La piccola chiesa e mia nonna

Di fianco alla casa dove sono nato, c’è una chiesa, piccola, detta della Madonna delle mosche, non lo so se si chiama veramente così, vi era un sacerdote, alto, magro, da giovane già con i pochi capelli brizzolati: padre Roberto. Mi aveva battezzato lo stesso giorno che sono nato, a detta dei medici non sarei arrivato a sera, perché non si era mai visto un bambino di sette mesi, nato in fretta e che pesava niente, riuscire a restar vivo fino al tramonto. La chiesa è piccola, la voce di padre Roberto molto acuta e penetrante, io sedevo fra i banchi con mia nonna, la domenica mattina, ed avevo sempre paura di quelle tavole ai lati della navata, pitture che descrivevano scene violente, di uccisioni, di dolore, si notavano figure a terra morenti, ed altre figure che impugnavano spade sanguinanti e reggevano teste mozzate. La nonna, seduta in silenzio, nel suo abito scuro, con leggere decorazioni di fiori d’oro, la sua collana di perle, il fazzoletto di pizzo nero in testa, ed il libricino con la copertina di pelle nera, tenuto nella sinistra insieme al ventaglio, era però la figura che più m’incuteva paura. Era impassibile, non notava, o faceva finta di non notare le altre persone, era devotamente piegata al suo dovere di mostrare la figura di un’antica nobiltà, travolta dalla guerra, impoverita dalle tragedie del novecento, ma fiera, impassibile, quasi ad indicare a tutti che le contingenze della vita sono secondarie, quel che conta è la dignità. Il prete la conosceva bene mia nonna, sapeva che non aveva un carattere docile, la signora Raffaella Fiume Odierna era quel che si dice una donna di ferro. La funzione religiosa mi sembrava sempre interminabile, soprattutto il momento nel quale mia nonna andava a ricevere l’ostia, quella sua breve passeggiata, che a me sembrava lunghissima, che ella faceva dal banco all’altare, e poi a ritroso, sembrava il confine fra il mondo e l’eternità, la luce penetrava a strisce giallastre e toccava qualcuno o qualcosa, ed altri risparmiava, il suono dell’organo, alquanto sgraziato, rendeva quell’atmosfera pesante e lugubre. Alla fine della messa, la nonna andava a salutare il prete, si chinava appena, e gli baciava la mano, ed anch’io dovevo baciare la mano a don Roberto, solo che dovevo mettermi sulle punte dei piedi e quasi appendermi alla mano per poter sfiorare con le labbra le dita che vedevo davanti a me. Sempre, tutte le settimane, don Roberto chiedeva a mia nonna se il prossimo ottobre mi avrebbe visto nella sua scuola, mia nonna diceva di si, ed iniziava mentalmente la battaglia con il nonno che non voleva farmi iniziare la scuola dai preti. Poi uscivamo, mia nonna mi stringeva la mano con forza e c’incamminavamo verso il corso, a prendere le sfogliatelle, sempre da Carraturo, perché lei diceva che erano le più buone di Napoli, così il sole di Maggio ci coglieva improvviso, e tutta quella luce e quel vociare della Ferrovia, (piazza Garibaldi,che i napoletani chiamano sempre Ferrovia) mi metteva allegria e mi piaceva guardare i pulcinellini che vendevano i giocattolai ambulanti, quelli che a muoverli sulle rotelle che hanno sotto i piedi, battono i piatti di metallo che hanno nelle mani, ma non chiedevo a nonna di comprarlo, già conoscevo la sua risposta. Qualche volta ci incamminavamo verso piazza principe di Napoli, da Aloia, a comprare il caffè, Il negozio di caffè era magico, ai miei occhi, la luce passava fra quei cristalli azzurrini, e i chicchi di caffè sembravano un mare in tempesta quando il commesso infilava la paletta per raccoglierne un po’ da mettere nel cono di carta, seguivo quel movimento rapito, e poi la nonna, dal cartoccio, tirava fuori un chicco e me lo dava, era amaro, ma croccante, a me piaceva molto. Erano le tredici, tornavamo a casa. La domenica i nonni pranzavano da noi, anche zio Alfredo, il fratello di mia madre, a me piaceva tanto zio Alfredo, che era stato alcuni anni a lavorare in Olanda,e una volta mi portò una locomotiva in ferro smaltato, che funzionava a batteria e camminava da sola, e quando urtava un ostacolo tornava indietro e sibilava proprio come una locomotiva vera . Mio fratello era stato con mio padre dall’altra nonna, quella che abitava vicino al mare, e che lo zio, parodiando Ibsen, chiamava la “nonna del mare”. Il nonno saliva su da noi all’ultimo momento, prendeva l’Unità dalla tasca, la metteva vicino al piatto, ed iniziava a mangiare, qualche volta mi faceva una carezza e diceva: “ Sei stato a messa ? Ma perché la domenica mattina non lo portate a giocare a pallone ‘sto bambino”.