La ragazza alta

Andrà tutto bene. Le parole di tuo padre continuano a frullarti nella testa. Ti sforzi di credere che siano vere, ma non ci riesci. Nella sua voce hai sentito solo paura. La stessa paura che provi tu. Fin da quando la nave ha preso ad allontanarsi dal molo, senti il cuore agitarsi impazzito dentro il petto. Fai lunghi respiri per calmarlo, ma non basta. Guardi la gente intorno a te e ti sembra che sia felice. I bambini più di tutti. Si rincorrono sorridenti e fanno un gran baccano. Alcuni rivolgono uno sguardo tenero e incantato verso il mare, sembra quasi che lo vedano per la prima volta. Ti piacerebbe tornare ad essere un bambino. Crescere non è affatto divertente. Succedono cose molto strane. I peli iniziano a sbucare da ogni dove, ricci e bitorzoluti, e negli ultimi tempi ti è capitato di svegliarti con un impiastro bianco e denso a sgocciolare tra le gambe. Non è divertente. I bambini hanno la fortuna di non capire. Ecco. Ecco cosa vorresti più d’ogni altra cosa. Vorresti non capire. Avresti creduto alle parole di tuo padre, se fossi stato un bambino. E quel sorriso ti sarebbe sembrato quello che tuo padre voleva ti sembrasse: un sorriso di conforto. Il guaio del crescere è proprio questo, che ti accorgi di tutto, anche di quelle cose che sarebbe meglio restassero un mistero. Andrà tutto bene, ti ha detto, e tu non gli credi. Hai capito che in realtà non lo sapeva neppure lui come sarebbe andata, e allora sei venuto qua fuori e hai pianto, senza che lui ti vedesse. Gli avresti spezzato il cuore, se ti fossi lasciato vedere. I bambini continuano a rincorrersi. Talvolta si fermano, scalmanati, recuperano il fiato. Un bambino non si sarebbe lasciato intimorire da una nuova città, dal fatto di avere dei nuovi compagni di scuola. Tu invece te la fai addosso. E ogni tanto chiudi gli occhi e t’immagini che la nave cambi rotta e ritorni indietro. Un altro guaio del crescere è che cominci ad avere un mondo interiore tutto tuo, un mondo talmente strano da non poterlo condividere con nessuno. Hai paura anche di questo, perché sei convinto che i tuoi coetanei ti prenderebbero per matto se solo sapessero le cose che pensi. Cominci a sentire freddo. Ti fai largo tra la gente per rientrare da tuo padre. Poi vedi qualcosa che ti è familiare, un qualcosa di già visto e rivisto mille volte. Una ragazza. Una ragazza alta. E allora cominci a far vivere il tuo mondo interiore. E rimugini silenzioso sul fatto che le ragazze alte hanno qualcosa in più, un’imponenza che fa sprofondare chi le guarda in un oceano di soggezione. Questa poi, ha un’aria davvero solenne. Guarda il mare mentre il vento le scuote i lunghi capelli biondi e crespi, ma in realtà, tutto questo, pensi non sia altro che un’impressione. In realtà, per come la vedi tu, è il mare a guardare la ragazza. Stessa cosa vorresti dire per le spume bianche. Pensano tutti che a generarle sia il passaggio della nave, ma non è così. È la ragazza la vera artefice: un po’ come se quelle effervescenze fossero il solo segno tangibile che il mare abbia in dote per comunicarle che si è innamorato di lei. Ecco. Ecco un esempio del tuo mondo interiore. Ti dici di avere solo dodici anni, di non poter fare certi ragionamenti. E ti senti triste, destinato ad accumulare questi pensieri nel cervello, convinto che un giorno o l’altro scoppierà e che tu morirai. Per l’ennesima volta, ti chiedi con chi potresti condividere queste impressioni e concludi di non avere molta scelta. Questa storia della ragazza alta, ad esempio: se la riferissi a tuo padre, sei sicuro che ti guarderebbe comprensivo, non escludi che potrebbe arrischiarsi a dirti che il tuo è un discorso straordinariamente intenso e profondo… ma poi, alla prima occasione, racconterebbe a qualcuno la sua inquietudine, sottovoce, e considererebbe l’idea di farti vedere da uno in gamba, il migliore sulla piazza, possibilmente. Non lo biasimi. Se c’è uno da biasimare, pensi che quello sei certamente tu. E comunque, sempre riguardo alla condivisione, i tuoi amici, per quello che ne sai, avrebbero reagito ancora peggio. Avresti rischiato lo sberleffo della scuola intera, personale non docente compreso, per quello che ne sai. Non ti lamenti, comunque. Non sei uno di quegli adolescenti che per manifestare il loro disagio si mettono a dare spettacolo tagliandosi le vene ai polsi o ingolfandosi la gola di psicofarmaci. Non rientra nel tuo stile, se mai un ragazzino di dodici anni possa avere già un suo stile. E poi credi che tutti, più o meno, abbiano una propria interiorità da tenere custodita. Per cui no, pensi che sarebbe inutile farne una tragedia. Inutile e dannoso.
La ragazza alta dai capelli lunghi e biondi e crespi che mette soggezione e che ha già rapito il cuore dell’oceano, ora cammina, con passo lento. La testa bassa. Una mano a scostare una ciocca di capelli dagli occhi. Ti pare proprio di conoscerla. Ha un’aria così familiare! Devi ammetterlo: ti senti come non potessi più fare a meno di guardarla. Non sapresti dire precisamente, ma è come se il solo fatto di guardarla ti mettesse pace addosso. Ecco un’altra di quelle cose che sarebbe preferibile tenere sotto chiave. Ti ripeti che farne una tragedia sarebbe inutile e dannoso. Ma adesso hai come un’illuminazione. Tutta questa interiorità inespressa, ora che ti viene in mente, non si limita soltanto ad imbottire il cervello col rischio che questo salti per aria. No. Ancora di più, per quello che ne sai, contribuisce a determinare quella spregevole sensazione con la quale non hai ancora imparato a convivere, quella sensazione alla quale sei certo che non ti abituerai mai: parli di questo fatto di sentirti solo. Sei confuso. Perché sai che questa sensazione, nella realtà concreta delle cose, non ha nessuna ragione d’esistere: hai un padre affettuoso, un abbondante numero di amici con i quali hai trascorso momenti allegri e importanti, un cane randagio a cui hai portato i rimasugli delle tue cene, un vecchio vicino di casa che ti ha preso a cuore e ti ha consigliato un mucchio di libri da leggere per le vacanze estive; non c’è davvero nessuna ragione di sentirti solo. Eppure, continui a pensare che potresti conoscere e diventare amico di ogni essere vivente su questa terra che continueresti a sentirti solo sempre e comunque. Vorresti piangere ancora, come dopo le parole di tuo padre. Sei certo che l’unica soluzione sarebbe trovare qualcuno a cui poter dire senza vergogna una cosa tipo: “Adesso devo seguire quella ragazza alta eccetera perché quella lì, non so come, mi mette pace addosso”. Allora sì che questa spregevole sensazione di solitudine si attenuerebbe. In fondo non credi di chiedere molto. Ti basterebbe un cervello che riesca a recepire certe tue follie come cose normali e che ‐ perché no? ‐ te ne fornisca altrettante, così che possa sentirti simile a qualcuno, un tipo comune, uno come gli altri. Andrà tutto bene. Le parole di tuo padre fanno un breve giro e ritornano alla tua mente, come una manciata di mosche dispettose. I bambini hanno smesso di giocare. Alcuni piagnucolano per richiamare l’attenzione dei genitori. Ti scopri invidioso. Ti viene voglia di squartarne uno e scippargli il cervello. Sarebbe fantastico avere il cervello d’un bambino. Riusciresti a convivere col tuo mondo interiore senza provarne vergogna, crederesti alle parole di tuo padre, eviteresti di congetturare sulla ragazza alta. Ti guardi intorno e non la vedi più. Il cielo si è fatto scuro e pieno di nubi grigie e bitorzolute. I passeggeri della nave rientrano spintonandosi, come se il cielo che diventa scuro e un improvviso acquazzone fossero diventati la medesima cosa. La voce di tuo padre ti chiama e ti dice di rientrare, ma fai finta di non sentirlo. Per qualche strana ragione sei convinto che la ragazza sia rimasta fuori. Hai bisogno di trovarla. Raggiungi la poppa della nave e la trovi lì. Rivolge lo sguardo all’oceano sotto di lei, e a quelle spume, come volesse farsi desiderare ancora un po’. Un tuono improvviso illumina il cielo per un istante. Ecco l’acquazzone, stavolta è arrivato per davvero. Te ne stai sotto la pioggia, fradicio, a guardare la ragazza alta che adesso si volta. Lei non si è ancora bagnata, com’è normale che sia. La pioggia le cade addosso, ma lei non si bagna, rimane asciutta. Il viso, i capelli, il cappotto nero nel quale è avvolta, tutto resta integro.
“Vorrei essere come te”, le dici.
“Ma tu sei me”, ti risponde.
E allora sussurri che lo sai e continui a bagnarti. E intorno a te ci sono i tuoni, la ragazza alta, la voce di tuo padre che ti chiama, e ci sei tu, tu che ti senti così solo. Chiudi gli occhi. Andrà tutto bene, dici.
Andrà tutto bene.