Impercettibilità

 Stefano aveva avuto diversi presagi, piccoli indizi, accadimenti minimi e, per così dire, emblematici, che qualcosa di tremendo gli stesse accadendo. Qualcosa d’imprecisabile, che non riusciva ancora a mettere perfettamente a fuoco, eppure qualcosa di terribile.
Non era facile precisare quando avesse avuto il primo sospetto, quale fosse stato il momento preciso in cui aveva avvertito, per la prima volta, quella sensazione, quella consapevolezza o timore.
Si trattava di questo: Stefano stava divenendo impercettibile.

Benché non potesse dire con certezza quando fosse cominciata la cosa, né con quali episodi, sapeva dire ed elencare esattamente i fatti che dimostravano l’ipotesi, o perlomeno la rendevano fortemente probante. Questa era, infatti, talmente enorme che egli stesso faticava a prenderla in considerazione. Eppure, a ben vedere, i fatti erano là, le circostanze, o coincidenze, erano troppe, per essere semplicemente tali.
Riflettendoci, prima di divenire impercettibile, aveva notato che gli altri, tutti gli altri, s’allontanavano progressivamente da lui. Aveva osservato con precisione, e ripetuto più volte l'osservazione, che gli altri, colleghi d’ufficio, estranei, ma anche parenti od amici, avevano cominciato a parlargli da una distanza che era mediamente superiore a quella tenuta quando si parlavano fra loro. Non solo, ma in quest’ultimo caso si sorridevano, mentre, quando per qualche motivo erano costretti a rivolgersi a lui, divenivano terribilmente seri.
Come si diceva, questa osservazione fu fatta più volte, e più volte verificata, finché un giorno Stefano si preoccupò: doveva pur esserci un qualche motivo per cui gli altri gli si mantenevano mediamente a distanza. Finalmente, dopo diverse notti insonni, fu certo d’aver capito: doveva essere l'alito, doveva avere un alito indicibilmente pesante.
Non aveva modo di controllare direttamente l'ipotesi, ma, dovendosi escludere che fossero altre parti del corpo a male‐odorare, dato che faceva risciacqui continui, dedusse che era l’alito.
Fece di tutto: si recò dal dentista e si fece estrarre qualche dente, divenne vegetariano e si purgò di frequente. Finalmente, s’accorse che gli altri non gli stavano più mediamente a distanza, e, inoltre, gli sorridevano. Ma non era lo stesso sorriso che si scambiavano fra loro ‐ sorriso benevolo che è segno d’intesa, comunicazione o tolleranza ‐ no, era un sorriso perfido, non sai se di pena, derisione o scherno.
Tutt’al più compassione.
Eppure Stefano era un uomo rispettabile: bibliotecario, critico letterario, serio. Sempre impeccabilmente vestito. Almeno così credeva.
Poi gli venne il dubbio. In effetti, da quando la moglie l’aveva lasciato, nessuno controllava il suo modo di vestire. Può darsi che avesse qualcosa fuori posto: la cravatta, i calzini, o, forse, un buco nei pantaloni. Un giorno tornando a casa scoprì il bavero della giacca alzato. Un altro giorno perfino ‐ Dio mio ‐ la cerniera aperta.
Da quel giorno tenne, con studiata noncuranza, una mano sulla cerniera.
Ma i sorrisi non cessarono; e quando non lo deridevano davanti, era quasi certo che lo deridessero alle spalle.
Pensò potessero essere queste ad avere qualche inghippo: con due specchi contrapposti imparò a controllarle. Sembrava tutto a posto: non vi erano gobbe o deformità. I capelli dietro la nuca avevano lo stesso colore – giallo carota spento, un po’ marcio ‐ che avevano sul davanti, dato che utilizzava una pessima tintura.
Aveva preso l'abitudine d’analizzarsi ogni volta che andava in bagno a lavarsi le mani.
Si analizzava con attenzione, per controllare che ogni cosa fosse al suo posto, ed uguale al giorno prima. L’analisi seguiva un preciso protocollo pazientemente messo a punto, in seguito a numerose prove ed errori.
Per ultimo controllava l’alito, appannando lo specchio.
Quasi sempre era tutto a posto.

Finché un giorno udì chiaramente: "Ug luk tan plunk?"
Era il suo collega Fantoni che si rivolgeva alla Morelli, ma in che razza di lingua parlava? Non ebbe il coraggio di domandare a Fantoni cosa avesse chiesto alla collega, perché, in fondo, non erano affari suoi; tuttavia la cosa lo impensierì parecchio.
Nei giorni che seguirono non fece che rimeditare la frase: per quanto cercasse di girarla e rigirarla, non riusciva ad associarvi alcun senso. Non era possibile che fosse in lingua straniera, poiché Fantoni non conosceva le lingue. E, a ben pensarci, neanche la Morelli. Poi, perché parlarsi in lingua?
Era necessario indagare.
Da quel giorno prese l’abitudine d’ascoltare con attenzione ogni frase che la gente si scambiava nelle occasioni più varie: il cliente con la commessa, il bigliettaio col passeggero, i passeggeri fra loro.
Non gli accadde più di risentire un’intera frase in quell'oscuro linguaggio, però non poteva escluderlo, soprattutto singole parole. Ogni tanto riusciva ad afferrare suoni strani, gutturali o, viceversa, striduli. Lo strano era che quelle parole venivano quasi sempre associate a sorrisi d’intesa fra coloro che se le scambiavano.
Ormai aveva allenato l'occhio e la mente a notare ogni particolare, ogni mossa o gesto sospetto, e niente poteva sfuggirgli. In autobus ‐ ad esempio, ma anche in treno ‐ aveva notato che il posto che gli stava a fianco rimaneva quasi sempre vuoto, anche quando vi fossero passeggeri in piedi. E se, talora, qualcuno si decideva a sedergli accanto, lo faceva con circospezione, quasi dovesse vincere un senso di ribrezzo clandestino.
Tutto ciò non significava ancora impercettibilità.

Nei mesi che seguirono la vita di Stefano fu un alternarsi periodico e prevedibile d’esaltanti vittorie e obbrobriose sconfitte, di pindarici voli nell’Olimpo dello Spirito, e poco onorevoli cadute nelle tentazioni della carne e del peccato.
Finché un giorno accadde uno di quei piccoli episodi, quei fatti inesplicabili e, forse per questo, irrimediabilmente fatali: Stefano osservò con attenzione la propria carta d'identità, ch’era saltata fuori dal fondo della tasca d’una giacca dismessa, e che non osservava da tempo. S’accorse allora d'un fatto gravissimo, inconcepibile: il nome ed il cognome che vi si leggevano erano suoi, e perfino l’indirizzo e la data di nascita.
Diverso era il discorso della foto. Senza dubbio il viso ritratto doveva essere il suo. Tuttavia... il volto che l’osservava dalla foto aveva qualcosa d'imprecisato ‐ forse una luce sinistra negli occhi, forse il rilievo degli zigomi o la curva del mento ‐ che non gli apparteneva. Non poteva giurarlo, ma più l’osservava e più si convinceva che quel volto non per il suo. Non c'era niente chiaramente fuori posto, niente che fornisse una prova ineccepibile, sicura. La differenza stava in qualcosa di più profondo delle apparenze, delle ingannevoli rigidità della forma e delle linee.
La differenza era l'animo, il carattere: l’uomo della foto era duro, volitivo. Guardando quelle nere pupille, quello sguardo dritto e sicuro, si sarebbe detto perfino senza scrupoli od emozioni. Lui, viceversa, era sempre stato un uomo profondamente buono, onesto, addirittura esemplare, incapace di nutrire il benché minimo odio o rancore per chicchessia.
Il problema era dunque la foto. Era pur vero che il carattere dell'uomo che vi era ritratto era inconciliabile col suo, ma poteva darsi che la foto ritraesse il lato oscuro di sé, che la macchina fotografica, oggetto meccanico e perciò privo di gusti o inclinazioni, avesse fissato proprio uno di quei rari momenti in cui s'esprimeva la faccia nascosta dell’essere. Quella parte di se stesso che si cerca di seppellire nelle catacombe, ma che a volte riemerge con forza.  Tuttavia, dovevano pur esistere dei criteri obiettivi per stabilire se l'essere che la foto ritraeva era lui medesimo ‐ seppure trasformato da un metamorfosi interiore in atto ‐ oppure un uomo a lui completamente alieno, con una propria storia ed un universo personale.
Si mise a riflettere con intensità sul problema dell'obiettività del giudizio.

Dopo elaborate riflessioni, si portò allo specchio con l'intento di misurare i rapporti esistenti tra le varie parti del suo viso e confrontarli con quelli che, in corrispondenza, appartenevano al volto ritratto dalla foto.
Se non che, guardandosi allo specchio, si avvide che la propria immagine, dapprima sicuramente presente e riproducente, in modo più o meno esatto, i movimenti e le posture dei vari tratti del suo viso, improvvisamente  era sparita.
Stefano rimase fortemente impressionato della cosa. Chiuse gli occhi, se li stropicciò, tornò a guardare: niente. Prese una pillola bianca, una gialla e una blu e riguardò. Questa volta gli sembrò che nello specchio qualcosa si muovesse: un'ombra, quasi un velo o una tenda, sospinta da una lieve brezza, ma non poteva giurarci, e, in ogni caso, non gli somigliava. Maledizione. Non è che Stefano non ci vedesse, anzi. Ricontrollò: aveva gli occhiali sul naso, e, del resto, i bordi in legno dello specchio erano ben visibili, e in esso era riflesso, giustamente, tutto il bagno. La vasca, il cesso, il bidè, lo stenditoio. C'era tutto. Maledizione.
Non stiamo a riportare i tentativi – del resto vani ‐ che Stefano fece per ritrovare la propria immagine. La situazione era imbarazzante.
Ad un certo punto trovò un parziale alleggerimento alle proprie ambasce pensando che il problema poteva avere una soluzione molto più semplice di quanto non sembrasse a prima vista, ciò che accade quasi sempre per i problemi più complessi. Poteva darsi, semplicemente, che lo specchio non funzionasse, che fosse, per così dire, esaurito.
In fondo lui non s'intendeva di specchi.
Quella notte fu completamente e volutamente insonne: doveva riflettere.  Perché, se è vero che la spiegazione più probabile all'episodio era quella del semplice guasto meccanico, vi era un’altra spiegazione che egli rifiutava disperatamente di prendere in considerazione, ma che riemergeva con forza, in particolare verso le ore del mattino, allorquando, il volto poggiato fra le mani, le braccia poggiate sul davanzale, si avvide che i tepori della prima luce s’elevavano da dietro i monti e tra poco sarebbe stata l’alba.
La spiegazione poteva essere, semplicemente: Stefano – lui medesimo ‐ stava divenendo impercettibile.

La mattina dopo decise che si sarebbe lasciato crescere la barba. In fondo, l'unico momento in cui quell'oggetto gli era indispensabile era al mattino, quando si radeva. Il resto del tempo poteva ignorarlo.
E così fece: l’avvolse accuratamente in carta da pacchi e lo portò in cantina. Adesso quell'oggetto era divenuto completamente inutile, anzi pericoloso.
Il fatto di non essere ossessionato ogni mattina da quel volto pieno di rughe, pustole e nei, che gli faceva le boccacce cacciando fuori una lingua nauseante fra file di denti sporchi, aveva, del tutto imprevedibilmente, i suoi pregi. Se ne avvide nei giorni che seguirono: il suo umore migliorò notevolmente; pensò perfino di tornare al lavoro.
Il problema era solo che ogni tanto dimenticava il suo volto: palparlo con le dita, scorrere la linea incurvata del naso, le sfere degli occhi o i bitorzoli sulla fronte, non aiutava più di tanto.
Traeva allora di tasca quella foto e l'osservava a lungo: quegli occhi bellissimi, profondi, l'ammaliavano. Quelle sopracciglia folte e scure ‐ unite al centro ‐ denotavano un carattere deciso, una forza ed un’intelligenza superiore. Quel volto scavato, quegli zigomi alti, quello sguardo volitivo ed imperioso, gli comunicavano energia.
E ci voleva molta energia, e coraggio, per fare quello che aveva deciso di fare.

Folate di vento s'incuneavano nel bavero del suo cappotto, fredde e pungenti come lama di coltello. La cappa del cielo era totalmente ed irrealmente oscura, come non fossero mai esistite stelle a rischiararla.
All'orizzonte una macchia rossastra dai contorni netti, circolari, sembrava dimenticata ed inutile, non riuscendo ad illuminare alcunché che la circondasse. Il freddo gelido aveva, infatti, spazzato completamente le nuvole, ed il cielo era assolutamente nero.
Vagava così da ore per la periferia cittadina, intabarrato in un pesante cappotto. Il fiume scorreva lento oltre il muretto che limitava il marciapiede. Fermando i propri passi e i propri pensieri poteva udire il flottare e gorgogliare cupo dell'acqua contro l'ammasso di rocce che ne arginavano il corso. 
Scaglie di luce guizzavano e sparivano sulla superficie increspata del fiume come branco di anguille; il freddo era così intenso che un cerchio feroce gli comprimeva la nuca fino quasi a schiacciarla.
Forse era l'incapacità d'accettare l'idea che la mente avesse concepito un piano così mostruoso.
Dilatò le narici e cercò d’inspirare quanta più aria potesse.
Anche se era sempre stato un pusillanime e non aveva, in passato, neanche osato concepire idee simili, in fondo il gesto che stava per compiere era fra i più antichi, com’era ampiamente descritto dalla Bibbia; si trattava soltanto d’uccidere, come s'era sempre fatto per i motivi più vari: Dio, la nazione, il denaro, l'onore...
Lui forse l’avrebbe fatto per un motivo meno nobile, ma non era il caso di sottilizzare.
Avrebbe ucciso per affermare la sua esistenza: solo se si esiste si è in grado di negare l'esistenza altrui.
Senza contare che in quel modo la sua esistenza sarebbe apparsa reale non solo ai suoi occhi, ma l'intera società avrebbe dovuto proclamarla ed ufficializzarla; un processo pubblico non avrebbe potuto essere evitato. Così il suo nome e la sua storia sarebbero stati impressi nei libri della Legge, sepolti negli annali delle cancellerie. In qualche modo affidato alla storia.
Gonfiò il petto e sentì entrargli dentro un sottile sentimento d’esultanza. Pensò che, come sempre, le idee geniali sono le più semplici.

Palpò il cappotto per accertarsi della presenza dell'arma: era lì, fredda, immensa, e terribilmente vicina. Un brivido gli fu provocato dalla pressione della lama sul petto: ne accarezzò mentalmente i bordi affilati, ne immaginò la forza, la durezza, l'immenso ed affascinante potere.
Lentamente un’oscura ed inspiegabile eccitazione cominciò ad attraversare il suo corpo, a partire dal basso. Gli si drizzarono, come percossi da un brivido, i peli delle gambe, poi quelli delle cosce; infine l'eccitazione salì verso l'alto come una calda e inarrestabile onda.
Man mano che saliva, percepiva il suo corpo in una luce nuova, lo sentiva teso e scattante in ogni nerbo, in ogni più intima fibra.
Quando l'onda raggiunse il cervello si sentì finalmente sicuro, forte e felice come non lo era mai stato: se avesse voluto, avrebbe superato d'un balzo il letto del fiume, tanto forti ed elastici erano i muscoli delle gambe. Avrebbe volato, perfino, sopra la città, spiccato un volo nell'oscurità della notte. Niente poteva fermarlo. La sua voce era divenuta così possente che poteva squassare il buio, rompere gli abissi di silenzio che incatenavano l'universo.
Si sentì stretto nei suoi pesanti vestiti. I suoi passi erano adesso così agili e felpati che sembrava non più camminare, ma scivolare silenzioso sulle cose, sui marciapiedi, sull'asfalto bagnato. Il suo moto era talmente privo di sforzo che sembrava non essere lui a muoversi, ma il mondo circostante.
I lampioni, in ferro battuto ‐ le braccia lugubri – dopo avere gettato malamente sull'asfalto una luce fioca e giallognola, fuggivano via come fila d’impiccati. Palazzoni antichi, erosi da muffe, si specchiavano anch'essi sull'asfalto, lugubremente capovolti e deformi.
Era entrato in una dimensione ignota; sapeva vedere non con gli occhi, ma direttamente con la mente. La sua vista poteva, infatti, traversare i muri dei palazzi e penetrare nelle tenebre degli scantinati, vedere gli occhi, minuscoli e luminosi come spilli, di topi e scorpioni in agguato. Poteva elidere ogni barriera di tempo, di spazio e di senso.
Il silenzio era assoluto, angosciante; qualche macchina, sfrecciante veloce sull'asfalto, sembrava scivolare senza emettere suoni.
D'improvviso la via che percorreva prese ad animarsi. Si avvide dapprima d'una coppia di giovani che si stringevano, si sorridevano e si scambiavano baci, vestiti d'abiti leggeri, quasi incuranti di vento e freddo. Vide poi un signore anziano che teneva per mano un bambino; quest'ultimo camminava davanti, strattonando il vecchio dalla manica. Man mano che si avvicinava al fondo della via, la folla cresceva come fiume in piena. Dalla luminosità diffusa che si spandeva nel cielo capì la ragione di tanto affollamento. Ne ebbe conferma quando vide i bracci meccanici d’una ruota enorme girare, trasportando nel cielo un gran numero di persone, in gran parte ragazzi. Dapprima lentamente, poi, a velocità sempre più vorticosa da sembrare folle.
Infinite luci multicolori ruotavano e sfrecciavano nel cielo, imprimendovi scie colorate che s’intrecciavano in fantasmagorici caroselli. Erano le luci ‐ gialle e rosse ‐ della ruota gigante, o quelle verdi dei carri che scivolavano a velocità vertiginosa sulle montagne russe, o le luci bianche, accecanti, della casa degli specchi.
In contrasto con le strade deserte percorse finora era presente adesso un gran folla. Volti di giovani e vecchi, di uomini, donne e bambini. E tutti erano animati da radioso fervore, e tutti sorridevano e gridavano, e i loro passi s'intersecavano e intrecciavano. Ciascuno andava infatti il direzioni diverse, casuali, come sempre avviene nelle folle in festa.
Non riusciva a capire il senso, l'affannarsi di quei visi e la felicità che vi era impressa: sentì il cuore torcersi in una stretta. S'accorse d’odiare la folla; non questo o quello il particolare, ma la folla.
Osservò un nugolo di giovanissimi scivolare dentro contorti scivoli metallici e ridere fragorosamente, mentre il vento s'insinuava sotto le vesti delle ragazze, scoprendone  candide e sensualissime gambe.
Osservò ragazzi ‐ ma anche adulti ‐ a bordo di automobili armate di mitra, sollevarsi in cielo e rincorrersi su orbite circolari, che s’affannavano a spararsi addosso fasci di luce. Erano così presi dal gioco, così intenti a colpirsi ed evitare d'essere colpiti, che, se il braccio che li sorreggeva si fosse spezzato, avrebbero continuato a farlo anche durante la caduta.
Odiava la folla, tutti coloro che riuscivano anche per poche ore a dare un senso collettivo alla loro esistenza; a dimenticare la loro individualità e a muoversi, gestire e pensare come gli altri. Nella folla il sentimento d’impercettibilità, la sensazione di vacuità, di leggerezza della propria esistenza che da tempo lo tormentata, diveniva, se possibile, ancora più acuta.
Fu rafforzato nella propria decisione: avrebbe agito assolutamente a caso, avrebbe lasciato che la roulette della vita ruotasse a suo piacimento, e che fosse la fine della sua corsa a decidere della vita d'un uomo.
Il cavallino nero della giostra, fermandosi, avrebbe indicato il predestinato. S'arrestò in corrispondenza d’un piccolo uomo, forse un nano, avvolto in un pesante pastrano, con un grande cappello in testa.
Camminava ondeggiando, con un’andatura strana, molto goffa.
Lo seguì per un pezzo, tenendosi sempre alle sue spalle, ed evitando così di guardarlo in viso. Quando la goffa figura s'allontanò a sufficienza e si portò per strade deserte, incuneandosi nei vicoli bui della città, preparò l'agguato: precedette il nano e ne attese il passaggio restando fermo sul marciapiede, e nascondendo la faccia col bavero del cappotto. Appena questi gli passò accanto, lo pugnalò alla schiena, gli lasciò il coltello conficcato nel corpo e fuggì.

Chissà perché, immaginò una folla enorme a inseguirlo. Quando, invece, dopo una lunga corsa attraverso vicoli bui e viali bagnati, si fermò, s'accorse d'essere solo.
Pensò che era stato troppo facile, quasi deludente: non avere visto il volto della vittima lo aveva privato d'ogni emozione, aveva tolto alla sua azione ogni caratteristica di trasgressione, d’immoralità. E adesso non provava alcun rimorso.
Se non vi era rimorso, non poteva esserci colpa.
Tornò indietro per ritrovare la vittima ed avere perlomeno la certezza d'essere colpevole, ma, dopo avere errato fino all'alba per vicoli oscuri e vie sconosciute, si rese conto d'essersi smarrito.

Si trovava all’estrema periferia della città. Sullo sfondo palazzoni grigi, enormi. Davanti a lui la campagna, desolata e spoglia; lontano, la barriera dei monti. Accanto a sé si levava una gran croce in legno ed un Cristo in lamiera: s’inginocchiò e lo pregò di svegliarsi.
Naturalmente non si svegliò, la sua preghiera restò inaudita e si ritrovò ai piedi di quel Cristo di latta, accovacciato, infreddolito e triste.
E dolorante di dubbi.

Il primo dubbio, e forse il più semplice, era relativo all'Organo preposto all'acquisizione della confessione. Decise per una qualsiasi sede di polizia e si recò al commissariato.
Un agente era seduto ad un lato dell'ingresso, dietro uno vetro:
«Desidera?»
«Confessare un delitto» rispose con una voce cavernosa, che non sapeva d'avere.
«Stanza numero quindici. Si sieda ed attenda» fece l'usciere, senza alcuna inflessione o tonalità particolare. Anzi, con tono naturale, come fosse già avvertito della sua venuta. Osservandolo con la coda dell'occhio s'accorse che rideva.
Salì due rampe di scale. Percorse un interminabile corridoio sul quale s'affacciavano stanze vuote e, infine, vide la stanza. Vi entrò e si sedette su una poltroncina girevole, attendendo.

Dopo un'ora cominciò a stancarsi. Si girò e rigirò sulla sedia concentrandosi sul cigolio che questa faceva ruotando sul perno centrale. Da qualsiasi parte girasse gli occhi era sempre la medesima desolazione: scartoffie, scaffali, scartoffie, pile di fogli, scaffali, scartoffie. Alle pareti stampe.
Provò a spostare lateralmente la testa, prima a destra, poi a sinistra. Stava sulle spine. Avanti ed indietro. Idem. Non vedeva l'ora di dire: "Signor commissario, confesso". Di gettarsi ai suoi piedi, se era necessario, di baciargli le mani: "Signor commissario, sono stato io. Ho ucciso un uomo innocente. Mi arresti, mi impicchi, faccia quello che deve fare..."
«Chi è lei?» fece una voce alla sua schiena. Sobbalzò.
«Petrella Stefano» rispose, scendendo dalla sedia e scattando in piedi.
«S’accomodi, prego, cosa desidera?»
«Signor commissario, sono qui per confessare...»
«Con calma, parli con calma, giovanotto» fece il commissario, «e compili questo foglio». Porse a Stefano un foglio e si allontanò.
Stefano girò e rigirò il foglio fra le mani senza riuscire a capire bene quale fosse il dritto e quale il rovescio.
Allorché riuscì a leggerlo gli risultò incomprensibile, quasi fosse scritto in quel misteriosissimo linguaggio che l'aveva ossessionato tempo prima. Voleva alzarsi dalla sedia per chiedere aiuto al commissario, ma questi era ormai lontano, e Stefano si sentì perduto.
Aveva voglia d'alzarsi e scappare, voglia d’uscire da quell'incubo infernale. Ma le gambe erano così pesanti da paralizzarlo sulla sedia. S'accasciò sul tavolino, scoppiando in irrefrenabili singulti.
«Su, su, coraggio! Si faccia animo!» fece paterno il commissario, che nel frattempo era tornato e s'era portato alle sue spalle, « Mi dica.»
E Stefano disse tutto: parlò ore e ore e raccontò tutto nei particolari. Di come avesse scelto la sua vittima, di come l'avesse seguita e spietatamente accoltellata.
Adesso piangeva apertamente e fragorosamente, tanto che il commissario gli carezzava dolcemente la nuca per rincuorarlo.
Mai Stefano avrebbe vissuto un'esperienza così coinvolgente ed intensa quanto tale confessione. Sentiva le lacrime salirgli agli occhi dal profondo dell'intimo e riversarsi all'esterno senza freni, copiose, luccicanti e salvifiche. E non si vergognò di quelle lacrime, anzi, ne andò fiero, essendo esse il segno tangibile del pentimento e della colpa.
Quando finalmente ebbe finito si girò. S'accorse così che il commissario non c'era. Si guardò a destra, a sinistra, attese, ma non giunse nessuno. S’alzò dalla sedia e si mise a girare nella stanza con nell'animo un'ombra di sottile tristezza.
Dopo un tempo che gli sembrò interminabile, il funzionario ritornò. Stefano ebbe l'impressione che lo sguardo del commissario lo attraversasse senza tuttavia scorgerlo, come potrebbe attraversare una silhouette d’alluminio o, tutt'al più, una nuvola di fumo.
«Commissario…» fece Stefano ansioso.
« Sì? »
« Signor commissario...» ripeté Stefano, non sapendo bene cosa dire.
Quasi gli venne di continuare: «Mi aiuti!», ma si rese conto che la frase suonava idiota. Tuttavia, ogni continuazione gli sembrava idiota, e se ne stette, perciò, silenzioso e triste.
«Egregio signore,» fece il commissario, sedendosi al suo posto e rivolgendogli un sorriso aperto, ma non eccessivo, cortese, ma non confidenziale, «egregio signore, se posso permettermi, le darei un consiglio: si riposi. Lei è senz'altro molto affaticato e stanco. Si prenda delle vacanze, vada in montagna, si diverta. »
Disse quest'ultima frase con un tono che non ammetteva repliche. Gli porse, quindi, la mano con un sorriso più largo. Stefano capì che era un chiaro invito a sollevare i ponti, ad alzare i tacchi, ad andarsene, insomma.
Non ci stava: era incredibile, assurdo, allucinante.
«Ma, Signor commissario, io ho ucciso un uomo! » fece Stefano, e questa volta avrebbe quasi gridato, tanta era la rabbia che sentiva salirgli in seno.
«Lei non ha ucciso nessuno, si tranquillizzi.» sorrise sicuro il commissario. «Lei ha solo creduto d’uccidere. Ha solo sognato, immaginato d’uccidere. Vede, Signor Petrella, per tutti noi la vita reale, quella di tutti i giorni, è dura, tetra. Talora insopportabilmente noiosa. Ecco perché esistono i sogni. Nei sogni sparisce la noia, la consuetudine, la polvere del quotidiano, e la mente s’immerge in un mondo fantastico in cui tutto è possibile. In cui non esistono più confini fra il lecito e l'illecito, fra il possibile e l'impossibile. Ecco perché i più profondi ed inconfessabili desideri nel sogno diventano realtà. Ecco perché lei ha immaginato d’uccidere il nano che si porta dentro.»
Maledetto d'un commissario, bestia d'un commissario. Piccolo, insignificante, idiota d'un commissario che si permetteva di fargli la predica. Gli avrebbe spaccato il muso. Lui AVEVA ucciso, ne era certo. Anzitutto, ne era capace, poi, anche ammesso che non avesse ucciso, uno che lo desideri a tal punto da progettarlo in ogni particolare, come aveva fatto lui, era già un killer, un feroce assassino, un mostro. Perché non ammetterlo? Certo non si sarebbe arreso così presto, aveva le palle e l’avrebbe dimostrato.
«Signor commissario,» riprese, nascondendo in una piega delle labbra un impercettibile ed incontrollato movimento muscolare, « lei sa benissimo che quanto ha appena detto è assolutamente senza prove. Io non devo certamente insegnarle il mestiere, ma lei non può non sapere che quanto ha detto sono solo congetture, ipotesi, illazioni. Il fatto è uno solo,» fece una pausa che gli sembrò perfetta per spezzare il discorso e dare enfasi a quanto seguiva, «ed è questo: un cittadino, un onesto cittadino, si presenta a confessare un delitto, a costituirsi liberamente e spontaneamente in ossequio alle leggi. E lei cosa fa? Gli dice che non è vero niente, che s’è sognato tutto, che deve tornarsene a casa... Lei, commissario, non solo è imputabile d'omissione di atti d'ufficio, ma anche d’oltraggio, perché, non so se se ne renda conto, mi sta dando del visionario, dell'idiota, del piccolo millantatore...».
Calcò la voce sugli ultimi termini affinché fosse assolutamente chiaro che era offeso, infuriato, giustamente indignato dal comportamento del commissario. Alzò quindi la faccia per guardarlo dritto negli occhi: rideva. Non c'era alcun dubbio: rideva, fra le mille sfumature del sorriso, aveva impresso sulle labbra il più subdolo e velenoso: il compatimento.
«Egregio signore» finalmente si degnò di parlare il commissario, «forse lei ha ragione, ed io le debbo delle spiegazioni. Lei avrà senz'altro notato che durante la sua permanenza in quest'ufficio mi sono spesso assentato, e ne sarà rimasto, suppongo, anche un po' sconcertato. Ebbene, lei non deve pensare che la Polizia sia così insensibile e proterva d’abbandonare un cittadino nei propri uffici. Io, signor Petrella, durante quei lunghi intervalli, ho lavorato per lei. Ho controllato, verificato il suo racconto nei minimi particolari e, se sono giunto alle conclusioni che conosce, è perché ne ho seri e fondati motivi, mi creda. Vede, anzitutto, non c'è un cadavere. Non c'è nessun cadavere. Non è giunta ai nostri uffici alcuna segnalazione di cadaveri, feriti od altro. Già questo basterebbe, non crede? »
Questa volta fu il commissario a fare una lunga pausa, come ad aspettare una risposta, benché fosse chiaro che la domanda non ne attendeva alcuna.
Il cervello di Stefano lavorava ad una velocità vertiginosa. Ne avvertiva il frenetico ed intenso lavorio nel pulsare delle vene ai lati delle tempie: era come se uno sforzo immane si riversasse su un obiettivo inafferrabile, perché i suoi pensieri, benché numerosi, benché amari ed intensi, non riuscivano ad incanalarsi verso un preciso indirizzo, ma turbinavano, violentemente ed incoerente‐mente, sicché il pulsare delle vene divenne improvvisamente il percuotere del maglio su un’incudine.
Stefano sbiancò in viso e si sentì leggermente mancare.
Il commissario continuò implacabile: «...e poi, come se non bastasse, il suo racconto è incoerente, o meglio irrealistico. Da mille particolari una persona attenta può comprendere che in esso lei ha riversato le sue pulsioni più profonde, i suoi desideri più forti ed inconfessabili. Mi segue? » 
Stefano non lo seguiva più da un pezzo.
«Tutti i particolari» continuò il commissario, «s'inquadrano, chiaramente, in un contesto onirico. Dall'assoluta assenza di rumori, a quel suo modo di scivolare sull'asfalto, quasi fosse una creatura incorporea, un essere puramente mentale».
Il commissario esultò, quasi fosse riuscito a dimostrare un teorema di algebra superiore.
«Capisce bene perché dico che lei ha bisogno di riposo. Ma forse mi sbagliò, forse lei ha bisogno di ben altro.»
Stefano afferrò l'allusione, e l’intese, correttamente, come una oscura minaccia, come un avvertimento su quanto gli sarebbe accaduto se si fosse assurdamente intestardito in quella storia, in quel volere, assurdamente, attribuirsi delle colpe che non gli spettavano.
Chiese sommessamente scusa ed uscì a testa bassa, come un cane bastonato.

Uscì a testa bassa, stringendosi il cappello in mano ed attraversando la porta, dopo essersi dimenticato d’aprirla.