelligente e molto, molto vivace… Praticamente al limite del contenibile. Smontava sistematicamente tutti i giocattoli che le regalavano e tutto quello che le capitava a tiro, guardando con curiosità ogni singolo pezzo quasi volesse capire com’era fatto “dentro”…
Se la lasciavano nella culla non erano mai sicuri di ritrovarcela: a volte sbucava, gattonando, dal bagno del primo piano oppure chiamava la madre dal giardino, per farsi aprire la porta, senza che nessuno riuscisse a capire come avesse fatto ad arrivare fin lì.
Ciò nonostante, i genitori, Marla e William, la adoravano, e le sue prodezze in famiglia ottenevano solo l’effetto di far aumentare la condiscendenza nei suoi confronti. Tutti erano felicissimi di vedersi crescere sotto gli occhi questa piccola peste, “di certo”, dicevano, “nella vita diventerà qualcuno”.
Il primo vero spavento arrivò solo quando Katy, inspiegabilmente, diede fuoco alla sua nuova bambola nuova: la madre la trovò tranquillamente seduta in giardino a fissare, si sarebbe detto quasi con interesse scientifico, i lunghi capelli lisci e biondi diventare ricci e neri, la plastica deformarsi e sciogliersi gocciolando, la bambola trasformarsi in una informe poltiglia color catrame.
Anche quella volta, il grande sorriso innocente della bambina in braccio alla madre terrorizzata la salvò da una sicura punizione.
Il limite però sembrò superato irreparabilmente quando, a due anni circa, Katy cavò letteralmente gli occhi ad un gattino usando i ferri da maglia della nonna. Quella volta il sorriso dei familiari cedette al raccapriccio di fronte allo spettacolo del povero micio che gridava, soffiava e saltava come un indemoniato, andando infine a terminare la sua folle ed inutile fuga sotto le ruote di un camion che sopraggiungeva e che, nonostante i riflessi del conducente, non riuscì ad evitarlo… E forse gli fece un favore…
Dopo qualche giorno, comunque, l’incidente era già stato dimenticato e tutto era tornato nella norma. Anche Katy!
La serenità scomparve improvvisamente da quella casa una mattina di settembre, quando la madre, all’epoca in dolce attesa, fu trovata nel suo letto. Morta. Col ventre squarciato.
Il marito era in viaggio per lavoro. Fu avvertito telefonicamente. Un maniaco, si disse, probabilmente introdottosi in casa durante la notte… “Era una famiglia tranquilla e serena”, dissero i vicini ai giornalisti accorsi, “senza problemi né nemici”.
William Watson non sapeva darsi pace ma fu ugualmente felice quando seppe che Katy era sopravvissuta. L’avevano trovata tranquillamente addormentata nella sua culla, nella stanza accanto a quella in cui era avvenuto il delitto, e quasi certamente non si era accorta di nulla. Per qualche assurda combinazione l’assassino non aveva infierito su di lei. Forse pietà? Forse un caso? Chi avrebbe potuto dirlo…
Il detective Norman Pierce, incaricato delle indagini sul caso, essendo tra l’altro anche vicino di casa dei Watson, fece in modo che padre e figlia venissero scortati al comando e poi in un alloggio appena fuori città, giusto per evitare l’assalto degli sciacalli mediatici, che, come al solito, non si fecero attendere.
Pierce passò quindi tutta la notte e molte ore delle notti seguenti a studiare i referti della scientifica, salvo alzarsi dalla sedia di tanto in tanto per un caffè.
Nulla! Non avevano trovato nessuna traccia. Non un’impronta, non un’orma che appartenesse a qualcuno di estraneo alla casa. Non un indizio. Sembrava che l’assassino fosse letteralmente svanito nell’aria: tutte le aperture erano chiuse dall’interno e non c’era segno di forzatura o scasso.
“Maledizione!”, sbottò, dando un pugno sulla scrivania. “Un maledetto psicopatico entra, fa quel cazzo che gli pare e non lascia nemmeno una briciola fuori posto! E’ impossibile! Non può andare e venire senza che nessuno noti qualcosa di strano…”. Le parole gli morirono in gola perché improvvisamente gli si era accesa in mente l’immagine di sua moglie e dei suoi due ragazzi… Anche loro abitavano in quello stesso quartiere, anche se più in fondo alla strada, e se l’assassino avesse deciso di rifarsi vivo… Un brivido gli passò sulla schiena… Scattò come una molla verso la porta ma si fermò dopo un paio di metri: una pattuglia era già stata allertata dalla notte del delitto, col compito di girare anche in tondo, casa per casa, per tutto il quartiere, tenendo gli occhi bene aperti.
Il fatto era ancora recente e conosceva bene i ragazzi della pattuglia, avrebbero fatto un buon lavoro. Si tranquillizzò un poco.
Per allentare ulteriormente la tensione che gli rendeva difficile riflettere sedette e si appoggiò contro lo schienale della poltrona, tamponando col fazzoletto le grosse gocce di sudore che improvvisamente gli erano comparse sulla fronte.
Katy e William alloggiavano in albergo da dopo il funerale e probabilmente per un po’ non avrebbero rimesso piede in quella che era la loro casa. La prassi avrebbe voluto che non si allontanassero dalla città durante il periodo delle indagini ma Norman aveva fatto in modo di fargli ottenere un permesso speciale in cambio della loro collaborazione.
Ora Norman stringeva nel pugno le chiavi di quella casa di Pine Street ma quando le infilò nella toppa, in un mattino di ottobre, provò una strana sensazione di sacrilegio. Quella casa sembrava voler rimanere chiusa, col proprio segreto, per sempre. La serratura sembrava dapprima incastrata, la chiave non girava, poi rotta, di colpo la chiave girava a vuoto, senza agganciare i pistoncini.
Si guardò intorno, poi, quasi accarezzando la porta, mormorò “andiamo, voglio solo capire cosa è successo qui dentro”, poi girò ancora la chiave. La serratura finalmente scattò e la porta si aprì. “Grazie”, pensò Norman.
Un forte odore di chiuso lo investì appena nell’ingresso. Da almeno tre settimane nessuno vi metteva piede.
Incartamento alla mano, rifece il giro che avevano fatto quelli della scientifica. Tutti i segni col gesso, le indicazioni, le lettere e i numeri fino al profilo del corpo sul materasso spogliato delle lenzuola.
“Eppure qui qualcosa non gira”, continuava a ripetersi, “Marla Watson era una donna pratica ma ordinata, tutto al posto giusto e niente fuori posto”.
Norman si sforzava di rompere tutti i suoi schemi mentali che non avevano già portato a niente. La prima regola del detective diceva “se non trovi ciò che cerchi, stai cercando nel posto sbagliato”. Era convinto che qualcosa fosse sfuggito, un particolare cui fosse stata data poca importanza. Forse cercando dove gli altri non erano stati…
“Tutto al posto giusto e niente fuori posto”, continuava a ripetersi come un mantra, “tutto al posto giusto e niente fuori posto”.
Entrò in cucina, una delle poche stanze in cui i rilevamenti stranamente scarseggiavano e, quasi sovrappensiero, cominciò a fare un suo personalissimo “scanning”.
I piatti? Al posto giusto.
Le posate? Al posto giusto.
Gli stracci? Al posto giusto.
Le pentole? Al posto giusto.
A sinistra del lavello c’era il ceppo porta coltelli, lo girò e continuò
“I coltelli? Al posto giu… No. Un momento…”
Ne mancava uno.
I coltelli erano, come al solito in questi utensili, ordinati secondo l’uso e la grandezza. Mancava il penultimo, quello subito prima della mannaia. Quindi doveva essere piuttosto grande. Erano tutti molto affilati. Quindi probabilmente anche quello mancante… Dov’era finito?
Una sirena cominciò a gridargli in testa mentre un’enorme insegna luminosa diceva “TUTTO AL POSTO GIUSTO, NIENTE FUORI POSTO”.
Norman sgranò gli occhi e cominciò a guardarsi attorno, nel suo sguardo una somma scritta a metà “1+…?”.
La cucina si trovava al pian terreno e da qui una piccola porta a vetri, una di quelle senza blocco serratura ma che si aprono solo dall’interno, dava sul retro della casa. Cercando di completare l’idea che cominciava a formarglisi in testa uscì e si guardò intorno: riusciva a vedere uno scorcio della strada frontale ma probabilmente una persona, dalla strada, difficilmente avrebbe scorto lui. Tantomeno di notte. Guardò la porta: uno abile avrebbe potuto far scattare una serratura di quel tipo senza lasciare segni… La somma nella sua testa si allungò, “1+1+…?”.
Rientrò velocemente in casa e, seguendo un percorso immaginario, raggiunse la camera da letto accendendo tutte le luci e guardando attentamente in tutte le direzioni, alla ricerca di un qualcosa… Ma sembrava che nessuno fosse mai passato da lì. “Un fottuto circolo vizioso”, pensò, “come un cane che si morde la coda”.
Decise di fumarsi una sigaretta, il che era un brutto segno. Non era un gran fumatore, lo faceva solo quando era particolarmente nervoso. Ma rimase con la sigaretta tra le labbra e l’accendino acceso, lo sguardo perso nel vuoto… Il punto interrogativo alla fine della sua somma si era improvvisamente illuminato “circolo vizioso…cerchio…il cane si morde la coda…e il cerchio comincia da dove finisce… La cucina!”, gridò, e partì di corsa.
Aprì tutte le mensole, il frigo, tutte le ante possibili. Niente. Scivolò contro la parete fino a sedere a terra, “basta, ho chiuso, mi arrendo! Questo sarà un altro dei casi insoluti dell’archivio…”. Aprì il secchio della spazzatura per buttare la sigaretta che nel suo pugno era diventata una poltiglia di tabacco e carta e… “Bingo!”, dentro il sacchetto dei rifiuti c’era il coltello mancante.
Lo tirò fuori con il guanto sterile e lo infilò in un sacchetto di cellophane. Sulla lama erano ancora ben visibili tracce di sangue secco. “Nove su dieci non si butta un coltello perché è sporco. Nove su dieci credo di sapere di chi è questo sangue…e nove su dieci…”, fissò il coltello con rabbia mista a soddisfazione, “t’ho fregato bastardo!”.
Da qualche parte nella sua testa una vocina gli suggerì timidamente che fosse ben strano che un omicida buttasse l’arma del delitto nel secchio dei rifiuti della vittima, ma il vocione principale la fece immediatamente tacere.
I Watson furono avvertiti e William venne in centrale, portandosi dietro l’altra superstite di una ex famiglia felice. A vederli si sarebbe detto che William non avrebbe più lasciato la bambina da sola, per nessun motivo, nemmeno per un istante.
Katy sembrava essere passata indenne attraverso quanto era successo, sempre allegra, vivace, sorridente. Il volto del padre, invece, era pallido e scavato ma nel suo sguardo si indovinava facilmente il bisogno di sapere, di capire il perché di tutto quel che era successo.
“Il coltello serve ancora in laboratorio per gli esami. Voglio solo sapere se lei lo riconosce”, esordì Norman, saltando i convenevoli.
Una agente intratteneva Katy sulle proprie ginocchia mentre il padre parlava con Norman. Di lì a poco un altro agente entrò portando il coltello, sempre dentro il sacchetto trasparente. Gli esami erano quasi finiti, comunicò, entro breve sarebbero arrivati i primi risultati.
Appena Katy vide il sacchetto cominciò a saltare ridendo sulle gambe della poliziotta. Tutti la guardarono, sia pur con sentimenti diversi, e nel silenzio dell’attenzione generale Katy esclamò, col suo linguaggio infantile ma chiarissimo “pancia mamma beeella…io pima tacchete…pettooo…poi…tuutto pocco e io pum tecchio..!”.
Nella stanza scese un silenzio di ghiaccio. Tutti gli occhi erano puntati sulla piccola Katy, la terribile Katy, la mostruosa Katy…
Squillò il telefono. Norman come in trance allungò la mano ed alzò il ricevitore. Dall’altra parte qualcuno esclamò “ehi Norman, ho i risultati delle analisi e delle impronte. Preparati perché non crederai ai tuoi occhi”. “Ho paura che ci crederò…” rispose Norman, riagganciando.
Katy sorrideva.