La strada

Sto esitando.
Le tue sono narici fumanti e non c’è fremito in questa mano che di sghimbescio si nasconde nella giacca.
Anche tu sei storto e contorto, penso.
Accarezzo un copriletto che ha perso i fiori o forse si sono dimenticati di stampare il pile.
Oppure sono solo le pile della radio che si stanno scaricando, mentre la voce scarica l’eterna ammonizione di panico.
Sei contorto e semini paura e informazione tartassante: ma non mi freghi.
Le tue mani stanno accarezzando l’ombra di una vita mai vissuta.
La tua voce sta sfiorando il tempo che si muove dentro un controcanto.
Due caffè farebbero al caso mio!
Nero, fumante e caliente; possibilmente da seduta.
Dalla tua bocca il fumo esce scuro, ma non vedo sigarette tra le dita.
Ora la mano è serrata e sono alla finestra a immaginare la strada piena di milizia.
Chissà se qualcuno ricorda l’odore del coprifuoco, la paura del crimine, e la polvere sulla scarpa di una città che non conosco.
La strada è grigia e non ha pensieri, non mi vede e non ha voglia di entrare nei miei occhi.
La strada esiste perché la vedo. La polvere c’è perché io la invento.
La miseria ha il profumo della morte e non esce mai di casa.
Lei esiste e non ha bisogno di uscire dalla penna per essere reale.
A chi giova la miseria lo sappiamo. Lo abbiamo sempre saputo.
La sabbia è alta per il collo dell’uomo moderno. Homo sapiens praticamente cretino.
La miseria ha il colore dei soldi prestati a usura.
La miseria ha la pancia gonfia d’aria e i denti neri.
Oggi stai esitando.
Hai sempre avuto paura del dentista: duemila euro per dieci otturazioni e i denti restano marci chè l’interesse ha un tasso alto persino per restare vivi.
La miseria ha ossa sottili e occhi scuri dilatati dalla fame e chiusi dal fango.
La miseria ha un vestito nero da sera e smeraldi al pollice della mano destra.
Anche la sinistra oggi ha un diamante sull’indice della mano.
La miseria è ciò che resta in silenzio sulla tua massa scura che mi appare da lontano.
Stai delirando.
La tua bocca ha parole fatte di legno di frassino e scarpe di cemento e un cappotto nuovo, e non posso coprire la vergogna con un telo sottile come un velo che non lascia in trasparenza manco la compassione.
Hai la testa rivestita di panno ed io ascolto il notiziario della sera.
Sto guardando gli occhi del potere, sto leggendo labbra bugiarde.
Non sto calpestando una grande merda eppure sento un tanfo e uno schifo che sale dalle latrine umane.
Sto guardando perplessa l’ennesimo dramma artificialmente artificioso, e penso che non c’è nulla di nuovo in questo giardino delle rette parole.
Sto ascoltando la giustificazione del tempio, la motivazione dello stato, l’abnegazione di un torrente in piena e vedo la generosità altruistica nata nel fango di chi sa sguazzare.
Stai tergiversando sulle tue carenze.
Stai decidendo per chi non ha mai avuto strumenti per stabilire e fronteggiare la paura.
Io ti guardo e mi rigiro e sciolgo lo zucchero dentro l’amaro traducendo l’alba sulle dita di una mano e pago con moneta corrente ciò che senza prezzo resta e senza speranza.
Tu che sei solo stato. Un semplice sostantivo che non sa sostenere nulla.
Sei un modo di essere. Condizione e classe sociale. Status e categoria. Professione e grado. Impero, repubblica o monarchia. Amministrazione e burocrazia.
Apparato militare.
Ipocrisia.
Sto esitando, sto delirando.
Sto passeggiando in quartieri che hanno altri nomi.
Sto passeggiando con la pupilla annerita dal fumo e dal mare che s’incendia lontano.
Ma non ci sono solo i soli a tramontare.
Forse uscirà ancora una lacrima dalla congiuntiva del mio occhio e vedrò chiaramente aprirsi la tua cataratta.