Il primo giorno di supplenza non si scorda mai!

“Pronto? L’insegnante Fortunata?”
“Sì, sono io… ” ‐ dico tutta assonnata, erano solo le sette e trenta del mattino ed io mi trovavo ancora tra le braccia di Morfeo.
“Qui è l’Istituto comprensivo “Padre Pino Puglisi”, è libera o impegnata?”.
‘Beh… in verità sono single da un pezzo, ma che vuole questa!’ ‐ pensavo tra me e me. “Scusi, mi chiama per cosa?” chiedo gentilmente.
“C’è una supplenza su posto comune, è libera o impegnata!” questa volta il tono era più duro, forse aveva fretta ed io le stavo facendo perdere del tempo prezioso.
‘LIBERA…LIBERISSIMA SONO!!!’ avrei voluto urlarle, ma cerco di ricompormi e chiedo: “ma quanti giorni è?” Anche se in verità poco mi importava, avrei accettato anche per mezza giornata e pagata al 50%, speravo solo di cominciare a lavorare quanto prima, ma tutte le mie colleghe veterane del settore mi dicevano sempre che era una domanda che andava fatta, e allora eccomi là a farla, giusto per il piacere di seguire la “procedura” in ogni sua parte, con precisione.
“E’ un’interdizione, accetta?”
“Cosa? Interdizione?”.
“Sì, l’insegnante che dovrebbe sostituire è in interdizione, ha preso un mese”.
“Oddio, mi dispiace, ma è così grave?”
“Per mettersi in interdizione… ma lei è libera o impegnata, non ho mica tutta la giornata io!”.
“No, scusi, e che c’è la solidarietà tra colleghe, mi spiace davvero, chissà in che classe ha lavorato per arrivare all’interdizione!”.
“Ha voglia di scherzare, senta, io non ho tempo da perdere!”.
‘Scherzare io, su queste cose serie, non mi permetterei mai, ma per chi mi ha preso la signora, e meno male che l’istituto è comprensivo!’ Ma per evitare problemi, rispondo solamente: “Mi scusi, sono libera, accetto, accetto, dove devo andare?”.
“Bene, la scuola primaria è nel plesso distaccato di Croce verde, si rechi direttamente lì e poi passi dalla segreteria, nella sede centrale, per firmare il contratto”.
“A che ora devo essere a scuola?”.
“Tra… venti minuti, i bambini entrano alle otto”.
‘Cosa? Sì, certo, mi dia solo il tempo di vestirmi e mi teletrasporto!’ Il mio senso dell’umorismo era sempre in agguato, ma non era il caso farlo uscire fuori, visto che già la signora se l’era già presa tanto per la questione dell’interdizione ed io non volevo di certo rischiare di perdere il mio primo incarico. Allora mi ricompongo e con voce pacata le dico: “mi dia giusto il tempo di fare strada, purtroppo non abito in quella zona, mi occorrerà una mezz’oretta per arrivare, ma che dico, anche meno, anzi, mi metto subito in macchina”.
“Bene, avverto la responsabile del plesso che sta per arrivare, faccia quanto prima, la classe è scoperta”.
“Faccio subito, stia tranquilla, mi consideri già lì”.

Inizia così la mia carriera, così com’era cominciata quella di tantissime altre insegnanti: con una telefonata. Io ero stata particolarmente fortunata (sarà merito del nome?!).
Ricordo ancora che alla festa di laurea, in maniera davvero amichevole e incoraggiante, tutti quanti mi avevano fatto gli auguroni dicendomi: “Benvenuta anche tu nel club dei… DISOCCUPATI!”. Che teneri!!! Neanche il tempo di goderti la gioia per un piccolo grande traguardo, che già ti mettono in guardia per quello che ti attende. Questi sì che sono “veri” amici! E comunque, per via di queste “rassicurazioni”, avevo cominciato a mettermi il cuore in pace e a credere che, pur di acquisire la tanto declamata indipendenza economica, ben presto mi sarei messa a cercare un lavoro qualunque, anche sotto‐pagato, e che nulla avrebbe avuto a che fare con il percorso di studi intrapreso. Invece no. Inaspettatamente la telefonata era arrivata prima di quanto credessi. A luglio la laurea, a ottobre la prima supplenza. Chi l’avrebbe mai detto!
Mi preparo di fretta e mi catapulto in macchina, non sta bene arrivare in ritardo proprio il primo giorno di lavoro, non voglio dare un’idea sbagliata di me, di una che fa con comodo e che non prende sul serio i propri impegni e poi (non so quanto ci sia di vero), in base ad alcuni studi fatti da non so chi e non saprei dire bene nemmeno dove, per cancellare una prima impressione negativa sarebbero necessarie ben dieci successive impressioni positive. V’immaginate?
Così faccio più veloce che posso e arrivo a scuola… in ritardo! Faccio un lungo sospiro e mi dico: ‘ok, puoi farcela, è ora di entrare.’
Senza rendermene conto vado dentro incrociando le dita. Sono nervosissima, felice, impaurita, confusa, incredula. Insomma, sono letteralmente travolta dalle emozioni più disparate. Ad “accogliermi” (si fa per dire) è una signora corpulenta con una scopa in mano che in tono molto confidenziale mi dice: “hei ragazzina, dove credi di andare?” Mi sembra di tornare piccola, sono pronta a farfugliare qualcosa nel tentativo di difendermi, ma poi ricordo che non sono più un’alunna, lì vado in veste d’insegnante, devo dare l’idea di essere una sicura di sè, così riprendo il controllo di me stessa, alzo le spalle, rivolgo lo sguardo verso la signora e con voce pacata e sicura le rispondo: “buongiorno, potrebbe gentilmente indicarmi la classe della Favata, sono l’insegnante che la sostituirà.”
“Lei una maestra è!” Mi guarda con occhi increduli e mi squadra dalla testa ai piedi. Poi fa una smorfia tipo a dire… “non c’è più mondo!” e mi fa un gesto con la mano per seguirla.
Certo me l’ero andata a cercare, tra il mio aspetto da eterna bambina, con occhioni grandi e impauriti, e il mio modo di vestire, avrò dato l’impressione sbagliata. Con quei jeans scoloriti e la maglietta di Hello Kitty, lo zainetto e la mollettina tra i capelli a forma di farfalla, potevo essere facilmente scambiata per una ragazzina delle medie, magari di una di quelle dell’ultimo anno e con diversi anni di bocciatura alle spalle. Ma era così che immaginavo di presentarmi ai bambini il primo giorno di lavoro, esattamente com’ero, acqua e sapone e con un sorriso largo sulla faccia.
Mi guardo intorno, il corridoio sembra interminabile, ma adesso comincio a rilassarmi. Sento l’inconfondibile odore di scuola, quello che sentivo anche da bambina. Guardo i cartelloni colorati nelle pareti, quelli fatti per dare il benvenuto agli alunni dopo la lunga pausa estiva e mi accorgo con piacere, guardando dalla finestra, che fuori c’è un meraviglioso giardino con un praticello ben curato ricco di piantine e fiori. C’è anche lo scivolo e l’altalena (io adoro l’altalena!). ‘ci porterò i bambini per fare merenda’ mi dico. Sono già che immagino la scena tutti fuori a scherzare e a ridere insieme, con il sole che illumina la giornata e tante farfalline colorate che svolazzano da un fiore all’altro, quando ritorno di scatto alla realtà non appena giungo davanti alla porta della mia classe.
“Qua dentro deve entrare, c’è la sua collega ad aspettarla” mi fissa di nuovo, di nuovo la smorfia, questa volta accompagnata da un leggero scuotimento della testa in segno di disappunto, e va via, lasciandomi sola, davanti alla porta che mi condurrà nel mio futuro…
‘Ok entro’ ‐mi dico. Sto quasi per bussare, ma mi fermo poco prima che il mio pugno faccia rumore a contatto con il legno. Indietreggio, mi assale la paura: ‘e adesso che faccio? Cosa dico? Come mi presento?’ Riprendo il controllo, mi dico che le cose verrano da sé, vado di nuovo decisa, pronta per bussare, ma mi fermo di nuovo. Ho lo stomaco in subbuglio, mi sento come se dovessi fare un esame, ma è anche peggio, almeno lì ho idea delle domande che i professori mi potrebbero fare, c’è un programma ben preciso, ma con i bambini no, è sempre tutto imprevedibile, e poi loro hanno un fiuto eccezionale, sì, me n’era accorta durante le ore del tirocinio, fiutano la paura dell’insegnante e se questo accade… sei rovinato! Riprendo il controllo di me, che sarà mai, sono bambini ed io adoro i bambini, fiuteranno anche questo e le cose andranno bene. Inspiro profondamente, butto l’aria con la bocca e mi dirigo decisa verso la porta.
Busso, entro e... (to be continued)