La casa sospesa, la rivelazione.

La casetta, piccola e graziosa, era sospesa nel cielo.
Il tetto era di tegole rosate, dalla superficie ruvida intiepidita dal sole, mentre i muri candidi di malta apparivano liscissimi anche dopo anni di vento e intemperie.
Un buffo comignolo paffuto faceva capolino su uno dei due lati spioventi del tetto, rilasciando un sottile serpente di fumo bianco che si innalzava per qualche metro in lente volute, prima di essere catturato da qualche corrente ascensionale che lo cancellava dal cielo come una sbavatura indesiderata.
Intorno all’edificio, simile ad un grosso balocco per le bambole, si stendeva un fazzoletto di terra erbosa su cui spiccava il ciottolato bianco davanti all’ingresso;  Sulla sinistra della porta c’era un orticello ben curato, nel quale crescevano rigogliosamente verzure di ogni tipo. Non c’erano differenze tra le varie verdure e frutti di stagione: tutto, dalle fragole alle zucche autunnali, cresceva contemporaneamente, senza considerare i periodi stagionali. Sempre che di stagione si possa parlare, nel bel mezzo del cielo.
Dall’altro lato dell’isolotto volante, sulla destra, una fenditura tra due grosse rocce muschiate generava un ruscello d’acqua dolce, che serpeggiava lungo il leggero declino del terreno, fino a raggiungere il bordo dell’isola che piombava nel vuoto, generando una piccola cascata nel blu.
Nel bel mezzo di questo limbo di pace e serenità assoluta, c’era Lei.
Non aveva nome, nessuno gliene aveva mai assegnato uno. Non c’era né una madre né un padre, non c’era stata nascita, così come non ci sarebbe stata morte, finché ella sarebbe rimasta ad abitare nella casetta.
Quando si è confinati in un luogo privo della morte stessa, che importanza ha una cosetta irrisoria come il fatto di possedere un nome?
Lei era una ragazza molto giovane e bella. Difficile stabilirne l’età, perché nonostante possedesse una fresca bellezza da quindicenne, il viso era avvolto da un’espressione di pace interiore che solo alcuni, molto di rado, riescono a conquistare con il sopraggiungere della vecchiaia.
Difatti, osservandola la ragazza pareva allo stesso tempo giovanissima e molto vecchia, ingenua e saggia, acerba e provocante insieme...
Nell’ambito limitato della casetta volante, tutto questo era lampante, nonostante all’apparenza non fossero altro che una serie di inaccettabili paradossi.
Lei passava le giornate ad esistere, a vivere. Con tranquillità, semplicità e la ferma convinzione di stare bene. Il ché trasformava la sua vita in quello che più si avvicinava alla felicità assoluta: la mattina, alzatasi di buon ora, usciva di casa e contemplava il sorgere del sole. Sapeva di essere sospesa nel cielo, ma non aveva idea dell’altezza né di cosa ci fosse sotto di lei. A dire il vero, non era sicura neanche se ci fosse qualcosa sotto di lei. La sua concezione del mondo iniziava e terminava con il fazzoletto di terra erbosa, mentre il cielo era il suo universo protettivo circostante. Niente di più.
Trascorreva le giornate in attività semplici che la rendevano più viva e felice che mai: curare l’orto, sua fonte di nutrimento, tenere ben pulita ed ordinata la casetta, accertarsi che il letto del ruscello fosse sempre in buone condizioni...
In casa, nel comodo salottino di legno chiaro, arredato a puntino, possedeva anche una libreria e un telaio che non necessitava di gomitoli di lana, in quanto provvedeva a creare il filo da solo.
La vita di Lei era la pace dei sensi fatta ad esistenza, e lei era ben felice di essere parte di tutto questo.

Quella mattina era stata simile a tutte le altre innumerevoli mattinate che Lei aveva vissuto fino a quel momento; Dopo aver fatto colazione con fragole e zucca al vapore, aveva contemplato il cielo per un po’, senza avere in testa un concetto ben preciso di cosa fosse il tempo, né di come potesse in qualche modo misurarlo; Il tempo era un aspetto del suo microscopico universo che non necessitava di molta considerazione.
A metà mattina aveva letto una fiaba da uno dei suoi libri preferiti, che non possedevano né autore, né data di pubblicazione.
In quel preciso istante, stava pulendo con un panno la parete candida della casa, quando gettando lo sguardo all’infinito del cielo blu vide qualcosa che si stava avvicinando molto rapidamente.
Socchiuse gli occhi, scrutando incuriosita la sagoma scura che fendeva le nuvole bianche, puntando dritto dritto verso l’isola volante.
Solo quando la “cosa” fu quasi giunta a destinazione che Lei si rese conto con sgomento che cosa fosse in realtà: una persona.
O meglio, visto che non possedeva la cognizione che ci fossero altri esseri con fattezze simili alla sua, vide una creatura molto simile a Lei, tranne che in qualche evidente dettaglio...
Era un ragazzo.
Snello e giovane, come lo era Lei. Ma mentre Lei aveva lunghissimi capelli neri che gli scendevano quasi fino alle caviglie, la chioma del ragazzo era candida come la luna piena e terminava poco sotto le spalle. Vestiva un elegante abito nero, bordato di pizzi argentei, che esaltava la linea sinuosa e atletica del corpo. Consapevole di indossare semplici abiti di lana chiara fatti a mano, per la prima volta Lei provò qualcosa che si sarebbe potuto descrivere come un abbozzo di vergogna.
Abbassò lo sguardo, la mano chiusa in un pugno tremante a coprirle la bocca. Si sentiva spaesata e colta alla sprovvista: Chi era? Cosa era? Perché era lì?... Tutte domande, queste e mille altre, che il suo minuscolo mondo personale non le aveva mai imposto di chiedersi.
‐Salve a te, fanciulla!‐ Disse gioiosamente il ragazzo, esibendo un inchino sfarzoso, quasi compiacendosi della propria grazia innata.
Da quanto tempo Lei non parlava? Non si ricordava neanche come fosse la sua voce... Stentava a credere di possedere una voce, addirittura.
‐S‐s‐s‐aaalv‐v‐e...‐ Disse lei, arrossendo per lo sforzo.
Il ragazzo si guardò intorno, il volto per metà stupito e divertito assieme.
‐Sei accasata magnificamente qui!‐ Disse, allargando le braccia.
Lei non seppe che dire. Quello che riuscì a fare fu sondare profondamente gli occhi di lui: occhi blu più del cielo dietro le sue spalle, occhi profondi e giovali che divoravano con allegria ogni cosa su cui si soffermavano. Ogni cosa... e ogni persona.
Si sentì avvampare.
‐Da dove vieni?‐ Chiese Lei, più fiduciosa nel parlare, questa volta.
Lui parve sorpreso, ma manteneva quell’atteggiamento di fondo che era divertito ma anche un po’ troppo scanzonato.
Allungò il braccio, l’indice teso verso il cielo. Con un tuffo al cuore, Lei vide che oltre a indicare il cielo, l’indice del ragazzo puntava anche leggermente verso il basso.
In basso... Sotto il cielo.
‐Vengo dalla città‐Mondo, là sotto...‐ Disse il ragazzo, scrollandosi una ciocca di capelli nivei dalla fronte con uno scatto della testa. Poi chiese la domanda che a quel punto Lei attendeva e al tempo stesso temeva di più: ‐ La vuoi vedere? Te la mostro io...‐
La mano del giovane si rese verso di lei, il palmo verso l’alto, le dita affusolate pronte a stringere le sue.
Lei, abituata da chissà quante eternità all’amorevole sicurezza dell’isola volante e della sua casetta di malta, ebbe paura.
Una paura che non era infantile, o immaginifica, come quella che provava negli incubi. Una paura reale... La paura dell’ignoto, di perdere ciò che si ama e su cui si fa affidamento nella vita.
Eppure c’era qualcosa nello sguardo del ragazzo... Pareva quasi che avesse un ché di magico. Qualcosa che la spingeva a desistere, vincendo la paura e affrontando quella nuova, inaspettata sfida che le era stata offerta.
Si avvicinò al ragazzo e strinse la sua mano. Sentì il calore di un corpo che non era il suo e questo calore si espanse dentro di lei come un incendio. Ansimò, emozionata come non mai.
‐Non avere paura, non corri alcun rischio a volare con me...‐ Disse il ragazzo. E lei ci credeva, con tutto il cuore.
Si staccarono dal suolo entrambi, silenziosamente, senza muovere un alito di vento che già non fosse presente nell’aere fresco del cielo.
Lei scoprì di non avere affatto paura di volare: la stretta salda e forte del ragazzo era più rincuorante persino della stabilità offerta dalla casetta volante. Si stupì di questa sensazione, provando anche uno strano disagio... Scoprì di sentirsi ingrata verso il limbo volante che fino a quel momento l’aveva accudita come un utero amorevole.
Ma un istante dopo, quando partirono veloci come uccelli marini sferzati dal vento, tutto scomparve. Rimase solo il lussurioso piacere del volo... E di lui.
Lei voltò lo sguardo un’ultima volta, osservando l’isola; non l’aveva mai osservata dalla distanza: sembrava una grossa zolla di terra marrone a forma di cuneo, con la punta rivolta verso il basso. Grosse radici sbucavano sulla parte sinistra, dove sorgeva l’orto, abbeverandosi delle minuscole sacche di umidità offerte dalle nuvole.
Con un riso esuberante e cristallino, il ragazzo proruppe in una picchiata verso il basso. Fu un esperienza da brivido per Lei, ma tutto sommato divertente. Risero insieme per tutta la durata della velocissima picchiata, mentre l’aria, ora fresca e ora calda a seconda delle correnti ascensionali che fendevano, sferzava i capelli di entrambi.
All’improvviso, davanti a loro, le nubi si aprirono come i lembi di un sipario paradisiaco, e sotto di loro apparve la città‐Mondo.
Lei perse il fiato, incapace anche solo di pensare, di accettare quello che gli si profilò dinnanzi.
Fin dove l’occhio poteva scrutare, si innalzavano palazzi di magnificenza inaudita, torri e pinnacoli argentei che scintillavano al sole come i diamanti di una corona sontuosa. Ponti dai raffinati bordi intarsiati correvano da una torre all’altra, mentre gli edifici più bassi formavano un tappeto uniforme di quartieri e piazze, scalinate e portici. Lei vide la vita brulicare dentro a quegli edifici e quelle strade. Una vita diversissima da quella che aveva vissuto fin’ora, fatta di pace e solitudine assoluta. Quella che osservava ora era una massa di esistenze pulsanti, frenetiche, parte di una collettività troppo grande da poter comprendere, almeno per lei.
‐Ti piace?‐ chiese il ragazzo.
‐E’ bellissimo!‐ gridò lei, la voce così acuta da apparire quasi isterica.
‐Bene! Lo sai, io sono il principe di questa città‐Mondo! Sono colui che decide le sorti delle future vite altrui. Sono colui che fa maturare gli animi e apre gli occhi a coloro che sono rimasti troppo a lungo a crogiolarsi nell’innocenza...‐
La voce del ragazzo si era improvvisamente caricata di una sgradevole tonalità distorta. Se solo Lei avesse ne conosciuto il significato, la parola le sarebbe saltata alla mente in un lampo: cinismo.
Il ragazzo posò la mano sugli occhi di Lei, e quando la tolse successe il finimondo.
Come la pittura di un dipinto avvolto dalle fiamme, la realtà che si stendeva davanti agli occhi di Lei prese a sciogliersi, deformandosi e perdendo consistenza, per lasciare trasparire quello che realmente era celato al di sotto di essa.
La sfarzosità splendente della città‐Mondo si sgretolò, aprendo crepe sulle superfici dei palazzi e frantumandone le immagini in grossi cocci luccicanti che piovvero al suolo in una cacofonia di schianti e frantumi. Al di sotto di questi frammenti, Lei vide una città‐Mondo diversa, fatta di povertà e brutture, sporcizia ed edifici rugginosi, cavi di rame sbilenchi che si intrecciavano in perverse ragnatele metalliche, interi quartieri avvolti da fumi ed esalazioni tossiche... Quella città così sconfinata che le era apparsa come una visione paradisiaca in realtà era la rappresentazione concreta del marciume.
Le vite brulicanti che affollavano le strade non le parvero più energiche, ma povere e miserabili, avvolte dalla disperazione. Si sentì soffocare dalle loro grida e da tutte le emozioni distorte di quella massa commiserevole.
Un boato vibrò nell’aria, talmente forte da scuotere il cielo. Lei strillò, terrorizzata, quando davanti a loro una enorme massa scura precipitò verso il basso, squarciando il manto nuvoloso con la forza della propria caduta libera.
Con orrore infinito, Lei osservò la propria isola volante, su cui si ergeva l’amata casetta con l’orto e il ruscello, cadere come un enorme sasso lanciato giù per un pozzo.
Disperata, Lei si volse lo sguardo al ragazzo, che era rimasto dritto come un fuso fino a quel momento, continuando imperterrito a volare in linea orizzontale.
Il volto del ragazzo incrociò quello di Lei, ed ella vide che qualcosa era cambiato: la pelle pareva più pallida e tesa sul cranio; le labbra più sottili e bluastre; ma gli occhi, più di ogni altra cosa, sconvolsero lei: non più giovali e spigliati, ma febbricitanti di malignità pura.
Il ragazzo parlò e quando lo fece, Lei sentì un acuto senso di repulsione da quel volto, così si costrinse ad osservare la sua vecchia isola che continuava a precipitare dinnanzi a loro, mentre la voce sibilante del ragazzo gli arrivava alle orecchie, leggera come un pensiero di sottofondo a quella scena di terribile distruzione.
‐Osserva la sofferenza delle persone sotto di te, ragazza... Senti la loro miseria, l’alone di fetido disgusto che provano per loro stessi e l’uno per l’altro...‐
...L’isola cadeva, cadeva, sbriciolandosi in grossi segmenti di terra avvolte da polvere scura e detriti...
‐Inutile rifugiarsi in stupidi nidi di illusione e ignoranza. Il tuo posto è laggiù, tra i miasmi della feccia mortale che marcisce a causa della sua stessa gretta avidità...‐
...All’improvviso, la casetta di malta si sradicò dal suolo dell’isola. Le fondamenta si strapparono dal suolo, le travi di legno si spezzarono come ossa vecchie e polverose. Sotto di essa, l’isola di terra si frantumava sempre di più...
‐Guarda il tuo patetico guscio ultraterreno che acquista il suo reale valore terreno: un ammasso di rottami, inutili e sbriciolati. Questo è il potere della realtà, ossia distruggere tutto ciò che non gli appartiene, rendere l’immateriale qualcosa di tangibile ma al tempo stesso patetico...
...Vide le piante dell’orto che venivano tritate e fagocitate dalle voragini della terra, che si apriva con crepe simili a ferite inferte nella scura carne dell’isola volante. La casa ormai era nient’altro che una nube di calcinacci bianchi in caduta libera, leggermente più in alto rispetto alla massa di detriti...
‐ Tu sei un anima senza guscio, ragazza. Non hai ancora preso il tuo posto nella realtà che senti la sotto. Fino ad ora ti sei beata di questa tua condizione privilegiata, lassù nel tuo caldo rifugio; ma viene sempre il momento di affrontare la realtà... La dura, orrenda, sporca, putrida, mortale realtà. E questo momento, ragazza, è ORA!‐
Mentre quel che rimaneva della sua vecchia isola volante si sfracellava al suolo, sollevando una nube nera che si innalzò come un’esplosione, il ragazzo lasciò la presa e Lei cadde nel vuoto. Precipitò, urlando disperatamente, mentre sotto di lei la città‐Mondo si faceva ogni istante più vicina, più appuntita, più arrugginita, più putrida, più viscida e tangibile...
E poi ci fu bianco, infinito, innominabile...

La neonata venne al mondo in uno dei tanti vicoli maleodoranti dei bassi fondi di città‐Mondo. Il ciottolato della viuzza buia era bagnato di umidità, sudiciume e liquame.
La madre morì durante il parto. La bambina rimase qualche tempo lì, accanto al corpo esangue del suo unico genitore, avvolta dal sangue e dalla placenta.
I mendicanti e gli accattoni osservarono la scena con un certo distacco, ignorando il pianto disperato della neonata, oramai abituati a quelle scene di squallida vita e morte quotidiana.
Tuttavia ci fu un momento durante il quale il pianto della piccola si fece improvvisamente fortissimo, quasi disperato, tanto che alcuni dei passanti si fermarono a guardare, incuriositi.
Non videro niente di diverso da poco prima. La stessa bambina, ancora immersa nei fluidi del parto.  Piangeva come se provasse un qualche tipo di dolore fisico.
Non videro la sagoma leggiadra del ragazzo che osservava la neonata nel bel mezzo del vicolo, il ghigno dilatato oltremisura che gli deformava il volto affascinante, gli occhi blu pieni di spietata soddisfazione.
‐Benvenuta nel mondo dei mortali, ragazza...‐ sussurrò il Demone delle Nascite Infauste... o forse non fu altro che un alito di vento.