La leggendaria fuga di Carmelina Bonocore

I mucchi di spazzatura erano stati provvidenziali. Carmelina ringraziò San Gennaro, la fasulla amministrazione della città e ovviamente Santa Camorra Organizzata.
Non c’è nascondiglio migliore della spazzatura. Lì nessuno viene a cercarti. La puzza che le si era appiccicata addosso, non l’avrebbe abbandonata che dopo molti bagni. Ma le aveva salvato la pelle.
È incredibile come un corpo umano vestito, si confonda alla perfezione tra la spazzatura.
I killers le erano passati davanti, in pieno giorno, molte volte. Si erano perfino voltati verso di lei, semisepolta tra sacchi, stracci e ogni possibile rifiuto, e non l’avevano vista. Si erano limitati a tapparsi il naso e a fare una smorfia di disgusto. Uomini sensibili e raffinati.
Carmelina se ne stava seduta, come una bambola rotta, tra i sacchi sventrati. Si era gettata addosso in tutta fretta quello che aveva intorno, verdure marce, stracci, pezzi di mobili vecchi. Teneva in grembo un lavandino incrostato e crepato, come fosse uno scudo.
Non aveva creduto nemmeno per un secondo di potersi salvare così. Si era messa lì per istinto, come un animale braccato dai segugi.
I sicari, con i loro occhiali scuri, le loro pistole, i loro maledetti ghigni, erano passati e ripassati. Sapevano che non poteva essere lontana, ma non riuscirono a trovarla.
Perfino per gente così, la puzza degli scarti umani era troppo forte.
Era rimasta lì per ore, fino a che il buio era sceso nelle strade, a dare conforto e sonno ai disperati come lei. Stranamente, nel suo terrore, non sentiva l’odore stomachevole in cui era immersa. Anzi, nella lucidità e acutezza di sensi che la paura le generava, avvertiva distintamente ogni singolo effluvio di quella montagnola di sozzura. Un intero campionario di odori, una collezione del disfacimento delle cose.
Il suo uomo era morto. Ucciso da altri come lui. Carmelina non cercava vendetta. Voleva solo andarsene più lontano possibile da quella città, da quel maledetto paese di criminali.
Tutto era iniziato quando Antonio, il suo fidanzato, era arrivato a casa con quella valigia, piena di soldi. Era entrato ansimando, sudato per il calore estivo e la corsa che aveva fatto su per le scale; l’ascensore, come al solito, era guasto.
Si era richiuso la porta alle spalle con un gran colpo. Carmelina sentendolo aveva subito pensato che fosse arrabbiato, magari per l’ennesima inutile fila al collocamento, o attesa al bar, di qualche piccolo boss del quartiere, per ottenere una raccomandazione.
Tiravano avanti a stento, stavano insieme da ormai 5 anni, e nessuno dei due riusciva a trovare una collocazione stabile. L’appartamento, al quarto piano della palazzina di periferia, glielo aveva dato il comune, grazie all’intervento di Don Raffaele. Santa Camorra era l’unica che avesse mai pensato a loro. In cambio, Antonio era stato ingaggiato come “cavallo”, ma essendosi dimostrato maldestro e inaffidabile, era stato messo da parte, per sua fortuna, o sfortuna, chissà.
Sta di fatto che lui aveva preso la cosa come un’offesa personale e aveva rotto con il clan di Don Raffaele, che da parte sua era stato ben felice di liberarsene. Di gente giovane, sveglia e senza scrupoli ne avevano quanta ne volevano.
Quella sera Carmelina si aspettava di veder sbucare Antonio dal corridoio, con la solita espressione corrucciata e arrabbiata. Invece era corso da lei, aveva buttato una valigia sul divano e l’aveva abbracciata.
“Siamo a posto Carmè!” le aveva detto nell’orecchio, mentre la baciava.
La valigia era piena di soldi. Mio Dio quanti soldi!
Carmelina ebbe subito paura. Era chiaro che Antò aveva combinato qualcosa d’irreparabile e non faticava a immaginare che la provenienza di quel denaro fossero le tasche di qualche boss.
Ma come aveva fatto Antonio, maldestro e non certo un campione di furbizia, a impossessarsi della valigia?
Alle sue domande insistenti e preoccupate, lui rispose solo con vaghe parole, stazione, polizia, retata, Don Raffaele...
A sentire quel nome, Carmelina lo prese per il colletto della camicia sudata e lo tempestò di schiaffi. Antonio, invece di prendersela e di ragionare, continuava a ridere.
Mezz’ora dopo erano entrambi in strada, con i soldi stipati in due borse, che si affrettavano verso la fermata degli autobus. Portarono il malloppo a casa della vecchia zia cieca di Carmelina, nel suo cadente appartamentino del centro, lontano dal loro quartiere. Avrebbero pensato dopo, con calma, cosa fare.
Rientrati a casa, lei si mise a preparare la cena. Antonio continuava a saltellare per casa come un grillo eccitato, dicendole che si sarebbero trasferiti al nord, avrebbero comprato una bella casa, anzi una villetta, e finalmente avrebbero fatto tutti i figli che volevano.
Dopo cena, lui se ne uscì, per andare al bar come al solito. Carmelina lo strinse per le spalle e, guardandolo fisso negli occhi per almeno due minuti, gli raccomandò di tacere, non dire niente a nessuno, nessuno, nessuno. Lui sembrava essersi calmato e le promise che sarebbe stato una tomba.
Un’ora dopo, dal bar, le telefonò il cugino Salvatore, piangendo. Tra un singhiozzo e l’altro, riuscì a dirle che avevano sparato ad Antonio, lì fuori dal bar.
Carmelina riagganciò il telefono e rimase alcuni secondi immobile. Sapeva che di lì a poco, i killers sarebbero arrivati. Ovvio.
Corse a vestirsi. Afferrò la borsa e, mentre si precipitava verso la porta, sentì l’ascensore che scendeva. Evidentemente l’avevano riparato, ma loro rientrando non se ne erano neanche accorti. Presi com’erano dall’eccitazione e dalla paura, avevano fatto i quattro piani di scale tutti d’un fiato.
Aprì la porta e si affacciò alla tromba delle scale. Qualcuno stava salendo a piedi. Ovvio. Tutto come nei film, pensò, le tagliavano ogni via di fuga.
Rientrò in casa e chiuse la porta. Non c’era tempo di chiamare aiuto, tanto meno la polizia, che in quel quartiere si faceva vedere ben di rado.
Corse in bagno e prese il secchio d’acqua che usavano come sciacquone. Lo rovesciò sul pavimento, davanti alla porta di casa.
La sua mente, invece di smarrirsi nel terrore, era diventata lucida e indifferente. Come quella volta che quei ragazzi l’avevano inseguita, nei prati della campagna intorno al quartiere, quando aveva 15 anni. Lei li aveva seminati, poi era tornata indietro, con un bastone, e aveva spaccato la testa al loro capetto, un moccioso di 13 anni, più stupido che eccitato.
Questa volta però era diverso. Questi erano sicari professionisti.
Staccò i fili volanti, che collegavano l’impianto elettrico di casa a quello del condominio e li appoggiò allo zoccolo della porta.
Intanto sentì l’ascensore che si fermava al piano. E passi pesanti che risuonavano dalle scale.
Tornò di corsa in salotto e prese dal cassetto una manciata di petardi, in casa di Antonio non mancavano mai. Si appostò in cucina e attese.
La maniglia della porta ebbe un sussulto. Nel buio, sentì imprecare. Accese un petardo.
Tutto si svolse in pochi secondi. La porta si aprì di schianto, lei lanciò un petardo che esplose immediatamente. Due uomini scivolarono sull’acqua e caddero sparando, i fili della corrente caddero sull’acqua e li fulminarono.
Il silenzio calò irreale. Carmelina attese qualche secondo. Non si sentiva alcun rumore dal pianerottolo. Forse erano solo in due. Ma certamente qualcuno era rimasto di sotto, ad aspettare i compari, con la macchina o con le moto.
Si avvicinò ai sicari, scostò il filo sfrigolante con il bastone di plastica della scopa. Li smosse con vigore, ma non reagirono. Allora prese una delle pistole. Era pesante e tiepida.
Uscì sul pianerottolo, con la pistola puntata, non c’era nessuno. Si chiuse la porta alle spalle.
Scese di due piani e suonò al campanello di Rosa, la sua amica e confidente. Dopo ripetuti squilli, la porta si scostò di pochi centimetri. Carmelina entrò di prepotenza e se la richiuse alle spalle.
Rosa la guardava con occhi sgranati, che saltavano dal suo viso alla pistola. Le fece segno ti stare zitta. Si guardò intorno. Dal salotto i lampi del televisore, intermittenti, svelavano le sagome della famiglia schierata, immobile. La pubblicità strombazzava nell’aria i suoi slogan.
Andò verso la cucina, trascinandosi dietro Rosa. Aprì la finestra e guardò di sotto. Eccoli lì. Altri due, sulle moto, coi caschi in testa e i motori accesi.
Fu tentata di provare a sparargli, ma poi si rese conto che non sapeva nemmeno come puntare una pistola.
Con gesti veloci prese i panni stesi e, mentre si avviava verso la camera da letto, sull’altro lato del palazzo, li annodò più stretti che poteva.
Dalla finestra della camera si calò giù in strada. Mentre si allontanava, vide con la coda dell’occhio Rosa che ritirava i panni.
Aveva corso finché il fiato non le si era bloccato in gola. Almeno due chilometri. Poi si era gettata sul primo autobus che passava, verso il centro.
Sotto casa della zia Concetta, una macchina se ne stava parcheggiata, i due a bordo erano certamente uomini di Don Raffaele.
Doveva riuscire ad entrare, recuperare i soldi e uscire. Si appostò sull’altro lato della strada, nascosta dietro al cartellone pubblicitario della nota bevanda che mette le ali. La zia abitava al primo piano.
Accese altri due petardi e li gettò più lontano che poteva. Scoppiarono quasi all’unisono. La macchina scattò sgommando in mezzo alla strada e si allontanò nella notte.
Mentre correva verso il portone, sentì stridere le gomme, stavano girando intorno al palazzo.
Ci mise meno di un minuto a prendere i soldi e lanciarsi dalla finestra della cucina di zia Concetta.
Ma intanto la macchina era tornata indietro e i sicari l’avevano vista.
Si proiettò verso i vicoli, dove non avrebbero potuto inseguirla. Le due borse di soldi pesavano come macigni. Non avrebbe mai pensato che i soldi sarebbero diventati un problema di peso. Non per lei.
Era notte. Carmelina vagava per i vicoli con le sue borse piene di denaro. Si fermò in una pensione e prese una stanza. Il mattino dopo doveva riuscire a lasciare la città. Ma non sapeva come.
La stanchezza la fece piombare nel sonno immediatamente.
Mentre dormiva, la sua mente continuò a cercare una soluzione. Sognò di scappare, esattamente com’era successo, ripercorse ogni passo che aveva fatto. Per una strana sovrapposizione, sognò di essere lì, in albergo, addormentata.
Alle 8, come aveva chiesto, il telefono sul comodino squillò. Era ora di ricominciare la fuga.
Non si sentiva riposata, aveva dormito vestita e con la pistola a fianco. Non era dormire quello.
Per un attimo la sua mente focalizzò il viso di Antonio. Le lacrime le scorsero immediatamente sul viso. Fece qualche profondo respiro, per recuperare la lucidità e smettere di singhiozzare.
Andò in bagno e si diede una rinfrescata sommaria. Poi rinfilò la giacca di pelle e uscì.
Alla reception consegnò la chiave e si avviò verso l’uscita senza dire nulla.
Il sole la abbagliò, non aveva gli occhiali scuri, erano rimasti a casa. Si fermò a comprarne un paio a una bancarella. Era nel quartiere del mercato etnico, non si era accorta di essersi spinta fin lì, la notte prima. La paura mette le ali, altro che bevande energetiche.
Non sapeva dove dirigersi. Gli uomini di Don Raffaele controllavano certamente le stazioni, l’aeroporto, magari anche gli imbocchi delle autostrade. Tanto era tutta roba loro. Ma non poteva rimanere lì, a girare come una scema, l’avrebbero trovata in poco tempo. Dai parenti non poteva andare, non poteva farli rischiare. Ehhh… la famiglia, la famiglia...
Si diresse verso il parcheggio dei taxi. Per una volta si concesse il lusso di un taxi vero, non abusivo. Si fece portare all’altro capo della città. Appena scesa, ai margini di un’altra periferia, appena un poco più decente di quella dove abitava, l’odore della spazzatura che marciva al sole, le fece girare la testa.
Ebbe il tempo di prendere un caffè e un cornetto al bar, poi, mentre usciva, una macchina inchiodò, tre uomini la fissarono per un momento, mentre lei già si lanciava in una corsa sfrenata, oppressa dal peso delle borse. Svoltò un angolo, poi un altro e un altro ancora, continuò a correre e svoltare angoli. Ogni rumore di passi, ogni stridìo di gomme, ogni voce, la faceva scappare ancora più velocemente. Finché le gambe le cedettero e si ritrovò a cadere in un mucchio di rifiuti.
Mentre cercava di districarsi dalla spazzatura, vide la macchina degli assassini passare dall’altra parte della strada e fermarsi. S’immobilizzò, semicoperta di rifiuti, con un lavabo in braccio.
Gli uomini di Don Raffaele scesero dalla macchina e si sparpagliarono lungo la strada. Passarono e ripassarono più volte, guardandosi l’un l’altro, scrutando la strada e le poche persone che camminavano come stordite dal sole e dalla puzza dei rifiuti.
Carmelina sentiva soltanto il suo cuore pulsarle nel petto e nelle tempie, tutto era come ovattato, irreale. Rimase seduta nella spazzatura per ore, finché fece buio. Nessun camion della nettezza passò a raccogliere i rifiuti. Santo sciopero degli operatori ecologici.
Quando si rialzò, a notte fonda, dal mucchio di spazzatura, le sembrò che tutta la schifezza del mondo si alzasse insieme a lei e si mettesse a camminare con lei. La puzza che la impregnava era rivoltante, se ne rendeva conto. Evitò il più possibile ogni contatto e si diresse verso una lavanderia a gettoni. Fortunatamente era deserta. Si sfilò gli indumenti e li mise nella lavatrice, come in quella vecchia pubblicità. Ogni tanto una macchina passava rombando sull’asfalto, e ogni volta il cuore le si fermava.
Mentre la lavatrice faceva il suo lavoro, Carmelina si pulì alla bell’e meglio col detersivo, raschiandosi la pelle fino ad esserne completamente arrossata. La puzza non se ne andò completamente, ma almeno non era più così nauseante.
Si rivestì in fretta, gli indumenti erano ancora bagnati e odoravano di un tremendo mix di detersivo e spazzatura.
Si diresse verso la campagna, nella notte, niente e nessuno l’avrebbe fatta tornare in quella città, niente e nessuno.