Mi nutro di poesia

Io e Diana ci siamo conosciute tramite un blog, il mio blog 'Il mondo delle fate', dove un tempo andavo a racchiudere i pensieri per cercare di proteggerli dal resto del mondo, con uno sfondo rosa pieno di stelline e farfalle dalle ali colorate. L'avevo scelto per contrastare tutto del mio reale, fatto invece, ormai solamente di tristi scale di grigi.
Lei era arrivata, senza preavviso, in un giorno nero qualunque e mi aveva lasciato un commento sotto ad una delle mie poesie e da lì eravamo diventate amiche.
Ci piaceva incontrarci in quello spazio un po' segreto, un po' misterioso, dove ognuna di noi poteva dire tutto all'altra senza sentirsi giudicata. Senza l'immagine precisa dei rispettivi corpi. Senza una vera identità. Questo ci rendeva libere di essere realmente noi stesse, di confidarci e aprirci in maniera pura, semplice, disinibita, anticonformista.
Non le avevo detto subito della mia malattia perché, anche se la sentivo, in un certo senso. molto vicina a me, temevo non la potesse capire.
Ho sempre pensato questo, che solo i mali comuni possono essere scambiati e compresi, e allora restavo sulle difensive, seppur sentendomi totalmente indifendibile. Poi un giorno mi aveva iniziato a parlare di una dieta che stava seguendo da un po' di mesi, come una cura miracolosa per l'anima. Mi parlava di energia, una totale forza che sentiva esploderle dentro ad ogni cibo che non mandava giù e allora mi ero preoccupata.
In un certo senso, mi ero sentita in dovere di avvisarla. Di farle sapere che togliere troppo ad un fisico è pericoloso, perché dopo un po' il vuoto diventa ingestibile e si impossessa di ogni sua parte. Completamente.
“Diana, ascolta, devo dirti una cosa. Una cosa di cui non parlo quasi mai con nessuno”. E avevo iniziato a raccontarle la mia storia. Senza darle il tempo di interrompermi perché se mi fossi fermata, forse non avrei ricominciato a parlarne più.
Avevo iniziato da colui che un giorno aveva deciso di regalarmi un disagio, una pena per tutta una vita. Una malattia devastante.
Un uomo viscido come pochi, che mi aveva adescata ai bordi di una strada tanti anni prima e mi aveva invitata a salire in macchina.
“Vieni piccola, non avere paura, ti do un passaggio e ti riporto a casa, non vedi come piove?”.
E io da brava, ingenua bambina avevo ubbidito e mi ero fidata. Non ricordo nemmeno più perché mi ero ritrovata da sola, così piccola, per strada, sicuramente aspettando qualcuno che aveva tardato troppo ad arrivare a prendermi.
Ricordo però le mani di quell'uomo sul mio corpo, la sua barba contro la mia bocca e il mio disgusto, il mio terrore. No, in realtà non ricordo più nulla di quel giorno, perché fa troppo male tenerlo dentro alla testa e crescerci.
È il mio corpo a non riuscire a liberarsene. Quando non mi riportano in clinica faccio finta di essere una ragazza sana, mangio insieme agli altri e non desto sospetti, perché, negli anni, ho imparato anche ad essere furba. Poi vado in bagno e senza far rumore vomito tutto. Due dita in gola e tiro fuori il dolore. È il mio corpo in realtà che vuole spingere fuori lo sporco che sente e che non riesce a lavare via. Più via da quel giorno, anche se io davvero credo di averne smarrito la memoria.
Oggi Diana viene a trovarmi e quando la vedo sulla porta, subito mi sento smarrita. Non so bene come comportarmi. Non so nemmeno cosa provare, se vergogna per come sono e per dove mi trovo oppure semplicemente gioia per l'affetto che mi inonda quando mi viene incontro e mi abbraccia come se ci conoscessimo da una vita.
In realtà è la prima volta che ci incontriamo e siamo entrambe parecchio emozionate.
La camera è colorata dai vari peluche che mi hanno regalato e anche dalle mie poesie, quelle che tengo scritte su carta da lettere rosa e unite da un laccetto di raso. Un po' sgualcite,  stropicciate dalla vita ma decisamente autentiche.
Diana si siede sul letto accanto a me e io glie ne leggo alcune. In particolare le ultime che ancora non conosce perché non ho avuto modo di pubblicarle online.
Le mie parole le piacciono sempre e dice che sono molto brava. Non so se lo pensa davvero ma mi fa piacere avere i suoi complimenti. Poi viene attratta dal mio libro preferito, quello da cui non mi separo proprio mai: 'Il piccolo principe'.
Lo prendo e le leggo una frase anche di quello:
'Non ti chiedo miracoli o visioni, ma la forza di affrontare il quotidiano.
Preservami dal timore di poter perdere qualcosa della vita.
Non darmi ciò che desidero ma ciò di cui ho bisogno.
Insegnami l’arte dei piccoli passi.'
Anche io vorrei imparare a compiere piccoli passi e vorrei avere la forza di affrontare le giornate buie, quelle in cui la mia testa impazzisce, senza dovermi imbottire più di 'Xanax' o di qualche altra pastiglia che spacciano come miracolosa.
Sono costantemente in cerca di affetto. Di abbracci. Di sorrisi sinceri.
È quello che il mio corpo ora chiede e Diana lo sa. Lei di abbracciarmi non si stanca. È qui, seduta accanto a me e non mi lascia più. Continua a dirmi che sono bella, ma io so di non esserlo. Mi sento troppo goffa, inadeguata. Troppo rotonda. Troppo storta.
Lei invece lo è davvero, bella nella sua semplicità, nel suo corpo esile ma sano. Nei trecento chilometri che ha fatto per raggiungermi in questa prigione dove spesso mi sento molto più al sicuro che a casa mia. Dove tutti si prendono cura di me, cercando di tenere continuamente ogni dolore sotto controllo, passando per le visite e per assicurarsi che mangi e che non commetta sciocchezze.
Qui ho tante amiche, logorate sia dentro che fuori proprio come me, e non vorrei lasciarle mai.
L'amicizia è il bene più bello che ho. Quello dove mi aggrappo per fuggire alla mia vita in difetto.
“Aurora vieni dai, è l'ora dello sciroppo”.
Mi chiamano per introdurre nel mio stomaco un liquido denso, in grado di dilatarlo, di creare spazio per il cibo che non amo ingoiare. Per le patate lesse che mi daranno più tardi, per cena, cercando di guarirmi.
Quando sono qui non oppongo resistenza a nulla. Penso davvero di farcela e che sia l'ultima volta, poi quando mi dimettono è sempre la stessa storia, alla prima delusione ricomincio.
Inizio a sentire il peso del mondo tutto sopra, che mi schiaccia e non riesco a reggerlo e le sedute dallo psicanalista non bastano per calmarmi. E allora ecco di nuovo 'Alprazolam'. Di nuovo le dita in gola e l'anoressia ad impossessarsi di me come un demonio.
L'anoressia non fa sconti. Non lascia spazio alla vita. È in grado solo di toglierla in ogni chilo che ruba e porta via con sé.
Non ha pietà, è tenace e violenta. È una mela divisa in pezzi minuscoli. È acqua che sazia e gonfia ma in realtà sfinisce. È uno specchio distorto dove dentro non ci sono più ragazze di sedici anni come me, ma solo fantasmi che aspettano qualcosa in nome di un ricordo scomodo. Di uno stupro ingiusto di un'anima vergine, incontaminata e pura come la neve appena scesa.
È per questo che non mi osservo più. Perché non trovo più nulla di me da vedere là dentro. Perché probabilmente non sono più quella che ero destinata ad essere.
Poi però guardo anche le altre, ascolto le loro storie e torno ad essere forte.
A sperare di potercela fare.
C'è Anna, per esempio, qualche stanza più in là, che continua a farsi tagli sulle braccia, da impeccabile autolesionista e ogni volta viene presa e riportata in clinica come me.
Le ho chiesto perché lo fa, anche se conosco a memoria ogni sua risposta, che è un po' la stessa per tutte qua dentro. Cambia il metodo ma non cambia il motivo. Ognuna vuole liberarsi di qualcosa di troppo brutto da ricordare come se, facendosi più male, fosse realmente possibile. E alla fine il gesto sbagliato diventa il gesto di cui si sente di non poter fare a meno. Per sovrastare il dolore più forte che urla dentro. Diventa un atto quasi involontario. Si mangia e si vomita. Si soffre e ci si ferisce per deviare l'attenzione verso una parte di carne viva. Si soffre e si vuole che qualcuno ci venga a salvare. Si vogliono continuamente mille attenzioni perché si sente di pretenderle, in nome di quelle carezze che un tempo ci sono state negate.
Diana è forte, dice che ce la posso fare ad uscirne e che mi aiuterà. In qualche modo mi starà sempre vicina e verrà ancora a farmi visita.
Io le dico che sicuramente ce la farò ma so che non è vero che lo penso. Mi racconto una bugia perché non riesco a fare altro.
Dice anche che soprattutto le mie poesie mi salveranno. Che scrivendole e raccontando il mio male in ognuna di esse, alla fine questo male si dissolverà.
“Aurora, scrivi, scrivi sempre e poi rileggi ad alta voce. Fidati delle tue parole e piano piano guarirai. Presto troverai anche tu la tua strada. Non mollare. Infondo tu sai perfettamente ciò che vuoi e non è certamente ciò che stai vivendo adesso”.
Diana non è fragile e la sua dieta non la annienterà. Lei non ha nessuna pena dietro, dentro al suo passato, me lo ha confessato dopo aver ascoltato la mia triste storia, quasi sentendosi in colpa per non essere come me. Come nessuna di noi. E allora ho capito che ha una sensibilità speciale e che se anche non potrà mai comprendermi né vivere nella mia stessa carne, non posso fare a meno di volerla al mio fianco, né tantomeno di volerle un gran bene. La stringo forte a me con gli occhi che si fanno umidi e piccoli, e glielo dico. Non lo so se ha ragione e se davvero un giorno guarirò ma è molto bello che una ragazza dolce e forte come lei, me lo faccia credere, con due occhi chiari pieni di speranza e due mani affusolate colme di carezze.
Se il destino l'ha condotta fino a me, sulla mia strada avvallata e piena di buche, sono certa che sarà per un valido motivo e come 'Il piccolo principe' presto voglio alzare la testa al cielo e ricominciare a guardare le stelle.
Voglio tornare a sentirmi viva, speciale, amata. Lo voglio è tutto quello che riesco a dire adesso, in questo preciso momento. Accanto a lei che mi tiene la mano. Lo voglio che è molto diverso da lo vorrei ed è magari già un primo atto di coraggio, un piccolo passo verso la felicità.