Il guardiano del tempo

Da sempre l’uomo s’è chiesto come siano fatte le creature aliene. Questo sforzo d’immaginarne la forma, d’indovinarne la civiltà, ha prodotto innumerevole letteratura fantastica, e tuttavia, per quanto fervida possa essere stata la fantasia degli autori (o delle persone che avrebbero assistito agli incontri ravvicinati) l’ingenuità di tali rappresentazioni traspare inesorabilmente dalla loro natura sempre più meno antropomorfica: gli alieni sono stati rappresentati con antenne sulla testa, con la pelle verde, alti tre metri o sessanta centimetri, ma sempre, invariabilmente, con forma più meno umana.
Io stesso avevo degli alieni una visione altrettanto ingenua: li immaginavo svettare per l’universo nelle loro lucide astronavi, dotati di corporatura magra e molto esile, sormontata da una grossa testa sproporzionatamente grande in modo da contenerne lo smisurato  cervello.
Testa ovviamente calva, con grandi occhi rotondi, neri e  tristi: forse perché la felicità è associata all’infanzia e questi uomini, vaganti per l’universo da tempi immemori, non potevano essere giovani. 
Avevo superato il dubbio principale sulla loro esistenza , ovvero la  domanda del perché non tentassero di comunicare con noi, quando avevo realizzato che dopotutto noi non tentavamo di comunicare con le formiche.  Non mi sbagliavo sulla loro esistenza, mi sbagliavo viceversa (e quanto grande e tragico è stato questo errore!) sulla loro forma, e soprattutto sul loro essere.
Ed è per questo tragico errore che adesso mi trovo su questa landa desertica e sconfinata in uno degli innumerevoli pianeti (Zamor) della stella Xenon 103 ad un milione di miliardi d’anni luce dalla mia amatissima Terra.
Passo i miei giorni a cercare di capire perché mi abbiano portato quassù, qual è il loro scopo, quali siano i loro piani,
A COSA GLI SERVO.

Ma non riesco a trovare una risposta, per ora.

Vago per questo maledetto pianeta fatto di polvere e rocce, rocce e polvere; niente che mi dia un brivido di bellezza, tranne questo enorme sole che va a morire pigramente dietro l’orizzonte di rocce, in un’azzurra agonia.
Di tramonti così ne ho contati tremila cinquecento trentasette. 
A volte mi chiedo dove siano andati a finire i miei amici; a quale sperduto e desolato pianeta farà la guardia Paolo, quale landa infinitamente triste e sconfinata esplorerà Gustavo.
Mi chiedo quanti di noi avevano capito che il viaggio sarebbe cominciato con quell’episodio apparentemente del tutto banale chiamato morte; mi chiedo se avessimo mai potuto immaginare che quel tarlo che s’insinuava  nel corpo, quel bubbone che cresceva avvicinandoci al viaggio finale, NON ERA UMANO.
Ma forse era troppo atroce da concepire. Eravamo troppo lontani dal vero per potere realizzare l’idea: li abbiamo sempre avuto fra noi, DENTRO DI NOI, troppo vicini per poterli scorgere, troppo lontani dalla nostra immaginazione per poterli mettere a fuoco. Piccoli maledetti, schifosissimi vermi, che ci usavano, usavano ciascuno di noi, per i loro inconoscibili scopi.

Ma adesso che finalmente hanno lasciato il mio corpo ho un grande vantaggio: contemplo l’orizzonte pietroso di Zamor ed il suo sole orrendamente azzurro e penso che mi resta un’eternità di tempo per scoprire i loro piani.
Del resto il silenzio abissale in cui è immerso questo pianeta, questa roccia inerte e spaventosa, mi conferisce una strana lucidità ed a tratti mi sembra d’intuire la risposta alle domande lancinanti che affollano la mia mente dal giorno in cui, aperti gli occhi, mi sono ritrovato in questa  luce azzurra, densa come ovatta.
La domanda che scacciata, ritorna con insistenza come una mosca molesta è:  sono loro ad usarci, o Qualcuno li usa a sua volta, novelli e forse  inconsapevoli angeli di morte?
E’ tuttavia necessario che impari a controllare i miei pensieri: a tratti ho vivissima la sensazione che qualcuno riesca a rubarmeli, e che tutto ciò che vedo e penso venga catturato ed inviato ai nodi d’una immensa ragnatela e da qui rimbalzi come in un infinito gioco di specchi, rimbalzi di nodo in nodo fino al centro...