Il secondo figlio

Con una valigia,
un sacchetto di mele,
un biglietto di solo ritorno...

Sul ripiano bagagli del treno: una valigia di cuoio, un pacco contenente alcuni scampoli di ricami Sangallo, un sacchetto di mele.
Nella tasca della giacca: il passaporto, il portafoglio con un biglietto di solo ritorno e alcune banconote della Confederazione.
Alle spalle sei mesi di lavoro nella Svizzera tedesca; davanti a sé la strada ferrata verso casa.
Ancora poche ore ed avrebbe ritrovato i genitori e, forse, la fidanzata.
Lui, a differenza di tanti altri, non era partito per fame e nemmeno per soldi, anche se a dirla tutta gli avevano assicurato che lì, nel paese di Guglielmo Tell (quello che aveva fatto passare al figlio Gualtierino la voglia di mangiare le mele) un operaio metalmeccanico specializzato come lui avrebbe senz’altro guadagnato bene, certamente più che in Italia.
Né per fame, né per soldi: decise di partire perché lo avevano già fatto alcuni suoi amici e anche per il desiderio di una nuova esperienza.
Si licenziò dall’officina aeronautica dove lavorava e via.
Partì, ma non fu così semplice.
Suo padre si mise di traverso;  della Svizzera, per di più tedesca, non voleva proprio sentirne parlare.
No, proprio non capiva quella decisione affrettata, il lasciare un posto di lavoro sicuro, una vita tutto sommato comoda, per andare in mezzo ai crucchi; e pensare che il figlio qualche anno prima, durante la resistenza, aveva rischiato la vita per cercare di rimandarli a casa loro, i crucchi.
Anche la sua ragazza lo minacciò:
‐ Se parti, io ti lascio!
Il giorno che a piedi andò alla stazione, non c’era nessuno ad accompagnarlo; il padre sino all’ultimo tentò di fermarlo strappandogli la valigia, ma poi, di fronte alla cocciutaggine del figlio, si arrese e lo lasciò al suo destino, salutandolo con affetto, e rabbia nello stesso tempo.
Arrivato a destinazione, alcune persone lo accompagnarono nel villaggio dove vivevano gli immigrati italiani.
Il caposquadra che lo prese in consegna parlò chiaro e disse che le nuove baracche non erano ancora pronte, quindi nel frattempo doveva dormire su, nel solaio; gli consigliò di usare la valigia come cuscino e non  per stare più comodo, come aveva pensato lui in un primo momento,  ma per evitare che nella notte sparisse.
Alla fine, non contento, usò pure una scarica di parole ironiche per esprimere il suo punto di vista sulla decisione del ragazzo di venire a lavorare in Svizzera.
Cominciamo bene, cominciamo proprio bene, pensò prima di addormentarsi.
Restò solo alcune notti in quel dormitorio umido e maleodorante.
Nei giorni successivi prese a girare il paese alla ricerca di una camera in affitto; per capire e farsi intendere da quelle persone, che parlavano una lingua di cui lui non intuiva nemmeno i punti e le virgole, si fece accompagnare da un amico che, avendo trascorso un lungo periodo di “villeggiatura“ nei campi d’internamento nazisti, parlava discretamente il tedesco.
Niente da fare: appena capivano che era  italiano, riceveva  subito un secco rifiuto, spesso contornato da frasi per lui incomprensibili e che il suo amico rifiutava di tradurre, ma che, dal tono, si capiva bene non essere  di benvenuto.
Strideva quell’atteggiamento con il famoso motto svizzero: “Uno per tutti, tutti per uno”.
Era quasi  intenzionato a rinunciare, ma decise di  fare ancora un tentativo.
Dalla strada vide un uomo indaffarato a pulire il giardino di casa e si avvicinò; mascherò la stanchezza e lo scoramento con un timido sorriso e poi, educatamente, domandò a quel signore se aveva una camera da affittare.
L’uomo, con atteggiamento distaccato, gli chiese il passaporto; quando vide che non era del sud, e ci tenne a precisarlo, disse di sì.
La ragione di quel sì però era un’altra, e l’avrebbe capita nelle settimane successive.
La casa era strana: per quanto perfettamente in ordine e piena di mobili, pareva mancare di quella  sensazione di focolare, di vita a cui lui era abituato.
Anche nella camera che il proprietario gli assegnò, percepì quella sensazione, e in ogni caso quella non era una stanza  per migranti.
Non capiva, ma presto avrebbe compreso.
L’uomo, impiegato della stessa fabbrica dov’era stato assunto lui, era una persona gentile, più nei gesti che nelle parole, perché parlava poco. Nel tempo però riuscirono, se non proprio ad entrare in confidenza, perlomeno a spezzare certi prolungati e imbarazzanti silenzi.
Un giorno, tornando insieme dal lavoro, si fermarono in un bar e fu lì che l’uomo trovò il coraggio di raccontare quello che non avrebbe voluto dire, e lui ascoltò quello che non avrebbe voluto sentire.
Poche parole, tirate fuori a fatica con una voce impastata dall’emozione; parlò di un figlio, l’unico figlio, perso alcuni anni prima, poi guardandolo in faccia aggiunse:
‐ Si chiamava come te.
Capì!
Di colpo capì  perché l’aveva accolto in casa, l’atteggiamento paterno che aveva nei suoi confronti, quel piattino con una mela che tutte le sere trovava sul comodino della sua stanza, quel bussare delicato alla porta per dirgli che era ora di alzarsi e di andare in fabbrica.
Di colpo capì, ma avrebbe preferito ignorare.
Restò ancora alcuni mesi: il tempo di rendersi conto che quel lavoro non stava aggiungendo valore  alla sua vita,  che a parte l’amicizia con la persona che l’ospitava,  niente lo legava a quella terra.
Il giorno che ripartì, l’uomo lo accompagnò alla stazione.
Non gli chiese più di restare, come aveva fatto nelle ultime settimane, lo abbracciò e poi gli consegnò un sacchetto di mele.
Non gli strappò la valigia di mano, come  fece suo padre alcuni mesi prima, ma in quell’istante, in quel preciso istante, ritrovò la stessa amara sensazione.
Cercò d’immaginare lo stato d’animo, d’interpretare il groviglio di emozioni dell’uomo che aveva di fronte e vide un treno partire e, dal finestrino di una vettura, due ragazzi salutare; e sulla banchina una persona correre, in un vano tentativo di salire sul treno ormai in movimento.
Cercò d’immaginare e provò dolore, e rabbia per un destino che stava togliendo a quel padre l’illusione di un secondo figlio.
Provò dolore.
E rabbia.

Con una valigia,
un sacchetto di mele,
un biglietto di solo ritorno.
Verso casa.