La zona del silenzio

Saul è un legale che aiuta i criminali, per lo più dei ruba galline, ma è fondamentalmente una persona di animo buono. Non fa quel che fa per un imbarazzante cattivo gusto. Ha bisogno di soldi. Come tutti, del resto. Può sembrare che abbia un perverso senso dell’onore ma dopo quel che ci ha detto Ernie è la nostra sola speranza per fare dei passi avanti nella nostra indagine. Il piano che abbiamo elaborato è semplice. Che cosa fai se hai bisogno di un avvocato? È semplice. Gli telefoni per fissare un appuntamento nel suo ufficio.
Lo chiamo.
Fisso un appuntamento.
Ci rechiamo da lui in tre: il Professore, Jonathan Perry e io. Lo stanzino che lui chiama il “Quartier Generale” è di dubbio stile e sembra uno di quelli nei quali Humphrey Bogart recitava quando indossava i panni di Philip Marlowe. Sulla parete dietro le sue spalle troneggia un quadro (appeso male) con un dipinto dai colori molto accesi che ritrae una giunonica donna intenta a raccogliere fiori in un prato verde.
Saul non è noto a tanti per il suo gusto nell’arredamento e tanto meno per la sua veloce parlantina.
Quest’ultima cosa non conviene dirgliela.
Si offenderebbe.
L’uomo ha carattere.
Non potrebbe fare il suo mestiere, altrimenti. A proposito, il legale è un vero e proprio Principe del Foro e non sarà affatto facile convincerlo a fare ciò che vogliamo chiedergli. La carta dell’FBI e della causa di Sicurezza Nazionale non servirà a molto.
Credo.
«Vi aiuterò...».
Rimaniamo tutti e tre basiti alle parole di Saul.
«...a una condizione».
Ora riconosciamo la vecchia volpe con in bocca il corpo della sua preda ancora calda. Il buon vecchio Saul Goodman non è un pivello pisciasotto che si spaventa di un distintivo o si intenerisce per una nobile causa. Ci chiederà sicuramente qualcosa di grosso. Conoscendolo, sarà qualcosa di molto, molto grosso.
«Diciamo che se io vi aiuterò c’è un certo lavoretto che voi potete fare per me».
«Sono un agente dell’FBI». Replico quasi stizzito. «Non posso trasgredire la Legge».
«E chi ha mai detto che dovete farlo?». Il sorriso di Saul si fa più scavato e sottile. Gli occhi si stringono e la sua voce diventa quasi stridula. «Io e Kim… abbiamo… come dire...».
«Litigato. Sforzati un po’, Avvocato. Ci passiamo tutti da lì. Prima o poi». Ribatto prontamente, sollevato per quanto sto ascoltando e con una gran voglia di ricacciare in gola all’uomo il suo sorrisetto malizioso.
«Giusto. Litigato». Saul mi squadra come fa un venditore di automobili non appena un cliente entra in concessionario. «Litigato» l’Avvocato ripete volutamente questa parola «per questioni private. Tutto ciò che voglio è che alla fine di tutto voi andiate da lei e che… beh… decantiate un po’ le mie gesta».
«Un po’… basta?». Aggiungo con una buona dose di sarcasmo. Nathan mi lancia un gelido sguardo.
«Così. Per ammorbidirla un po’» e mi guarda fisso negli occhi come ad attendere la mia approvazione. Non fiato e non muovo un ciglio. Non sono troppo stupito per la richiesta fatta da Saul. Stavo dimenticando che sono due le cose che convincono un uomo: i soldi e le donne. Anche un Avvocato scafato come lui non si allontana troppo da questa regola. Anzi…
«Va bene. Faremo del nostro meglio». Esclama il Professore alzandosi e salutando. «Siamo d’accordo, allora?». Conclude prima di voltarsi.
«Signori», Saul si rivolge a me, «con questa stretta di mano» che si affanna a porgermi, «state facendo il miglior affare della vostra vita». La vecchia volpe è sempre modesta quando ottiene ciò che vuole. «Qual è il piano?» ci domanda.
Saul arriva all’ora prefissata a una tavola calda sul Brick Boulevard. Ordina del bacon, pane bianco tostato e del caffè. La cameriera è una donna di mezz’età, cicciottella, con un grembiule bianco indossato sopra una divisa di color aragosta. Non soddisfatto, Saul aggiunge anche una doppia fetta di torta di mele. La donna, invece, non appunta l’ordinazione e dal bancone rivolta verso la cucina comunica a voce alta col cuoco, masticando vistosamente una gomma con la bocca spalancata. Il servizio lascia alquanto a desiderare. Se solo Gordon Ramsey fosse passato di qui pensa Saul.
Come da accordi, il nostro caro avvocato estrae una cartellina, un foglio bianco e una penna dalla sua borsa da lavoro e incomincia a scriverci sopra. Il suo sguardo si fa intenso. Dopo un minuto la fronte gronda di sudore. Poco dopo, la cameriera arriva al tavolo con il vassoio del cibo. Il viso di Saul si trasforma in una maschera sinistra. La donna si allontana spaventata. L’Avvocato scrive sul foglio queste parole: “la zona del silenzio”. Poi, comincia a rilassarsi e incomincia a mangiare, come se niente fosse. Noi controlliamo ogni sua mossa dalla nostra auto nel parcheggio antistante.
Trascorrono all’incirca una ventina di minuti e un giovane con una felpa monocolore entra nel locale, il cappuccio in testa. Una volta all’interno, si guarda attorno come per cercare qualcuno. Che non trova. A quel punto si siede al bancone ed estrae il suo smartphone. La vetrata esterna del locale ci permette di vederlo, anche se di spalle. Saul percepisce qualcosa e smette di bere il caffè, prende nuovamente la penna e scrive ancora sul foglio. Pochi secondi dopo che lo ha fatto, il giovane ha un sussulto e si guarda ancora attorno. Si alza e si dirige verso Saul guardandolo fisso. L’Avvocato sorseggia con noncuranza il suo caffè. Il giovane si ferma davanti al tavolo di Saul, sorpreso nel non vedere un tablet, uno smartphone o altro e rimane interdetto.
«Figliolo… ti serve qualcosa?» domanda Saul.
Il ragazzo rimane in silenzio, stupefatto, per alcuni secondi, poi, si tira fuori dall’impiccio. «Cercavo il bagno».
Saul allunga il braccio e indica il cartello qualche metro dietro di sé.
«Grazie, grazie...» risponde sinceramente impacciato il giovane.
«E lasci pulito come trova» urla la simpatica cameriera del locale che deve aver fatto lo stesso corso di buone maniere di Donald Trump.
Saul fa il segnale convenuto ed entriamo anche noi nel locale. Ci dirigiamo in bagno e anche a noi tocca ascoltare le avvertenze della cameriera. Da vicino, la voce stridula e il suo atteggiamento sboccato è ancor più fastidioso.
Entriamo.
Bussiamo.
«Occupato» ma sentiamo i delicati rumori di uno smanettare su smartphone. Dopo qualche decina di secondi si decide a tirare lo sciacquone. La cameriera sarà contenta. Il giovane non è entrato lì che per comunicare con i suoi amici. Quando apre la porta faccio appena in tempo a vederlo che Nathan lo afferra e lo schiaccia contro il muro. L’ex poliziotto non è rapido. Di più.
«Sappiamo che sei un hacker di Madame Redfern» esclama Jonathan con voce ferma, roca e quasi bisbigliando. «Adesso ti dico cosa faremo. Tu verrai con noi nella nostra auto e parleremo un po’».
«Chi siete? Io non so niente» sbotta mentendo spudoratamente.
«E piantala. Non ti vogliamo fare del male». Le mie parole sembrano calmarlo un po’.
Siamo in tre e fisicamente ben allenati. Non ci vuole un genio per capire che deve seguirci senza fiatare. Lo accompagniamo all'auto. Guida Andrew e ciò significa che quattro ruote morderanno l'asfalto fin quasi a sgretolarlo. Non c'è molto traffico e passano solo pochi minuti prima che possiamo chiuderci una porta dietro le spalle.
La nostra base è una vecchia rimessa che la polizia utilizza per gli interrogatori che bisogna tenere nascosti o per altre operazioni “poco pulite”. L'arredamento non è un granché ma tutto ciò che ci serve sono alcune sedie, un tavolo, una presa di corrente e la linea telefonica. Robin vorrebbe condurre la nostra indagine in modo del tutto personale ma Jonathan ha un modo tutto suo di controllarlo. L’ex poliziotto ha un ascendente su tutti noi e sa farsi ascoltare. È lui a parlare per tutti.
«Abbiamo bisogno di Madame Redfern per capire cosa c'entra la Zona del silenzio con una nostra indagine». Il giovane non pronunzia alcuna parola ma con un gesto del capo e degli occhi chiede se può sedersi e usare il suo smartphone. Nathan glielo concede. Il giovane estrae dalla tasca della sua felpa un cavetto di alimentazione che si affretta a inserire nella presa di corrente e nel suo smartphone. Smanetta con una velocità sorprendente per alcuni minuti.
Saul, in silenzio e con estrema lentezza, prende una sedia e la appoggia in terra davanti al tavolo. Si siede davanti al giovane ed estrae i suoi fogli bianchi e la penna. Tamburella sul tavolo di legno con le dita. Continua a mantenere il contatto visivo con gli occhi del giovane che, invece, non lo degna apparentemente di alcuna attenzione.
Questa situazione di apparente stallo dura ancora per qualche minuto e, poi, accade qualcosa di strano e incredibile. Le luci della stanza si spengono. Non faccio in tempo a correre verso la porta nel buio più completo che la situazione è già cambiata. Le luci si sono riaccese e voltandomi verso il tavolo scopro che questa volta Saul e il giovane si guardano fissi negli occhi. Passano pochi istanti e tutti i cellulari che abbiamo in tasca squillano contemporaneamente. La sorpresa ci blocca e tardiamo a capire cosa sta succedendo ma quando l’Avvocato scrive qualcosa sui fogli e gli squilli si zittiscono allora lo intuiamo.
Lo sguardo del giovane si fa più scuro e il volto scavato per lo sforzo, la sorpresa, il panico o la collera. Non smette un solo istante, però, di usare i polpastrelli sul suo smartphone. In risposta, sentiamo sirene di allarme provenire dall’esterno. Sembra che ogni sistema di allarme nel raggio di un chilometro si sia messo in funzione. Con calma imperturbabile, Saul scrive ancora sul foglio davanti a sé e i suoni cessano di trapanarci le orecchie. È veramente abile il buon vecchio Avvocato. Non ho idea di cosa stia facendo ma so che sta funzionando alla grande. Trascorrono ancora pochi istanti e sempre dall’esterno giungono rumori di scontri di auto. Non è difficile comprendere quanto sta succedendo. Qualcuno ha spento i semafori agli incroci della zona. Gli scontri tra auto producono i suoni terribili che ascoltiamo impotenti.
Tutti, tranne Saul, ovviamente.
La sua mano destra impugna nuovamente la penna e alcuni istanti dopo la situazione sembra ristabilirsi. A questo punto è l’Avvocato a giocare d’anticipo e il giovane cambia espressione e, per la prima volta da quando lo abbiamo trasportato contro la sua volontà nella nostra base, percepisco in lui una seria preoccupazione.
E inizia a parlare…
«No, no, no» balbetta. «Che sta succedendo?».
«Semplice. Ti ho chiuso l’apparecchio» bisbiglia Saul sporgendosi sul tavolo verso il giovane.
«Ma come hai fatto? È impossibile. Mi state prendendo per il culo. C’è qualcun altro con un pc in questa stanza». Il giovane si alza dalla sedia di scatto. Si guarda intorno, poi, afferra i fogli di Saul, li palpeggia per un po’. Il suo sguardo ritorna a osservare la stanza senza trovare, però, ciò che la sua razionalità lo porta a pensare debba esserci. Per tutta risposta, l’Avvocato prende altri fogli bianchi dalla sua cartellina e scrive altre serie di lettere e numeri e lo smartphone del giovane inizia a squillare. D’istinto, tutti guardiamo Saul che ci fa cenno che la situazione è completamente sotto il suo controllo.
«Pronto?». Dall’altro capo del telefono, qualcuno si deve essere proprio arrabbiato perché nonostante il giovane cerchi di nasconderlo udiamo degli improperi che non ripeteremmo nemmeno se qualcuno davanti ai nostri occhi buttasse un disco dei Led Zeppelin in un tritarifiuti. Passano alcuni secondi. Il giovane, forse conscio dei nostri pensieri, si decide a coprire lo smartphone con la mano allo scopo di ovattare i suoni che sta emettendo.
Saul scrive ancora sul foglio e la telefonata s’interrompe. Il viso del giovane si colora di un bianco più puro di quello che usano per verniciare i muri delle stanze negli ospedali. L’Avvocato non stacca lo sguardo dal foglio e da ciò che sta scrivendo fino a quando non squilla il suo cellulare. Per nulla preoccupato, attende parecchio prima di rispondere. Poi, quasi con aria seccata, lo fa.
«Pronto, Jeff?». Il pallore sul viso del giovane, non so come, s’imbianca ancor di più. «Come so che ti chiami Jeff?». Il buon vecchio Saul torna a giocare al gatto col sorcio ben stretto in bocca. «Nello stesso modo grazie al quale so che hai appena telefonato a Brian Douglas Wells oppure lo dovrei chiamare col suo nickname: pizzaman?».
Silenzio.
Saul posa il cellulare sul tavolo.
Lo smartphone del giovane squilla ma lui non fa in tempo a rispondere perché l’Avvocato interrompe la telefonata scrivendo qualcosa su quei magici fogli. Questo siparietto si ripete per altre tre volte.
Saul sempre con glaciale calma scrive ancora.
Questa volta è il suo cellulare a squillare. L’Avvocato risponde subito dopo il primo.
«Adesso ti dico dove mi trovo. Ti aspetto qui tra venti minuti. Non tardare. Ho pochissima pazienza» mente ma del resto è cosa nota per chi svolge la sua professione. Il Professore, Andrew e io ci guardiamo increduli. Robin ha il solito sguardo da pazzo. Jonathan appare un bronzo di Riace e non lascia trasparire alcuna emozione. Dai rapporti che ho letto su di lui ho capito che ha vissuto parecchie avventure straordinarie e pericolose. Quello che ci è capitato negli ultimi giorni deve essergli parso poco più di una passeggiata.
Aspettiamo il termine dell’ultimatum dato da Saul quasi tutti in silenzio. L’unico che biascica qualche parola è il giovane che adesso sappiamo chiamarsi Brian Douglas Wells o pizzaman. Gli sarà sembrato fico darsi un simile nickname. Personalmente, ritengo sia stupido essere ricordato così. L’uomo della pizza. È stupido avere un soprannome come questo. Del resto, anche il giovane non mi sembra la persona più intelligente di questo mondo.
Robin Pidgeon è seduto su una sedia e ticchetta sul muro con le dita. Andrew sta leggendo degli SMS sul cellulare. Il Professore ha socchiuso gli occhi e secondo me sta appisolandosi. Jonathan è il solito blocco di ghiaccio. Io tento di ingannare l’attesa cercando di capire che cosa Saul abbia scritto su quei fogli bianchi ma non leggo alcunché. Sembra che il nostro buon Avvocato abbia “resettato” tutto. Guardo l’orologio. Manca un minuto allo scadere dei venti minuti. Troppo poco per scomodare Carole con una chiamata, troppo per aspettare comodamente seduto sulla sedia. Mi alzo e mi avvio verso la porta quando sento bussare sulla serranda. Tesi come corde di un violino appena accordato, ci prepariamo per incontrare gli sconosciuti. Saranno certamente più di uno. Con quello che ha combinato loro Saul non si fideranno a presentarsi da soli. A un cenno di Jonathan e con il “ferro” di Andrew a coprirmi nel caso siano così pazzi da sparare a un agente dell’FBI, apro la porta, avanzo di pochi passi, alzo la serranda della rimessa. Con la coda dell’occhio scorgo il riflesso dell’arma del mio secondo da un lato e dell’argentea borchia della cinghia dei pantaloni di Nathan. Sono in tre. Due ragazzine che hanno ancora i brufoli e un ragazzo non molto più vecchio con un paio di occhiali dalle lenti così grosse che potrebbero essere scambiate per due sottobicchieri per bottiglie di Cointreau.
«Entrate» cerco di essere rassicurante, «non abbiamo intenzione di far del male a nessuno». Il ragazzo mi sembra bofonchi qualcosa che non riesco proprio a comprendere. Una volta dentro, chiudo la serranda e li accompagno nella stanza dove si trova il loro compagno sotto lo sguardo vigile di Andrew e Nathan. Una volta fatti accomodare sulle sedie è il Professore a prendere la parola e a spiegare chi siamo e che cosa vogliamo da loro. Ogni tanto tossisco per ricordare al nostro alleato che alcuni argomenti vanno trattati con molta cautela perché coperti dal segreto istruttorio ma con tutto ciò che ho visto sino a oggi i miei superiori saranno sicuramente indulgenti su questo genere di cose.
«Vi aiuteremo» esclama arrossendo e rassicurandoci una delle due ragazzine. Evidentemente, tra i tre lei è la più autorevole tanto da poter parlare a nome di tutti.
«Io voglio sapere come ha fatto» lamenta il giovane pizzaman. Prima che io o Nathan possiamo replicare è Saul a zittirci.
«Hai trecentosettantacinque multe non pagate per divieto di sosta. Credevo non avessi nemmeno l’età per la patente ma mi sbagliavo» puntualizza l’Avvocato. Si mette una mano in tasca ed estrae un biglietto da visita un po’ spiegazzato. Il giovane non pone la dovuta attenzione a questo particolare. «Sono un Avvocato. Se dovessi avere problemi con la Polizia» strizza l’occhio verso Andrew e me «chiamami pure a questo numero. Ci conto» e gli afferra la mano destra per stringerla come se avessero appena firmato un contratto.
L’uomo è furbo oltreché dannatamente abile con l’informatica. Lasciamo andare i ragazzi. Ci prendiamo una pausa dalle indagini. Madame Redfern ci ha dato la sua parola che in un paio di giorni ci dirà qualcosa. Ci darà una traccia da seguire. Non ho idea perché questo maledetto lavoro non possa farlo direttamente il buon vecchio Avvocato. Forse ha a che fare con la sua scarsa attitudine a fare un lavoro pulito o forse perché non sapendo quali forze dobbiamo affrontare è meglio che il nostro spietato nemico creda di avere contro un gruppo di ragazzini cresciuti a corn flakes e marshmallow piuttosto che una risorsa come Saul. Comunque, un paio di giorni di riposo con i nostri cari non può che farci del bene.
Le risposte sulla Zona del Silenzio le avremo.
Dopo.
In un modo o nell’altro. (Tratto da Anger'n danger).