Oltre

Dove sono?… è buio, troppo buio qui… Ho tanto freddo…cos'è questo posto?… E' stretto, piccolo… Non posso muovermi… non riesco a fare un passo… Aria… non c'è aria!.. non riesco a respirare… E'… è una cassa di legno… una specie… di bara! Mio Dio sono stato sepolto! Ma io sono vivo! Mi hanno sepolto vivo!… Non… non si apre… non si muove niente… Aiuto! Aiuto… aiu… Ah…‐
Si svegliò con un grido, grondante di sudore freddo, sconvolto. Man mano che il respiro tornava regolare realizzò di essere a casa, nel suo letto. Guardò la sveglia: le quattro. ‐Cinque‐ pensò, ‐sarà la quinta volta che faccio lo stesso sogno, lo stesso incubo.
Andò in bagno. Data l'ora certamente non sarebbe riuscito a riprendere sonno. Mentre si bagnava il viso con acqua fredda si guardò allo specchio. ‐ Cinque volte e sempre lo stesso sogno, la stessa scena, le stesse parole… Che significa?… Dev'essere lo stress, lavoro troppo e dormo male. Dovrò decidermi ad andare dal medico, non è normale ‐
Cercava di non ammetterlo a se stesso, ma c'era qualcosa in quel sogno di così realistico da gelargli il sangue. Ma come tutti i sogni, anche questo si disperse, frammentandosi e sciogliendosi tra il traffico del centro, i dati sul monitor del pc, i fax e le mail. Nei momenti in cui ci ripensava provava, però, la sensazione che la storia non fosse affatto finita e che lo strano incubo si sarebbe ripetuto.
Da quella notte in poi decise di tenere un taccuino sul comodino, per annotare ogni particolare del sogno nel caso si fosse ancora verificato. E qualche tempo dopo, il sogno tornò, mutato nella forma ma non nella sostanza: si trovava in aperta campagna e alla luce di un sole mattutino vedeva uno sconosciuto vestito di nero attraversare un prato. Lo sconosciuto camminava in silenzio ma ogni suo gesto, ogni suo passo esprimeva una pesantezza dolorosa, una tristezza opprimente.
Non riusciva a scorgerne il volto ma qualcosa di indefinibile nell'insieme della sua persona lo rendeva orribilmente familiare. Giunto vicino ad una grande quercia, lo sconosciuto posava dei fiori sull'erba, si sdraiava e dopo essersi appoggiato i fiori sul petto, assumeva una posa mortuaria.
A quel punto la strana foschia intorno a quel volto spariva… ed era come guardarsi allo specchio! Il misterioso sosia mormorava con voce flebile alcune parole di cui non si capiva che ‐ aiutami… ti prego ‐. Poi chiudeva gli occhi e spirava…
Si svegliò. La sveglia segnava le cinque e mezza. Ricordava ogni particolare e dopo averne preso nota si mise a rifletterci su. Non conosceva il posto, ammesso che esistesse, ma un morto con la sua faccia che gli chiedeva aiuto… Decisamente lavorava troppo. L'aveva sempre detto che il troppo lavoro avrebbe finito con l'ucciderlo. Quel sogno doveva essere una specie di avvertimento, il consiglio di staccare un po' la spina. E di farlo prima possibile.
Mise un po' di roba in una borsa, andò in stazione, acquistò un biglietto chilometrico e montò sul primo treno che gli capitò a tiro, senza neanche sapere dove sarebbe arrivato. Abituato com'era a dover programmare tutto, pensava che il miglior modo di spezzare il ritmo fosse quello di non sapere nulla e di prendere quella strana vacanza improvvisata così come sarebbe venuta.
Non c'era molta gente nella sua carrozza e il battere cadenzato del treno sulle rotaie lo cullò a tal punto che si assopì. E sognò. Si trovava sul treno e dal finestrino vedeva in lontananza lo sconosciuto in nero in mezzo ad un prato vicino ad una grande quercia, e quello guardava nella sua direzione, come se in qualche modo lo stesse chiamando ed aspettando.
Il fischio del treno dentro una galleria lo svegliò, si stropicciò gli occhi e guardò fuori, alla luce del sole appena sorto. Un grande prato verde con al centro un'enorme quercia gli scorreva davanti.
Credette di sognare ancora, sbatté le palpebre più volte per accertarsi di essere sveglio.
Il treno bruscamente iniziò a rallentare, c'era una piccola stazione lì vicino. Meccanicamente, come un automa, per non darsi il tempo di pensare se quel che stava facendo fosse stupido o meno, scese dal treno e si avviò verso quel prato. Per qualche ragione qualcosa lo aveva chiamato in quel posto, in quel prato, accanto alla grande quercia. Non voleva sapere altro. Non voleva credere altro.
S'inginocchiò vicino al grande albero, buttò via la giacca e cominciò a togliere prima pugni di terra, poi manate, infine bracciate, sempre più ampie, sempre più in profondità, come in trance. S'imbrattò le mani, le braccia, la faccia, gocce di sudore cominciarono a cadere dalla sua fronte dentro la buca che stava allargandosi sotto di lui.
Di colpo si fermò. Dal terreno spuntava lo spigolo di una cassa di legno, di quelle fatte in casa con assi, chiodi e martello. A fatica, la dissotterrò. Era quasi certo del contenuto e, tremando, cercò di aprirla. I chiodi arrugginiti dentro il legno marcio non resistettero a lungo e la luce del mattino illuminò uno scheletro in abito nero: l'impugnatura di uno stiletto, forse un vecchio tagliacarte, spiccava tra le costole, dove un tempo aveva dovuto esserci il cuore. Una strana tristezza gli fece estrarre la lama arrugginita da quei poveri resti.
Tornò in stazione tutto sporco di terra e si diede una ripulita con l'acqua della fontanella che trovò sotto il portico. Vedendolo in quello stato, il capostazione gli chiese se avesse bisogno d'aiuto. ‐ Mandate un prete e un necroforo alla grande quercia, laggiù, nel prato grande ‐ fu la sua risposta. Il capostazione non capì, si vedeva dalla sua espressione, ma disse ugualmente che lo avrebbe fatto.
Il bigliettaio lo svegliò dal pesante sonno in cui era sprofondato. Era sul treno e dal finestrino vedeva il paesaggio scorrere via. Si chiese se non avesse sognato tutto per l'ennesima volta.
Con la coda dell'occhio, per un attimo, gli parve di vedere, lontano, in mezzo alla campagna, una figura in nero che salutava con la mano alzata.
Di scatto fece per aprire il finestrino, ma, alzandosi, qualcosa lo punse alla coscia. Lentamente, con mano tremante, dalla tasca dei pantaloni estrasse un vecchio tagliacarte arrugginito.