Jonis

Si era svegliato con un’insolita sensazione. Le cose intorno avevano una luce intensa e il silenzio era interrotto da uno strano ronzio. Avvertì un senso di disagio, di inadeguatezza, soprattutto perché era in alto mare già da un giorno con il suo piccolo peschereccio. Per Jonis lo sciabordìo delle onde era un normale sottofondo alle attività svolte sulla barca, e poi, quella luce, che sentiva addirittura “dentro” di sé tanto da non riuscire nemmeno ad aprire gli occhi. Piano cominciò a prendere coscienza della situazione che gli sembrò, per  lui umile pescatore di una piccola isola greca, davvero soprannaturale.

Guardò bene quello che doveva essere il fondo della barca ma che adesso era, come dire, nebbioso, come quando la mattina usciva all’alba e l’orizzonte argenteo si confondeva con la riva, e tutto era pervaso da quella splendida luce che gli scaldava il petto e non gli faceva paura, azzardò un passo e incredibilmente, camminò, sicuro come sulla terra ferma.

Passo dopo passo si diresse verso quello che gli sembrò un giradischi, ma molto più grande, di quello che aveva visto alla festa del matrimonio della figlia del sindaco, quando mastro Zakarakis in persona aveva offerto a tutta la popolazione ouzo in quantità, in onore degli sposi; il ronzio proveniva proprio da lì, da quella scatola con il coperchio semiaperto.

Si avvicinò all’oggetto e vide, o meglio, fu visto, perché si ritrovò a guardare strabiliato suo padre e nonno Alecko che lo incitavano a gran voce ad unirsi a loro per consumare pane e formaggio sotto il pergolato frondoso e profumato di glicini della casa paterna, mentre sua madre in una grande ciotola sbucciava cetrioli fragranti e rossissimi pomodori, con il sorriso dolce di sempre, si asciugò le mani sul grembiule  e gli spinse la sedia, invitandolo ad accomodarsi; “ allora, figlio, cosa c’è che non va?” – esordì suo padre – “non ti si vede quasi mai, le partite a carte in due sono noiose, lo sai, e nonno Alecko poi non sa perdere!”

Suo nonno sorrise e gli offrì un bicchiere di vino, mentre mamma Athina tagliava larghe fette di pane bianco.

Jonis si sentiva bene, benissimo come oramai non gli succedeva più da tanto tempo, da quanto non avvertiva più quel meraviglioso benessere della semplicità, che era poi il suo tenore di vita, ma che ultimamente gli era sembrato inadatto e gli procurava una sofferenza acuta perché entrambi i suoi figli avevano intrapreso strade che lo rendevano orgoglioso dei sacrifici che aveva fatto per fargli studiare, ma cosciente dei calli sulle mani, del vago odore di pesce che emanava pur lavandosi bene col sapone bianco e l’acqua calda; del suo modesto vocabolario, e, con sua grande vergogna, a volte non li capiva proprio, specialmente quanto i due fratelli parlavano dei loro lavori, e le rispettive mogli sembravano uguali alle donne che vedeva sui giornali illustrati, quando strappava i fogli per incartare il pesce.

Ma adesso lì, in quel lento pomeriggio caldo dai colori morbidi e suadenti, si rilassò, addentando il pane fragrante di sua madre e rendendosi conto che quelle meravigliose persone erano giunte da un’altra dimensione per toccare le corde del suo cuore, ricordandogli che essere se stessi, per quanto modesti, è quello che veramente conta.