La bambina alla fontana

                                                                          ‐Adiosu ‐

E’ una bambina quella che osserva il filo trasparente morire dentro un lavandino di pietra scheggiato ai bordi ed eroso al centro, proprio dove il filo diventa goccia imbiancando di calcare i contorni dello scarico.
La madre le ha da poco tagliato i capelli: “ per essere ordinata”, le ha detto.
Spesso li cerca con dita avvilite, un gesto che faceva fino a due giorni prima. Addentrarsi tra ciocche, spostarle dietro la spalla, gingillarsi con i boccoli, trasportarli indietro per poi riportarli avanti.
Così come fanno le donne dai lunghi capelli.
La mano adesso torna indietro delusa e si ferma sul cuore che non vuole scoppiare.
Sono due occhi grandi, neri e tristi, quelli che guardano il dorso delle mani dal colorito bruno olivastro.
Così come sono le mani dei bambini dell’isola.
E’ un rubinetto moribondo nel suo ultimo sussurro di vita quello che ascolta.
Lo sguardo torna alla lacrima che scende dagli occhi di metallo.
Nulla.
Nessun rumore che scroscia, neppure il ticchettio della goccia.
L’asciutto risuona nell’aria pesante.
E' una pentola vuota quella che sua madre ha appoggiato sulla tavola. La pentola d’alluminio lucente che serve per cucinare la pasta.
La bambina si chiama Sara ha sette anni ed è troppo piccola perché le facciano lucidare le pentole, però è abbastanza grande per andare alla fontana a prendere l'acqua, metterla in due bidoncini da cinque litri che a mala pena riesce a portare.
Nel cortile il freddo di febbraio gela le rose e i petali resistono al peso del ghiaccio.
Sembrano fatti di cartapesta quei fiori spuntati per magia in un mese sbagliato.
La cosa non la riguarda poi molto. A lei interessa giocare, leggere, sognare e restare seduta a guardare la danza delle fiamme sul caminetto acceso. Forse avrebbe potuto immortalare una fiamma nella cartapesta. Una sola fiamma non poteva mostrare i movimenti del fuoco, doveva fare tante fiamme per rendere bene l'idea di quello che vedeva e lei non era abbastanza brava con la cartapesta. La maestra diceva che avrebbe imparato e sarebbe diventata brava e che poteva fare molte cose con la carta, dell'acqua e un baratolo di colla.
La maestra  portò a scuola la carta, perché il giornale "costa", e in paese non c'è gente ricca; anche Sara è povera e non può comprare i giornali. Poveri si, ma non ignoranti, diceva  sempre sua madre, che di domenica comprava sempre due quotidiani da leggere tutti i giorni. 
Poi, la donna li usava per incartare i carciofi e gli ortaggi che vendeva in casa; con i soldi delle verdure ci comprava la pasta, il parmigiano grattugiato fresco che comprava da zia Adelma e le sardine sotto sale che piacevano tanto al padre.  Alla famiglia di Sara non mancava nulla; in casa c'era l'olio, il vino e la farina per fare il pane. C'erano i fagioli e le patate, e d'inverno, a Natale, c'erano anche i meloni e le fragole. Mancava solamente l'acqua.
La fontana non è lontana dalla casa di Sara, però d’inverno l’acqua gela in lastre di ghiaccio scivolose, ed il buio arriva presto.
La cucina è una grande stanza quadrata e ha pochissimi mobili, solo un tavolo e quattro sedie al centro e sulle lunghe pareti, una dispensa di legno bianco, un lavandino di marmo posato su due muretti fatti col tufo, la macchina da cucire e il caminetto sempre acceso e una cucina a legna. La madre alza la voce  per farsi sentire, però Sara non ascolta, guarda un pochino imbambolata le due porte che danno sul cortile. Può vedere oltre il vetro le le due taniche di plastica, sa che ci sono e che dovrà andare.
I bidoncini di plastica, così li chiamano i paesani, sono proprio dietro alla porta‐finestra che a sua volta è nascosta da una lunga tenda che strascica sul pavimento a scacchiera dell’immensa cucina e che andrebbe accorciata come hanno accorciato i capelli di Sara che adesso non ci sono più; e sua madre non la pettina più, lei sbuccia patate da friggere seduta su una sedia di paglia, sfondata, che il padre non può riparare.
Alla madre non serve più alzare la voce. Chiama Sara e la guarda sgranando gli occhi a dismisura. Uno sguardo che a Sara mette paura, quando vede quegli occhi uscire dalle orbite e fissarla, non le servono a molto le parole. Lei capisce che deve andare, che non può più rimandare e deve sbrigarsi per non essere sgridata.
La bambina esce in cortile, ha la schiena incurvata e occhi bassi in segno di rispetto.
Non ammira le rose ghiacciate ritte sullo stelo nudo e non gioca con il gatto; prende le taniche di plastica bianca e torna in cucina.
I figli dei poveri guardano le madri sbucciare patate e cipolle, giocano coi pulcini gialli che pigolano al centro della cucina, vanno a prendere l’acqua alla fontana e hanno paura degli occhi sgranati che sputano le pupille. Quando la madre di Sara spalanca gli occhi e la fissa capisce che non può disubbidire. Lei è una bambina povera e come tutti i bambini poveri anche Sara va a prendere l’acqua alla fontana giù in piazza.
L’acqua non dovrebbe mai mancare e  invece in paese  manca ogni giorno.
A febbraio il carnevale porta il profumo delle frittelle, le risate delle maschere e il suono degli organetti. A febbraio l'acqua gela sulle strade e sui rubinetti ed entra dalle scarpe bucate che Sara non alza troppo da terra perché si vergogna di essere povera.
Dalla strada arriva l’urlo di un venditore ambulante.
“Fanè! Fainè! Calda che scotta, calda che brucia! Cinque lire di fainè!”
Lei, non ha cinque lire per comprare una fetta di fainè, e a Sara piace moltissimo quella focaccia sottile fatta di farina di ceci e di acqua. E di sale. E non vuole chiedere soldi a sua madre. Il venditore ambulante cammina veloce col suo carrettino fumante e si ferma soltanto quando tutti bambini corrono fuori di casa con cinque lire in mano.
Sara, nascosta in cantina lo immagina attraversare la via e sente l’odore dei ceci e dell’aria fredda del mese e dell'umido pieno che scende dagli occhi.
In paese, non hanno ancora messo i lampioni, dicono che “la provincia non ha soldi” e aggiungono che “la loro è una regione abbandonata”.
Il buio d’inverno arriva presto e i bambini quando non giocano in strada si annoiano in casa.
Le strade sono nere e anche con la luna alta nel cielo il silenzio è un fruscio misterioso da cui fuggire.
Qualche volta capita che a prendere l’acqua ci vada sua sorella però, da quando si vergogna dei suoi capelli corti a Sara sembra che alla fontana ci vada solo lei. La sorella ha i capelli lunghissimi e studia geografia su un grande libro. E’ un libro che guarda di nascosto quando tutti si attardano in chiacchiere intorno alla tavola ancora imbandita, quando nessuno controlla quello che fa.
A lei il buio fa paura e la notte d'inverno arriva sempre molto prima di cena.
Con le taniche in mano il suo sguardo speranzoso ritorna per un attimo alla fredda pietra dove l’acciaio agonizzante di un rubinetto non da cenno di voler resuscitare.
Un momento prima era in fin di vita, stava esalando le ultime stille bagnate e se ne andava a morire tutto solo e in silenzio.
La bambina s'inumidisce con la lingua le labbra secche ed abbassa lo sguardo sulla polvere delle scarpe che l’avrebbero portata alla fontana.
Come un’araba fenice il filo gorgogliante della sua speranza muore sempre in ore improprie per risuscitare a suo piacimento e improvvisamente.
Non succede mai che muoia quando Sara è a scuola, oppure quando è dalla nonna a fare i mestieri di casa. E sua madre dimentica sempre di fare la scorta nelle poche ore del mattino in cui sgorga felice da tutti i rubinetti del paese.
I rubinetti hanno l’abitudine di brontolare spesso e annunciano il ritorno alla trasparenza dopo aver sputato sangue per alcuni minuti.
Ora tutto è fermo e lei deve andare.
Certo che andare a prendere l’acqua la fa sentire grande, anche se trattiene il fiato per tutto il tragitto perché non vuole rivelare la sua paura a nessuno. Non vuole che gli occhi del mondo siano puntati sui suoi. Sara abbassa lo sguardo per non incontrare le occhiate dei vicini di casa, oppure li alza in alto sul lungo nulla infinito disegnato nel cielo.
Conta i sassi quando per terra trova i sassi; conta le nuvole quando il cielo non è tutto azzurro e liscio come un telo appena stirato.
Oggi, non ci sono sassi e non ci sono le nuvole a darle quel poco di coraggio che le serve per affrontare la sua immaginazione; c’è solo un gran freddo che penetra le ossa delle gambe sottili che si mettono a correre.
Correre perché tutto finisca presto.
D’inverno l’acqua ghiaccia ai piedi della fontana e la notte arriva presto.
Sara va alla scuola elementare del paese. Frequenta la prima A e ha una maestra che le piace. Le sue braccia magre fanno dondolare i due bidoncini vuoti così come al mattino fanno ciondolare la cartella. E può ascoltare il rumore del libro, del quaderno, della penna e della matita che si incontrano, scontrandosi, in un ritornello monotono dentro quell'assurdo contenitore, così come ascolta il movimento dell'acqua quasi fosse una nuova parabola da raccontare alla pietra.
Sara, ha sempre un vestito che odia sotto il grembiule nero e la madre lo chiama “scamiciato scozzese” ed è proprio brutto, compreso il nome.
Le scarpe sono sempre ingrigite dalla polvere e le ginocchia, sbucciate dalle mille cadute, le bruciano spesso assopendo il dolore dell’anima, ferita dal fuoco delle sue vergogne.
Sara gioca sempre da sola perché non ha neppure un gioco vero con cui giocare, e quando piange lo fa lontano dagli occhi degli altri e in silenzio.
Piange in un luogo nascosto della casa: “sa domo de su fogu” , dove nessuno entra  e Sara esce da lì solo quando le lacrime si sono asciugate.
Quando la madre la vede in lacrime le fa sempre molte domande e lei non può fare a meno di non essere sincera.
I bambini come Sara imparano presto a nascondere la verità.
Da piccola raccontò a sua madre il motivo del suo pianto e lei l'aveva sgridata per la sua ingratitudine, perché “non si piange per queste sciocchezze” o "per cose che loro non possono comprare".
Alcuni giorni dopo però, sua madre, diede un pacco di carta colorata a sua cugina. La cugina era piccola e compiva tre anni ma non c’era una festa e non c’era la torta, c’era solo una scatola con dentro una scimmia di pelo che batteva due piatti incollati alle zampe.
Sara avrebbe voluto quel gioco per sé e per non mostrare la sua sofferenza scappò in "sa domo e su fogu" ed esplose in un pianto che non avrebbe mai dimenticato.
Da quel giorno la mamma era diventata madre; ed era così che doveva essere.
Sara ha un padre che torna a casa per cena e ha una madre che sbuccia patate e beve caffè con la nonna e la zia. Sara ha un piatto pieno di pasta al sugo con il quale deve soddisfare la fame della pancia e dell'anima. Possiede anche una sorella più grande con cui vorrebbe giocare, anche se tutti sanno, che le sorelle grandi giocano con le sorelle piccole solo quando le sorelle piccole diventano grandi.
I bidoni oscillano vuoti e leggeri nella corsa fino alla fonte. In quel viaggio d’andata il volto fanciullo strozza le lacrime, conficcandole dentro il profondo degli occhi nerissimi, che spiccano lucidi sul viso rotondo.
Ora il passo leggero di Sara si ferma davanti alla pozza ghiacciata che ha incollato nel gelo due foglie avvizzite ed un’ape deceduta nell’ultimo caldo. Vede molte altre cose che non riconosce tanto sono macerate dal tempo. Ed appoggia i bidoni ed ascolta la quiete dell’acqua. Dopo gira la leva ed il getto abbondante distrugge il silenzio. Sara vede la bocca del verde leone imprigionato al cemento e lo sente ruggire, spruzzare e schizzare, e bagnare la terra e le gambe scoperte. Con le mani allungate, Sara appoggia l’imbocco del bidone alla bocca della bestia feroce che aggredisce le scarpe con guizzi di gelo e ferisce la carne delle nude caviglie. Le scarpe di Sara lucidate dall'acqua ora appaiono nere e lucenti e se non fosse per quelle rughe ingrigite sulla pelle mangiata alle punte ed i tacchi consunti, sembrerebbero nuove. Anche la pelle dei piedi è fredda e grinzosa e scivola dentro le scarpe un po’ larghe, le quali devono durare fino al prossimo anno.
E respira quell’aria pulita ignorando la gente che passa e che guarda curiosando il suo fare di bimba mentre un banco di nebbia le cammina proprio sopra la testa, anticipando di poco la notte che sarebbe in ogni caso arrivata.
E le taniche piene sono pronte per terra.
La bambina si ferma a guardare quel fico gigante che esce dal muro di tufo e che abbraccia la fontana a metà.
Quelle braccia di legno annerito sono come fantasmi striscianti che accarezzano l’ignara fontana ora immersa in un silenzio pesante che è rimasto attaccato allo spazio, quando ha chiuso la bocca al leone.
Cinque litri pesano tanto quando in cielo la luna si nasconde e le stelle non si sono ancora svegliate. Sara inclina i bidoni per alleggerirli almeno un pochino; versa l’acqua sulla polvere bagnata lasciando una macchia ed un rigo sottile che corre veloce in fondo alla strada. I cinque litri di paura si riducono un poco e lei non è costretta a trascinarli sul cemento adesso che ha le braccia indolenzite dal gelo. Così cammina fino a casa senza correre e neppure andando alla svelta.
Occhi neri abbassati e schiena ricurva si fermano stanchi. Sara esprime pensieri parlando a se stessa e alle case dai muri sbriciolati, rifugio di ragni e nient’altro.
Nessuno cammina per strada.
L’asfalto è nero e deserto e l’aria odora di fredda oscurità e di spavento.
“Adiosu”.
S’interrompe l’andare a metà del cammino.
Il saluto esce dal buio della casa sull’angolo del vicolo che deve attraversare. Un saluto dolce in cui intravede il senso poetico che i bambini, soprattutto quelli poveri, percepiscono nelle pause tra i silenzi.
Conosce quel saluto arcaico che ormai solo i vecchi usano. Anche la vecchia è antica e Sara appoggia i suoi due cinque litri di paura dopo aver percorso cinque metri di rassegnazione sul primo gradino di pietra bianca della casa dell’Antica.
Seduta vicino all’ingresso le fa il cenno di accomodarsi sul gradino in cui lei si mette a sedere. La pietra ghiacciata le gela le gambe e il respiro diventa leggero, a Sara sembra che il buio diventi più chiaro e anche in aria aleggi un leggero tepore.
“Adiosu”. La bambina e la vecchia si scambiano il vecchio saluto, tanto più bello del ciao che andava tanto di moda tra i giovani e tra gli anziani che volevano apparire giovani.
Quella vecchia viveva da sola nella casa all’angolo del vicolo nero, non aveva parenti o se li aveva Sara non lo sapeva. Per la bimba la vecchia era la sua stazione di sosta, un intermezzo tra la strada larga illuminata dalla luce che usciva dalle case ed il vicolo stretto e buio che doveva attraversare lentamente, con i bidoni pieni per la cena e la mente che poteva creare solo mostri immaginari, pronti a pasteggiare con le carni del suo corpo.
Una sosta.
Aveva imparato anche i numeri e adesso cercava con gli occhi  di vedere le mani rugose della vecchia per contare le piccole pieghe sottili disegnate dal tempo. La bambina e l’antica avevano molte cose in comune e lo sapevano entrambe, ambedue possedevano il dono di capire da dentro le cose che stavano fuori.
In quel volto che sembrava inciso nel legno, in quel mento, nascosto dal nodo del fazzoletto nero, in quello sguardo attento e curioso, riponeva il fardello della sua timidezza, perché quel viso era autentico e vero e apparteneva alla sua razza, conosceva la sua lingua e conosceva molte risposte. La vecchia che passava molte ore ad osservare le persone camminare davanti alla sua casa, sapeva ascoltare senza mai commentare, senza mai giudicare.
“Adiosu”.
La bambina e la vecchia parlano poco pur avendo molte cose da dire.
La vecchia accompagna il saluto con un gesto della mano che alza con un movimento leggero. A Sara sembra che dalle dita alla vecchia spunti una farfalla di luce che l'accompagnerà dentro il vicolo buio.
La madre stava aspettando l’acqua ferma in piedi sulla soglia di casa, le strappa dalle mani le taniche e le porta in cucina dove anche la pentola aspetta.
Il padre è seduto a tavola, la sorella legge e il fratello non è ancora arrivato.
Le sorelle apparecchiano la tavola, riempiono le bottiglie con l'acqua fresca della fontana e la grande prende il boccione del vino da sotto il lavandino. Sara dispone il pane in un piccolo cesto e lo copre con un tovagliolo. Tutti hanno qualcosa da dire e anche lei racconta e parla di cose. I piatti aspettano la pasta fumante. L’allegria del mangiare spezza il senso di fame, momentaneamente sopito.
Dopo cena la madre ordina a Sara d’andare a dormire.
Sara va a letto con la pancia piena e senza pigiama.
Le coperte pesanti scaldano i piedi ancora freddi e le favole incontrano i sogni nel riflesso dei vetri.
Il sonno non tarda e un'attimo prima d'addormentarsi dimentica i rimproveri della mamma e i suoi occhi tornano dolci. Nella sua mente la carezza scivola sul viso, delicata e leggera.
Ha dimenticato di spostare le ciocche dalle spalle e ha dimenticato i fantasmi congelati ai piedi della fonte.
Non rimpiange nulla di quella felicità a brandelli pronta ad afferrare gli avanzi delle sue stelle.
“Adiosu”
Sussurra sottovoce alle tenebre.