Il partigiano dell'ultima ora

“Libero” era la persona più onesta e idealista che ho conosciuto. Ne ho incontrati pochi come lui: il mio amico “Aquila”, “Nicola” il professore e pochi altri. “Libero” non pensava al dopo, ai programmi, ai posti da arraffare. Lui diceva che la guerra era finita e avevamo vinto. Poteva bastare.
Perché è interessato tanto a lui? Per un libro che deve scrivere sulla sua vita? Ah, ecco.
Io in montagna coi partigiani non ci volevo andare. Non ero d’accordo. Stavo con quelli della “Repubblica”. Sulla Linea Gotica, ero servente in una batteria di obici della Wehrmacht.
Quando abbiamo visto arrivare i tanks che facevano tremare le case, si è capito subito che c’era poco da fare. C’erano quelli che strisciavano di lato ai carri armati e, al momento giusto, saltavano sulla corazza e buttavano una bomba, attraverso il portello, nell’abitacolo. Io no, non mi ci provavo: se quello sbandava finivo schiacciato sotto i cingoli.
Mi hanno dato 5000 lire, un moschetto e 30 colpi per fare il cecchino in una Firenze ormai caduta in mano agli inglesi. Ma io non l’ho fatto perché mi sembrava assurdo. Però le 5000 lire me le sono tenute. Appena gli altoparlanti gracchianti sull’automobile del CLN invitarono alla resa e alla consegna delle armi mi sono presentato e in cambio di pallottole e fucile ho ricevuto altri soldi.
Avevo un amico tra i partigiani, un amico fraterno. Lo è stato tutta la vita, dalla scuola elementare fino a cinque anni fa.
Deve sapere che, in un periodo in cui non c’era quasi più niente che andasse bene, funzionavano invece le linee telefoniche. Io e lui, il suo nome da partigiano era “Aquila”, ci telefonavamo spesso. Le rarissime volte che venivo in licenza ci incontravamo in una sorta di terra di nessuno. Lui nei suoi stracci partigiani, io in camicia nera.
C’era un patto non detto fra noi, l’uno sarebbe intervenuto, in caso di bisogno, in aiuto dell’altro.
Più passava il tempo e più il mio amico mi stringeva dappresso: <<Ma che fai ancora lì? Vieni su con me, non ci tieni alla pelle? Guarda che se ti prendono, ti fucilano e io sarò il primo a spararti …>>.
Non intendevo ragioni ma all’arrivo degli americani, a seguito dello sfondamento delle linee difensive adriatiche, nel tardo autunno del 1944, mi decisi a salvare la ghirba. Mi sono ritirato con i tedeschi fino a Bologna. Da lì, in treno, sono arrivato a Milano.
Giunto a casa, sono salito in montagna anch’io. Come vede, sono un partigiano dell’ultima ora. Per quei tre mesi ho maturato il diritto al Premio di smobilitazione, una bella cifra ai tempi, in cambio delle armi che avevamo in dotazione. Non solo, quando si è trattato di accertare la durata del mio partigianato, per la mano che mi sono ferita in un’azione militare, mi hanno raddoppiato d’ufficio il periodo di riconoscimento. Sarebbe valso ai fini pensionistici.
Un maresciallo del Distretto che mi conosceva bene però si mette a sbraitare che a me il premio dovevano darlo doppio, visto che avevo combattuto anche con la “Repubblica”. Bastardo, non erano tempi tranquilli e serviva poco perché saltasse la mosca al naso a qualcuno.
Pensi che quando ero partigiano un proiettile vagante mi ha colpito qui, poco sopra la caviglia. Chi è stato? Chi può dirlo. Magari uno a cui non andava giù il mio trascorso repubblichino e, in un modo o nell’altro, me la voleva far pagare.
Quale “azione militare” mi chiede? Fra un attimo gliela racconto, è davvero curiosa, vedrà.
Prima ero tra gli alpini, in Francia. Avevo 19 anni, sono del ’24, sa? Di stanza a Besançon. Venivamo in Italia per i rifornimenti. Ero insieme a un sergente maggiore. C’eravamo approvvigionati di un sacco di prelibatezze. Nel viaggio di ritorno, ci vediamo venire incontro una caterva di militari italiani sbandati. Gli chiediamo dove stessero andando e loro: “Come? Non sapete che la guerra è finita e il governo italiano ha firmato l’armistizio?>>. Era l’8 settembre.
Ci hanno portato via ogni cosa. Tornati in caserma, la troviamo vuota e svaligiata di tutto punto. Non sappiamo cosa fare e, in quel mentre, sopraggiungono i tedeschi.
Il sergente maggiore quando li vede entrare si mette sugli attenti, io lo imito seduta stante, e grida alzando il braccio destro nel tipico saluto: <<Heil Hitler>>. Il suo gesto ci ha salvato dalla deportazione, insieme alla giustificazione che ‐ in disaccordo con le decisioni del governo italiano ‐ eravamo rimasti lì in attesa dei nostri camerati tedeschi. L’impressione fu cospicua e gli ufficiali ci strinsero perfino la mano. Rientrammo perciò in Italia su un comodo treno, aggregato alla truppa alemanna, affinchè potessimo ‐ giunti a destinazione ‐ porci al servizio del ricostituendo esercito della Repubblica di Salò.
Era giunta notizia che lungo il lago grande si stesse muovendo, in ritirata strategica, una colonna motorizzata di tedeschi e fascisti al comando del Colonnello Sturm, un boia dicevano. Bisognava rendersi conto di quanti erano e come fossero armati, se si voleva organizzare un attacco adeguato. L’unico modo era andare a vedere di persona. Nessuno sa decidersi. Sa cosa viene in mente a “Libero”? Mi chiama e mi fa: “Tu sai guidare la moto, no?”. Assento e lui “ma la sai guidare bene?” e io di rimando: “Certo, ho anche partecipato a delle gare”. Detto fatto, si parte. Io guido, lui di dietro. A rotta di collo scendiamo in città, non c’è in giro un cane di nessuno. Scorgiamo i fascisti presso l’imbarcadero mentre stavano prendendo il battello per raggiungere l’altra sponda. Rapidi invertiamo il senso di marcia, con il cuore in gola. Non sono pochi e qualche fucilata ce la possono tirare da lontano. Imbocco la strada che porta al municipio ma nell’ultima curva, per la troppa emozione, sbando e andiamo a cozzare contro il muro.
“Libero” si rompe la gamba e bestemmia come un turco “porco di qui porco di là”, io mi ammacco una mano. Un ragazzo si presta lesto a nascondere la moto nel cortile del comune e mi aiuta a sorreggere “Libero” fino all’ospedale che, fortuna vuole, è solo a cinquanta metri di distanza. Era il 25 aprile.
Dalle finestre del nosocomio vedremo, più tardi, transitare la Colonna Sturm. Armata fino ai denti, non finiva mai. Nonostante ciò, alla fine, sarà costretta alla resa.
La moto era mia, una Guzzi 500. Apparteneva in origine a mio nonno. Non l’ho ritrovata più.
Qualche giorno dopo l’incidente, mano ammaccata o no, accompagno “Libero” dall’ospedale cittadino alla Ca’ del Picàsc in collina. Con il cappello da alpino senza piuma, avvolto in una coperta militare, dentro al sidecar che guidavo ‐ nonostante tutto ‐ ancora io. Il suo volto, sofferenze a parte, non era dei più festosi. Dopo l’incidente però devo dire che non l’ho sentito recriminare più.
Si può dire che sono diventato famoso alle spalle di “Libero”. Come l’unico che era riuscito, senza l’intenzione, a rompergli una gamba.
Ci sono stati dei partigiani di una brigata concorrente che mi hanno detto, fra il serio e il faceto: “Gli hai rotto una gamba? Bene, ma se lo accoppavi era meglio”.
Capito l’antifona? Perché “Libero” era una persona onesta, retta, che pensava con la sua testa e le persone così procurano grattacapi e mal de cô a molti.
Anche con la gamba ingessata, ha voluto esserci alla sfilata milanese di fine aprile. Ci siamo andati su un’auto che guidavo sempre io, una Fiat 1550 ‐ quella col muso lungo ‐ sopra la quale, insieme a “Libero”, hanno preso posto il comandante militare e il commissario di brigata.
Lui il suo libro lo stava scrivendo, negli anni del dopoguerra.
Prendeva appunti. Ne ho letto una parte, quella dell’incidente di moto,
già battuto a macchina. Sarà stato il 1950.
Il titolo avrebbe dovuto essere: “Il partigiano”. Gli avevo detto di aggiungere la parola “fallito”.
Non è poi uscito il suo libro? No? Non lo sapevo. Se non glielo hanno stampato, vuol dire che dentro c’erano scritte cose che davano fastidio a più d’uno.
Il mio nome da partigiano? Cicci. È poco reboante, vero? Era il modo con cui tutti mi chiamavano dapprima. Sarebbe stato meglio soprannominarmi “Anguilla” come dice il mio genero, visto il modo con cui ho schivato i guai.
Quando ero nelle Brigate Nere ho preso parte ad alcuni rastrellamenti: alcuni cruenti, altri no. Ho sparato, certo. Se ho colpito qualcosa o qualcuno non glielo saprei dire.
No, tra i partigiani non ho partecipato a nessun combattimento. Lì funzionava che il capo sceglieva lui i più esperti e audaci e quelli, in quanto tali, non si tiravano mai indietro. Oppure si faceva, per alzata di mano, su base volontaria. Chi si offriva era lui ad andare in missione. Finchè ce n’erano a offrirsi come primi per farsi avanti c’era sempre la prossima occasione, non le pare?
Comunque, Anguilla o meno, almeno uno l’ho tolto di mano alle grinfie della morte, quando già aveva le spalle al muro.
Far cambiare idea ad “Arf”, un partigiano di quelli cattivissimi, era impensabile. Tanto più quando si metteva in testa di regolare per le spicce i conti con qualcuno. In questo caso, era un giovane maestro elementare, nipote dell’arciprete, adattatosi a conservare il posto durante gli anni della “Repubblica”.
Fra l’altro, sapevo che si era prestato più di una volta a passare utili informazioni ai partigiani. Mettersi di mezzo però era impossibile, “Arf” non ci metteva né uno né due a sbattere anche te davanti al plotone d’esecuzione. Allora, sa che faccio? Corro in canonica ad avvertire il parroco che se non si sbriga può anche mettersi a piangere il nipote. E lui, in tutta fretta, accorre. In un modo o nell’altro riesce a portarselo via sano e salvo, lasciando “Arf” a bocca asciutta.
“Arf”, un bel nome, nevvero? Cosa le fa venire in mente?
Me la sono vista brutta tante volte ma sono ancora qui. La vita è una sola: si deve tenerla da conto. A un capitano della Milizia che ci incitava alla battaglia ho replicato: “Vada lei avanti per primo a farsi ammazzare da quei carri armati …e quello, agitando la rivoltella, con la bava alla bocca mi grida “sei un vigliacco … io ti faccio fucilare …”. Però, avanti, non c’è andato manco lui.
Con la moglie si può discutere, litigarci, ma quando si sta insieme per cinquant’anni … lei capisce.
Lei diceva che mi ero comportato da vigliacco. “Sì ‐ le rispondevo ‐ ma sono ancora vivo. Se fossi morto non sarei qui con te”.
Io sono un ateo ma l’anno scorso ‐ quando ho avuto una crisi renale da cui sembrava non sarei riuscito a svangarla ‐ sa cosa ho fatto? ho pregato, pregato Dio perché non mi facesse morire.
La vita è un bene che molti non sanno nemmeno che cosa sia. Quelli che ne sono consapevoli, di fronte alla morte, sono i più sereni, i più in pace. Ci vuole coraggio a vivere, ce ne vuole uguale a morire.
Ho assistito a una sola fucilazione: non erano partigiani ma due sbandati. Di fronte al plotone d’esecuzione, uno piangeva, si lamentava, implorava tremando tutto. L’altro, nemmeno una piega: una mano in saccoccia e la sigaretta in bocca, solo un po’ aggrottato. Come se la fucilazione imminente non lo riguardasse, non fosse stata predisposta per lui.
Mi chiede se duole? No, è una vena doppia. La tocco per sentire la scossa, tocchi, tocchi anche lei, è come un fremito elettrico. Se non lo sentissi, il medico mi ha detto che non sarei qui.
Lei mi chiede se “Libero” avesse altri amici e io le rispondo che no, non ne aveva. “Libero” era famoso, conosciuto, il partigiano più conosciuto della zona e sa il perché? Perché era coraggiosissimo.
Un giorno sa cosa combina? Vede arrivare un tedesco in bicicletta, gli intima l’alt con lo sten e lo trascina in un boschetto per farlo prigioniero: merce ambita per gli scambi con altri partigiani imprigionati. Subito dopo però vede arrivare una nutrita pattuglia di tedeschi. Se gli spara, è finito. Se quello grida, è finito lo stesso. Allora, sa cosa fa? Lo strozza, sì, lo strozza con le sue mani. Cos’altro avrebbe dovuto fare? Ma, lei, ci sarebbe riuscito?
Era coraggiosissimo e molto conosciuto ma amici no che non ne aveva. Per il motivo che le ho detto prima.
Se si è onesti non si guarda in faccia a nessuno e i primi da cui si pretende di più sono proprio gli amici. Senza trarci profitto. Ai più chi glielo faceva fare?
L’amicizia è tutto. Sono andato perfino a prenderne uno di amico che era stato infognato nel campo di Coltano, presso Pisa. Uno dei tanti fascisti finiti lì dentro in attesa di destino. Di un destino che ne sapesse ricostruire le gesta: per scarcerarli o per punirli. Campa cavallo che l’erba cresce.
Ai Soldiers americani di guardia non gliene importava nulla. Di fronte alla richiesta nominativa e ai motivi che mi inducevano ad essere lì per riportarmelo at home, rispondevano monotoni: “Ten dollars”.
Il prezzo per la libertà era stracciato per certuni e inaccessibile per altri.
Finita la guerra, c’era chi parlava di cambiamenti, si agitava e pensava alla rivoluzione, tutte cose che non facevano per me. Io no, io e il mio amico “Aquila” ‐ a fine maggio ‐ ce ne siamo andati in macchina verso Rimini a divertirci. È bella la vita, sa?