La notte dell'Azteca

Quanti anni sono passati da quella notte del 17 giugno del settanta, tanti, i miei riccioli neri, morbidi e piccoli, sono diventati radi e bianchi, mio papà è ancora lì ad attendere un’altra notte come quella, mio nonno non attende più. Eravamo tutt’e tre quella notte ad aspettare che si compisse il desiderio di vedere all’Azteca quello che io non avevo mai visto, quello che mio padre non ricordava, era troppo piccolo, e quello che mio nonno voleva rivedere. Tre generazioni d’Italiani che aspettavano, insieme a tutti gli altri, che guardavano con gli occhi sbarrati, fissi all’orologio, arrivato all’ultimo giro, mentre un sorriso mi mordeva le labbra, c’era silenzio in tutte le case, in tutte le strade, quel biondino, dal viso anche simpatico ed allegro, dallo sguardo un po’ spento, a metà fra l’ ”Oktoberfest” e la passeggiata romantica sui ponti a Venezia, ci fermò sulla sedia, e mi regalò il sapore dell’angoscia. Ancora mezz’ora senza sapere se accadrà, ancora mezz’ora fra le ombre che volteggiavano nella stanza, fra tante paure, e il cuore che batteva più forte. Mio nonno se li ricordava i tedeschi, ed anche mio padre. Quante volte di sera, sul finire della cena, mio nonno mi raccontava le storie di quell’Italia che non avevo visto, di quell’Italia povera, e che si credeva guerriera, ma non lo era, che si credeva potente, ma non lo era, che si credeva figlia di Roma, ma non lo era. Quante sere ho passato ad immaginare come doveva essere un soldato della “Wehrmacht” sull’uscio di casa, e come doveva essere non avere nulla da mangiare. Quando scartavo il grasso dal prosciutto mi arrivava sempre la solita frase della mamma: ”L’avessimo avuto in tempo di guerra, quel grasso”. I tedeschi erano famosi in casa mia, e per la prima volta nella vita li stavo affrontando anch’io, insieme a tutti gli altri italiani, assieme a mio padre ed a mio nonno, assieme a quegli undici ragazzi, che a volte mi sembravano eroi d’Omero ed a volte pulcini bagnati ed impauriti. Il tempo sembrava essersi fermato, quella notte, sembrava tutto si dovesse concludere in quella mezz’ora, ogni minimo movimento appariva come quello decisivo e risolutivo, ogni respiro era più affannato, ogni sguardo si faceva indagare come se fosse lo sguardo di chi conosceva l’esito, ed ogni cuore disperava e gioiva. Il tempo traslava nella testa di ognuno ad altri giorni, ad altre storie, ad altra gente, ma non passava, non sembrava più essere dove si era, sembrava partire per altri luoghi.“Quanti Italiani ci sono in Germania ? Per quelli bisogna vincere.” Una frase, gridata da un balcone vicino, a rompere il silenzio, a riportare tutti a quella sera, a quel momento. Era tutto grigio, bianco e nero, noi grigi, loro bianchi, il bianco sembrava più vivo, sembrava correre più forte, sembrava  invincibile. Cominciavo a trattenere il fiato, e cominciavo a respirare dietro le spalle di Domingo, quasi a spingerlo, in quelle sue affannose ed infinite corse a rincorrere qualcuno o a scappar via. Domingo, dal viso scavato, gli occhi grandi, tutto spigoli, la barba del giorno prima, e la mano alta, a parlare, a chiamare, ad urlare, Domingo, che volava via, che sembrava non farcela più, e poi si raggomitolava e ripartiva, Domingo, che aveva gli occhi spaesati come un soldato l’otto settembre, Domingo correva per tutti, per quelli che erano lì, e per quelli che erano a casa. E quella mezz’ora diventava ogni istante più lunga dell’infinito, o più breve di un lampo, ed i pensieri viaggiavano alla stessa velocità, e le domande nella testa si facevano strane, improvvisamente mi ritrovai a pensare: “Ma anche i tedeschi sono svegli adesso, e sono stremati come noi?” E quella sera iniziai a voler bene ai tedeschi, ed a amare il senso di lealtà, e la bellezza malinconica della sconfitta. Il silenzio durava pochi eterni minuti, le urla duravano il tempo d’un respiro, c’entrava tutto in quegli istanti, anche il mio maestro che l’aveva detto, ed il maresciallo di fronte, che per lui , quello che viene, viene già è tanto. Ma per me no, per me che respiravo più forte ogni minuto che passava, per me che spingevo Domingo con lo sguardo, per me no, io volevo vedere quei ragazzi, che parlavano come me alzare le braccia verso il cielo, e gridare al mondo che eravamo vivi. Finì in un lago di sudore, finì fra tanto rumore, tante urla, tutte le auto correvano per ogni strada, senza meta, e quanti tricolori a sventolare, era la prima volta che vedevo tutti quei tricolori, e tanta gente di ogni età ballare in strada, e fare rumore con tutto quello con cui è possibile. Io no, restavo a guardare, non avevo più fiato, l’avevo speso tutto insieme a Domingo.