Il mio barile

Il caldo mi stava intorpidendo il cervello. Chiaro come il colore della panna fresca, dolce come il sapore del sesso, il sole mi osservava dall’alto della sua possanza.
Meschino si nascondeva dietro quei fasci lucenti che non mi davano modo di ricambiare i suoi sguardi. Mi opprimeva. Eppure avevo voglia di lui, delle sue carezze taglienti, desideravo che mi sfiorasse la pelle ustionandone ogni singolo centimetro. Sbuffai. L’ombra era a pochi passi da me, mi bastava muovere qualche passo per liberarmi della morsa cocente. Anche strisciando sui gomiti potevo raggiungere la pace. Un balzo e sarei stato salvo. Ma lui mi osservava. Ero l’unico folle che stava rifiutando la frescura per farmi punzecchiare dalla divinità di quella palla.
Ero un protagonista. Il suo protagonista. Amaro, dolciastro gusto di essere importante. Non volevo più scappare. Troppe volte nella mia esistenza ero fuggito via. Basta. Avevo deciso di essere uomo, fiero combattente, soldato, schiavo di me stesso, libero di lottare per i miei sogni.
Non mi spaventava. Soffrivo bruciato dalle responsabilità della mia scelta, ma il cuore non era soggiogato dalla paura.
Sotto il benevolo influsso di una tettoia vi erano tutti. I miei parenti, i miei amici ed i miei animali. Anche loro osservavano cioè che stavo facendo. La mia pazzia, il grado di demenza che mi spingeva a rimanere sotto quella doccia di fuoco. Mi giudicavano forse, ma senza chiedere spiegazioni dei miei gesti. Qualcuno sorrideva in modo irriverente. Loro riuscivo a guardarli. Non emanavano luce, ma buio. Erano all’ombra delle loro potenzialità. Trascinati per i capelli sotto quella tettoia dalla loro paura. Anche io una volta ero lì. Raggomitolato in una coperta di superficialità e banalità. Ma ora ero libero.
Potevo errare in qualsiasi istante, posizionare in maniera sciocca un passo e piombare in un baratro di sbagli incatenati. Mia madre non poteva più giungere in mio soccorso. Era stanca. Troppo stanca per chiederle ancora l’ennesimo salvagente. Stavolta avevo deciso di vivere la mia vita da solo. Io ed il mio ego.
Mia madre. Delicata donna rude. Macigno robusto della mia infanzia. Dedicai a lei l’ultima occhiata. Sorrideva. Sorrideva per me e non di me. Forse conosceva quello che stavo per fare, quello che avevo deciso con tanta fatica. Lei poteva tastare con mano il limaccioso liquido dei sacrifici che giaceva in un barile accanto ai miei piedi. Erano tutti lì. Pochi forse, ma per me tanti. Ne possedeva uno uguale. Compagna di mille disavventure. Mai le avevo regalato una soddisfazione, solo problemi infiocchettati e consegnati in abbondanza. Il suo sostegno però non si era mai liquefatto.
Mi applaudiva senza battere le mani e nei suoi occhi potevo leggere la fierezza che risiedeva nel vedermi uomo.
La salutai con un movimento del capo. Lei non ricambiò. Pianse.
Le spalle mi aiutarono a non dimostrare debolezza, mascherando il viso triste. Il mio viaggio era cominciato. Io ed il mio barile iniziammo a camminare verso il nostro destino sotto un sole che aveva deciso di accompagnarci.