Il letto di villa Adela

 “ Qualche volta mi vien voglia di infilarmi sotto le coperte, fra loro due ( i genitori) come quando ero piccola.
Ma non si può più.”
da L'AMANTE di A.B Yehoshua

I momenti magici della nostra infanzia, indimenticabili, dopo una vita trascorsa! Era una festa, a Villa Adela, quando papà tornava da militare. Lassù, in quella villa di collina, che dava sullo Scrivia, la sua venuta era un avvenimento travolgente. Si iniziava con il cigolare del grande cancello, giù in fondo al viale. Nonna, dal primo piano, urlava:‐” Franca c'è Tullio!” Ed era un accorrere alla balaustra del giardino, per accertarsi.
‐” E' lui! Gli hanno dato il congedo! “ Gli si correva incontro, quasi a gara, a chi lo abbracciasse per primo. Un intreccio di suoni d'amore, di gioia. Un corale famigliare che si attardava a ripercorrere il viale, in salita, tra il ripetersi di abbracci e di baci. Io restavo in braccio a lui, in quel percorso. Ero a pochi centimetri dal suo volto, rasato di fresco, al profumo di Lavanda Col di Nava. La brillantina era un fantasioso luccicare dei suoi capelli. Ma ciò che mi colpiva del suo vestiario erano il cinturone con la pistola e gli stivali. Questi ultimi annunciavano, al momento di toglierli, un operazione del tutto complessa, ma esaltante. Veniva aperto un marchingegno di legno, “il tirastivali”, con cui papà si liberava, in un attimo, dalla stretta di quegli accessori di pelle nera.  Provavo sempre una certa delusione visiva, nel vederlo uscire dalla camera da letto, in vestiti borghesi.  Io lo seguivo col mio “moschetto del Duce”, un arma inseparabile, nella fantasia dei miei giochi. Ricordo che in Villa Adela, sopraggiungeva, dopo i primi momenti d'incontro, l'imbarazzo del nuovo venuto, come se la lontananza, reciproca, avesse cambiato le lancette delle intese interpersonali. Ma nonna Amina pensava lei, in cucina, a rifondere umori, preparando tagliatelle all'uovo, in pochi minuti, tra uno spolverio di farina. A sera, e qui mi ha condotto, in un richiamo pindarico, il passo di Yehoshua, si andava a letto, nel lettone grande, su al primo piano, tutti e tre, papà, mamma e me. Io chiedevo perentoriamente di stare in mezzo a loro. Mi sentivo protetto. Ricordo ancora quella sensazione, anche perché, più di una volta, dormendo all'esterno, ero caduto dal letto, che era in ferro battuto e di altezza considerevole. La stanza, fredda, freddissima, tanto che al mattino, al risveglio, andavo a staccare piccole stalattiti di ghiaccio, interne alle finestre e spezzavo la tenue lastra, in cui si era trasformata l'acqua del catino della toeletta. Il calore dei loro corpi, l'aiuto della bottiglia, riempita con cura da papà, con acqua calda e un ferro da calza, perché non si venasse, che ci si passava con i piedi, tra noi, dava il senso di una cuccia prenatale. Parlavano tra loro, lentamente, raccontandosi le loro vite diverse e lontane. Papà accendeva una sigaretta  e ne intravvedevo la brace che illuminava parte del suo volto.
‐” Dormi, ora, e zitto”‐ Era il comando iniziale. Io chiudevo gli occhi e cercavo il sonno , che non veniva. Ero convinto di saper recitare, per loro, la mimica del sonno.
“Dorme ?”‐ Chiedeva papà, con insistenza, più volte, a mamma.
“ No, sta con gli occhi chiusi e finge.”
Mi stupiva questa capacità di mamma di sapermi scoprire nel mio inganno, in piena oscurità, e un poco mi addolorava quell'accusa di finzione.
Alla mattina, svegliandomi al lato esterno di mamma e non più tra loro, provavo un senso profondo e inspiegabile di inganno, ricevuto durante il mio sonno, che mi aveva colto inavvertitamente. Un vero, inspiegabile, miserevole, inganno.

l.pr.