La bicicletta rossa fiammante

Marco chiese una bicicletta al suo papà e lui la comprò.

Punto. Questa è la storia. Vi chiederete: “Come? Tutto qui?!”.

Allora:
“La bicicletta era fiammante rossa con i rapporti. Marco era troppo piccolo per saperli usare, ma era orgoglioso della sua bicicletta rossa fiammante con l’adesivo dell’ultimo Giro d’Italia sul manubrio. Il signore che l’aveva venduta al suo papà, aveva detto che era un pezzo da collezione. Una vera chicca. Sarebbe costata molto di più, ma per quel bambino simpatico e allegro il signore aveva chiuso un occhio.

Quello che Marco e il suo babbo non sapevano era che la bicicletta apparteneva a qualcun altro, ed era stata rubata qualche settimana prima in un parco giochi.
Fabio, il proprietario, era un bimbo di sette anni – la stessa età di Marco – e quel giorno era infinitamente triste.
La sua bicicletta rossa fiammante era stata un regalo dello zio per il suo compleanno. Erano andati a vedere insieme il Giro d’Italia quel giorno, e lo zio gli aveva regalato un adesivo da attaccare al manubrio.
Nonostante la mamma e il papà lo rincuorassero dicendogli che gli avrebbero comprato una bicicletta nuova uguale alla sua, Fabio era inconsolabile.
Voleva solo ed esclusivamente indietro la sua!

Marco, dall’altra parte della città pedalava felice e contento con il suo papà che lo osservava orgoglioso. Si sentiva come Bartali su quella bicicletta e non l’avrebbe lasciata per nessuna ragione al mondo!
Marco cresceva a vista d’occhio.
Quando divenne troppo grande per la sua amatissima bicicletta, suo padre decise di venderla. Marco lo supplicò per giorni interi finché un bel giorno il babbo capitolò. Impacchettò la bicicletta per bene nel nylon e la parcheggiò in cantina.

Marco era un uomo ormai. La sua fidanzata, Erica, si era abituata alle sue stravaganze. La sua collezione di biciclette di ogni epoca sul mobile in soggiorno non le dava più fastidio, anzi alla fine ci si era quasi affezionata.
Quando morì suo padre, poco dopo la morte della sua amata mamma, sembrava che per Marco la vita fosse finita. Non avesse più senso.
Grazie ad Erica, però, riuscì ad andare avanti e cercò di spazzare via il dolore che stava provando. Lei aspettava un bimbo. Questo era il futuro e lui avrebbe dovuto concentrarsi solo su quello. Il lavoro era divenuto a questo punto una pizza. Sempre gli stessi compiti, mai un aumento di stipendio e i capi sempre a fargli notare che non valeva nulla. Poi nacque Andrea. Da quel giorno Marco non fu più lo stesso. Il lavoro era passato del tutto in secondo piano, sempre che fosse mai stato importante. I capi potevano dire tutto ciò che volevano. Lui valeva. Valeva eccome! Il suo valore era tutto in quella creatura piccola che ogni giorno imparava qualcosa di nuovo. Il miracolo della vita. E Marco era parte di quel miracolo.
Avrebbe tanto voluto che suo padre fosse stato lì in quel momento. Che avesse potuto abbracciare suo nipote. Ma lo sentiva vicino come non mai. Mai prima di quel giorno all’ospedale, tenendo in braccio quel fagottino, aveva capito cosa voleva dire essere padre.

Andrea ormai cresceva velocemente. Marco cresceva con lui. Quando suo figlio compì sette anni, si decise. Prese la forza e andò in cantina. Era la cantina della sua vecchia casa. La casa del suo babbo. Lei era lì. Ancora avvolta nel nylon con un dito di polvere sopra. La sua amatissima bicicletta. Rossa fiammante come il primo giorno che la vide!
La spolverò e la rimise in sesto per benino. Nel giorno del suo compleanno, Andrea la ricevette in regalo. Gli brillavano gli occhi e Marco, pieno di gioia, gli insegnò a pedalare come tanti anni fa aveva fatto con lui il suo babbo.
L’adesivo di quel lontano Giro d’Italia resisteva ancora. Resisteva a tutto: urti, pioggia, graffi, ruggine. Era come se lui e la bicicletta fossero un tutt'uno da sempre.
Andrea continuava a crescere ogni giorno di più, come era cresciuto Marco alla sua età.
Non passò molto tempo e la bicicletta riprese il suo posto in cantina. Avvolta nel suo vecchio amico nylon.

Andrea ora studiava all’università. Aveva deciso di non allontanarsi da casa e di seguire un corso il più vicino possibile. Suo padre, infatti, non stava più molto bene anche se non lo voleva dare a vedere per non essergli di peso.
Erica se n’era andata da qualche anno ormai, lasciando un vuoto enorme nei cuori dei due uomini. Se n’era andata proprio come la sua mamma e Marco non era riuscito a superare il dolore.
Pian piano si era lasciato andare e la sua vitalità si era spenta come una candela accesa per mesi.
Andrea passava il tempo fra l’università e casa sua. Studiava e curava suo padre. Quest’ultimo oramai era più di là che di qua, ma l’amore che provava per suo figlio lo tratteneva ancora.
Un giorno chiese ad Andrea di portarlo in cantina.
Lì rimase assorto nei suoi pensieri per ora, davanti alla sua vecchia bicicletta rossa fiammante impacchettata nel nylon.
Quanti bei ricordi, quante risate.
Quegli anni sembravano così lontani eppure erano passati come un soffio. Guardava suo figlio e negli occhi gli si leggeva un misto di venerazione e invidia.
In quei giorni Andrea studiava sempre più spesso nella caffetteria all’università. C’era una ragazza, che ci lavorava come cameriera, Isabella. Lui se n’era innamorato perdutamente.
Beveva litri di caffè tutti i giorni solo per poterla vedere. Era bellissima e gentile. Sorrideva sempre. Lui non trovava il coraggio di chiederle di uscire. Sicuramente sarà fidanzata era il pensiero ricorrente che gli schizzava nella testa.
Isabella in cuor suo, sperava ogni giorno che lui la invitasse ad uscire, anche solo per andare al cinema o mangiare un boccone da qualche parte. Sarà fidanzato era il pensiero ricorrente che le martellava il cervello.

Un lunedì mattina, Andrea si recò come il suo solito alla caffetteria. Era deciso ormai! Le avrebbe chiesto di uscire.
Lei era lì. Aveva avuto paura di non trovarla. Per uno strano motivo aveva sentito il terrore irrazionale di non vederla. Ma era lì. Era bellissima. La coda per il caffè sembrava non finire mai e Andrea era spaventato al pensiero che a causa dell’attesa, quel briciolo di coraggio che aveva racimolato, scomparisse.
Quando arrivò il suo turno rimase bloccato lì. Lei era in piedi davanti a lui, lo osservava e sorrideva. Sembrava che il tempo si fosse fermato e che le ginocchia non sapessero più dov’erano di casa.
Si guardarono a lungo senza proferire verbo.
Ad un tratto da dietro una voce li riportò alla realtà: “E allora vogliamo fare notte?”, sbottò l’uomo alle sue spalle. Andrea sussultò e così anche Isabella. Per un attimo il suo splendido sorriso si spense sulle sue labbra e Andrea la guardò preoccupato.
Come se la sorte di tutta l’umanità e dell’universo intero dipendesse da un suo sorriso.
Lei abbassò lo sguardo “Se non mi dici cosa vuoi fra un po’ ci linciano”.
“Te” la risposta scivolò dalla bocca di Andrea inaspettata. “Non un tè, te: voglio te” si corresse per paura di venire frainteso.
Isabella arrossì, ma dal suo sorriso ora trapelava la felicità che le era salita dal cuore.
Andrea restò seduto nella caffetteria fino all’ora di chiusura. Si erano messi d’accordo di andare al cinema, ma quella sera il cinema se lo scordarono.
Passeggiando chiacchierarono per tutta la notte. Nel freddo della città.
Il primo bacio fu un fulmine. Paragonabile alla sensazione di infilare le dita in una presa elettrica.
Passarono i mesi.

Un giorno di gennaio Marco non si svegliò. Andrea lo trovò nel suo letto, come se dormisse, col sorriso sulle labbra e una delle sue biciclette da collezione sul comodino vicino alla foto della sua Erica.
I giorni a seguire furono per Andrea una doccia fredda. Era solo. Isabella era dovuta partire dopo nemmeno una settimana dal loro primo bacio perché la sorella aveva partorito.
Passava le giornate davanti alla TV a piangere e dormire. Isabella lo chiamava ogni sera, ma lui non riusciva a parlare.

Un giorno di marzo suonarono alla porta. Andrea andò ad aprire e per la prima volta in tutti quei lunghi mesi il mondo sembrava aver cambiato luce. Isabella stava lì in piedi e sorrideva. Lo abbracciò e lo baciò. Quella notte fu per Andrea come una rinascita o un risveglio da un coma profondo.
Sdraiati l’uno vicino all’altra, accarezzandosi, si raccontarono tutto. Le loro più grandi paure, i loro sogni più nascosti.
Improvvisamente Andrea, senza sapere il perché, raccontò di suo padre e della sua bicicletta rossa fiammante. “Lo sai, il mio babbo amava tanto la sua bicicletta. La venerava”
Isabella sorridendo “Si, so cosa vuol dire” sussurrò “Mio padre ha rimpianto la sua bicicletta fino alla sua morte. Diceva che lo aveva stregato. Da quando da piccolo l’avevano rubata. Mio nonno mi raccontava sempre che suo fratello l’aveva regalata a mio papà quando aveva appena sette anni. Poi erano andati a vedere il Giro d’Italia e l’adesivo sul manubrio era il ricordo che lo faceva stare più male”.
Andrea sussultò.
Isabella continuava “Pensa che quel giorno, mio padre era così felice, e per paura che qualcuno si sbagliasse e la portasse via, sotto la sella della bicicletta scrisse il suo nome”.
Rideva mentre Andrea rimaneva in silenzio a riflettere.
Si alzò di scatto e le disse di seguirlo. Lei, che non capiva il perché, si alzò e lo accompagnò senza fare domande.
Scesero insieme le scale che portavano alla cantina. Andrea aprì la porta e accese la luce.
Era lì. Nell’angolo. La bicicletta rossa fiammante che era della sua famiglia ormai da due generazioni.
Lentamente Andrea, come se avesse paura che si frantumasse e cadesse in mille pezzi, la liberò dal nylon che la proteggeva. Sotto il sedile c’era un nome. “Come si chiamava tuo padre?” chiese con un filo di voce ad Isabella. “Fabio” bisbigliò lei.
Andrea girò la sella verso la luce per fare vedere ad Isabella quello che aveva letto lui.
Il nome scritto sotto il sedile, con la calligrafia di un bambino, lo si leggeva distintamente dopo tutti quegli anni: Fabio.
Isabella ed Andrea si guardarono a lungo negli occhi. Un sorriso complice. Un bacio. Il destino sottoforma di una bicicletta rossa fiammante.”

Ora si che la storia è finita, ma non quella della bicicletta...