In un solo attimo

Londra 2002. Sempre e ovunque italiani. In ogni angolo, ad ogni uscita della Tube. Forse hanno dimenticato il loro paese, le loro radici. Quasi dimentico di essere un po' italiano anch'io. Già, perché mia madre lo era. 25 o 26 anni fa ‐ credo ‐ quella ragazza decise di cambiar vita, di cambiar posto, come se scappasse da qualcosa (e chissà, forse voleva veramente scappare). Mi raccontava spesso della sua partenza, della sua voglia di conquistare una città come questa (anche se poi è stata Londra a conquistare lei), di dimostrare qualcosa a qualcuno, chissà cosa. I parenti, gli amici si erano schierati. Lei non me l'ha mai detto, ma da qualche telefonata, da qualche lettera riuscivo a intuire che, tra chi ancora la ricordava in Italia, c'erano amici che la consideravano semplicemente un' avventuriera e, forse, la ammiravano anche; "amici" invece che la consideravano ancor più semplicemente una bitch destinata a fallire. Ah già, perché c'è un detto inglese che dice: "Le brave ragazze vanno in Paradiso, le cattive ragazze a Londra". Chissà per quale dannato motivo in Italia questo detto lo sapevano tutti. Se mi chiedeste: "E tu, da che parte stavi?", vi risponderei che non me ne frega niente; mia madre era libera di fare ciò che voleva. Ma non è stato così. Era venuta per sfondare e, invece, il massimo che ha conquistato sono stati un posto come cassiera da Boots e quel fallito di mio padre. La nonna mi diceva: "E pensare che era bella come il sole, laureata e tanto buona" e io le rispondevo che forse doveva andare così. Ma mia madre no, questi problemi non la sfioravano. Tutto sommato era felice del suo mondo. Beata lei! Io no! Non avevo un'idea fissa, uno scopo da raggiungere nella vita. Mi ero prefissato un solo obiettivo: non fare la fine della mamma, tanto meno di Rob (mio padre, un coglione che da 20 anni vive con il sussidio). In più odiavo gli italiani, forse perché pensavo che, se mamma era fuggita dall' Italia, la colpa era la loro. Questi erano i miei pensieri, mentre andavo a lavoro. Avevo molto tempo per pensare (purtroppo). Lavoravo all'inizio di Cannon street. Per quanto fossi un fallito anch'io, ho finito gli studi e dopo tanta gavetta e incoraggiamenti di mamma, Anthony (che sarei io) si è sistemato: lavoravo alla sede centrale della Barclays nel cuore della City. Un lavoro di merda, ma che mi permetteva di ubriacarmi tutte le sere. Avrei dovuto sentirmi realizzato: la mia posizione era quella a cui aspira l'inglese medio. Con tutto ciò, mi mancava qualcosa. 21 fermate di metro fatte apposta per pensare, ma per quanto pensassi non riuscivo a capire cosa mi mancasse. Boh! Era agosto. Come ogni mattina andavo a lavoro. Scesi le scale ad East Ham e subito ero in metro. Ero incazzato nero, anche perché tra qualche ora avrei conosciuto il mio nuovo capo. Sapevo solo che era una donna, e pure italiana. Quasi avrei voluto scendere. È stato a Mile End che la mia vita è cambiata. Erano le 9,47, il vagone era pieno di turisti e impiegati. Si era liberato un posto, proprio di fronte. Non dimenticherò mai quell'attimo. Ero convinto che mi fosse apparso un angelo, che fossi morto ed ero in Paradiso. Ma non era possibile. Io in Paradiso? Era la più bella lei che avessi mai visto. Ma di più. Ancor oggi non riesco a trovare le parole per descriverla. Avrei voluto rivolgerle la parola, ma improvvisamente non riuscivo più a pensare. Che assurdità! Proprio in metro per anni la mia mente aveva viaggiato più veloce del treno. Ad un certo punto lei alzò gli occhi e mi guardò. Rimasi di pietra. Con una delicatezza immensa accennò ad un sorriso e chiese l'ora. Balbettando le dissi l'orario e di nuovo il silenzio. Arrivò la fermata di Monument e lei scattò in piedi e scese. D'un tratto tornai lucido e più incazzato di prima: l'avevo persa. Scesi a Cannon e in 10 minuti ero in banca. C'era fermento; erano tutti con la cravatta nuova e pronti a leccare il culo al nuovo capo. Ma il capo non veniva. Cominciai con il mio lavoro. Fatto il saldo ad una vecchietta, con la testa ancora bassa dissi: "Next one" e per la seconda volta in un giorno smisi di pensare. Era lei, il mio angelo che chiedeva del vicedirettore. Tutti avevano capito che lei era il boss, tranne io. Balbettando le dissi che il vice lo aveva davanti. Mi chiese, con un indimenticabile sorriso, se potevo seguirla nel suo ufficio. Mi tenne con lei tutta la giornata e, tra un dato tecnico e una consulenza, mi disse che era di Roma, io le raccontai di mia madre e per poco non scoprivamo di essere parenti. Qualunque cosa dicesse mi sembrava una cosa intelligente. Caterina ‐ questo era il suo nome ‐ volle subito che le dessi del tu e mi pregò di perdonarla per il suo inglese.   Ero pazzo di lei. Non era altissima, aveva un corpicino esile ma perfetto in ogni sua curva. Il colore dei suoi occhi variava al variare della luce: a volte grigi, a volte azzurri. Il suo sguardo mi entrava dentro e davanti a lei era come se mi sentissi nudo.   Erano le 17. Dovevo andare via. Prendemmo la metro insieme e fu qui che mi sembrò di sognare. Disse che era appena arrivata in città, non aveva visto nulla e quella sera avrebbe voluto uscire (e io pensavo: con chi???) e schiettamente mi chiese: "Perché non usciamo insieme?". Come un deficiente le risposi: "Come scusa?" e allora lei si scusò per essere stata invadente e arrossì. Avrei voluto impiccarmi. Fortunatamente mantenni la calma e le dissi che per me andava bene, le proposi un orario e lei accettò, un attimo prima di scendere a Mile End. La sera ci incontrammo a Covent Garden. Fu una passeggiata stupenda. Verso le 2am eravamo ancora fuori un Caffè nero, senza smettere per un solo istante di parlare. Era incredibile! Quella piccola romana mi aveva trasformato. Ora amavo la vita, amavo il cameriere che ci stava cacciando, amavo lei. Lei alloggiava al Plaza a spese della banca. Stavamo per lasciarci quando lei con voce strozzata disse: "Mi sono innamorata" e io, sempre il solito coglione, le chiesi: "Di chi?". Caterina sorrise, si avvicinò lentamente e mi baciò.   Ora mi sentivo un angelo anch'io. Salii da lei e stemmo abbracciati tutta la notte; non ci fu sesso, non ne avevamo bisogno. L'indomani i nostri colleghi rimasero stupiti quando seppero che io e il capo avevamo preso una settimana di ferie. Giravamo per la città, facevamo progetti: ora il mondo era a colori. Dopo una settimana ci avevano dati per dispersi; solo mamma sapeva dov'ero, l'unica a cui sarebbe interessato. Mamma era felice per me. Aveva lavorato una vita intera per farmi studiare e nonostante vedesse tutti quei sacrifici buttati al vento non era in collera. Aveva visto suo figlio rinascere. Io e Caterina avevamo trovato la felicità. Sparimmo e con il primo volo lasciammo Londra. Avevamo capito che la nostra felicità era tutta nel nostro amore e in null'altro. Ci trasferimmo in Canada, a 150km da Montreal. E tuttora ci troviamo qui. Io sono maestro elementare e nei week‐end spacco legna nei boschi intorno al nostro paesino per arrotondare. Caterina è diventata assistente sociale (il suo target, fin da piccola). Guadagniamo poco, quel che basta, ma va bene così. Ah, quasi dimenticavo: abbiamo una bambina. Ieri ha compiuto tre anni e più cresce più somiglia a Caterina; si chiama Gloria, come mamma.