La gabbia silenziosa

Marta si sentiva come una farfalla con le ali impastate di piombo. Non portava lividi sulla pelle, ma addosso aveva il peso di un’armatura invisibile che le schiacciava il respiro.
Marco, il suo compagno, non alzava mai la voce: le sue armi erano sussurri affilati e silenzi che gelavano l’aria.
«Sei troppo emotiva» diceva, con un sorriso che sapeva di compatimento, ogni volta che lei osava esprimere un disaccordo. «Dovresti essere più razionale. Come me.»
Quella frase, ripetuta come un piccolo colpo di martello, aveva scavato crepe profonde nella sua autostima, fino a farle dubitare dei propri ricordi, delle proprie sensazioni, della propria realtà.
Una sera Marta aveva preparato il suo piatto preferito. Marco, dopo il primo morso, aveva posato la forchetta scuotendo appena la testa.
«Buono, ma… manca qualcosa, no? Forse poco sale. Non capisco come mai tu non riesca mai a centrare le dosi.»
Non stava criticando la cena. Stava criticando lei.
Nei giorni seguenti Marta aveva smesso di cucinare per lui. Poi aveva smesso di parlare dei suoi sogni, dei successi al lavoro: ogni gioia veniva puntualmente rimpicciolita.
«È solo fortuna» mormorava Marco. Oppure: «Non esagerare, non è niente di speciale.»
Il mondo di Marta si era ristretto alla paura di urtare una sua reazione. Pesava le parole prima di pronunciarle, controllava come si vestiva, persino quando sorridere. Era diventata un’ombra: una presenza docile, addomesticata.
Un giorno, guardandosi allo specchio, vide che i suoi occhi erano opachi.
Fu allora che comprese: la prigione peggiore non ha sbarre visibili. È quella che ti convince di meritarla, che ti fa credere che la chiave non sia mai esistita.
E capì anche un’altra verità, più dolorosa: l’aguzzino non era solo l’uomo accanto a lei. Era la voce dentro di sé, ormai modellata dalla sua.