Orrore di carie

Il Cittadino da qualche giorno soffre di mal di denti. Prima di cadere nelle grinfie del dentista tenta cure tradizionali per alleviare il dolore. Impacchi d’erbe, fagotti alieni, sorsate d’aceto e quant’altro la medicina folcloristica offre come pseudo rimedio. Presto sorgono nuovi osceni spasimi.

Il buon lavoratore si convince di andare dal dentista dopo una settimana a letto in stato terminale. Sfoglia un vecchio elenco logoro risalente ai primi anni del novecento e trova l’indirizzo del medico curante: Dr. Vincenzo Draculio, via Transilvania 666. Nel tardo pomeriggio di un lunedì di ferie il Cittadino inforca la bicicletta per una passeggiata salutare e muove verso la periferia a est. La città è collegata ai quartieri esterni esclusivamente da vie boschive e fluviali. Il fango regna sovrano lungo queste contrade. Il buon padre di famiglia si accorge che il sole sta calando in anticipo nonostante sia estate. Alle sei è già notte fonda. Pedalando con la vigoria di un bimbo su un triciclo percorre il paludoso sentiero divenuto di colpo inospitale e freddo. Alcuni brutti ceffi appollaiati su delle staccionate lo minacciano con sguardi idioti. Con una virata degna del miglior skipper evita l’incontro molesto con gli sgherri e imbocca una stradina ombrosa. Scivola in una pozza profonda due metri. Completamente zuppo d’acqua e melma torna in sella imprecando contro tutti i santi del paradiso.

La luna alle sette è già al centro del cielo, fiera e luminosissima. Il Cittadino si ora è inoltrato in un bosco fitto e oscuro. In lontananza lampi e fulmini rischiarano il cielo stellato illuminando le guglie e le merlature di un vecchio maniero arroccato. Un prolungato ululato si disperde dalle alture lontane verso la macchia. Le fronde degli alberi stormiscono sotto il soffio di venti notturni.

Centrata l’ennesima buca la ruota anteriore della bicicletta esplode come una supernova. Un raggio del cerchione schizza impazzito sfiorando la giugulare del buon lavoratore, in preda a una delle tante crisi disperate. Ma il fato, per una volta, è dalla sua parte. Qualche metro più avanti, sul limitare della sentiero, è posteggiata una vecchia carrozza d’epoca. Un tizio con una vecchia tuba gli fa cenno di avvicinarsi. Due possenti cavalli neri come la notte trainano il veicolo. Gli occhi rosso brace. Lo strambo cocchiere, un omino smunto dal naso aquilino e ingobbito dall’età, gli da il benvenuto. Il buon lavoratore sale a bordo circospetto. Una strana inquietudine lo avvolge. Sedili in pelle e stoffe di foggia antica ornano il sinistro abitacolo. Dal fitto della selva si diffondono versi spaventevoli. Lungo il tragitto verso il castello il Cittadino trema di freddo. E’ agosto, ma a giudicare da alcuni cumuli di neve intorno fa parecchio freddo. Un’infinità di montagne stringono la valle in un morso spietato. Il cocchiere ride di gusto al cospetto di un uomo appeso a testa in giù, con del filo interdentale, ai rami di un larice. La carrozza supera uno scricchiolante ponte in legno a strapiombo su un orrido bestiale. Il buon lavoratore, stordito dalla paura, recita a memoria alcuni versi della Bibbia che non credeva di conoscere. Belzebù si affaccia dal torrione nord del castello proiettando una lingua di fuoco. L’ultima rampa che sale verso il maniero è stretta e accidentata. Ai lati l’abisso dei Carpazi. Stormi di pipistrelli vampiro volteggiano famelici sulle alte merlature. Gargoyles, angeli delle tenebre, si stagliano sopra le colonne del cancello d’ingresso avvolto nella nebbia. La carrozza si ferma davanti al gigantesco portone ligneo. Il Cittadino scende in fretta dal dannato veicolo che si perde fiammeggiando nella notte. Una logora e arrugginita catena è legata a un campanaccio riottoso. Sollevando polvere e detriti il vecchio portone si spalanca di qualche grado. Un fascio di luce si irradia dall’interno. Una figura bassa e incurvata si delinea all’ingresso. L’inserviente, una sorta di portinaio, dice di chiamarsi Igor come il buffo personaggio di Marty Feldman in “Frankenstein Junior”. Con passi piccoli e veloci la goffa figura accompagna il buon padre di famiglia all’interno del tetro antro. Affreschi angoscianti ornano le pareti spoglie di qualsiasi mobilia. Impugnando una torcia medioevale e armato di balestra il Cittadino prosegue per labirintici corridoi fino a giungere nella sala d’attesa. Una segretaria giovane e agghindata come una dama del seicento lo invita a aspettare il suo turno. Al buon lavoratore pare di scorgere prominenti canini bramosi di sangue.

L’attesa è spasmodica. Quattro ore di estenuante lettura di rotocalchi e squallide riviste di gossip. Alla mezzanotte le pendole del maniero rintoccano. Il Cittadino è chiamato al suo destino. Accompagnato da un cavaliere fantasma dell’anno Mille si dirige verso lo studio del Dottor Draculio. Attraversano un passaggio umido sovrastato da volte in pietra in cui si annidano ragni e strani esemplari di vita animale. Rumori metallici, stridio di catene e lamenti si propagano nell’oscurità della grotta. Un pipistrello vola sfrecciando sopra le loro teste. Il buon lavoratore deglutisce a fatica. Superato l’ultimo angolo, il fantasma sparisce dietro una parete. Una stanza illuminata da fuochi e torce fluttuanti compare d’improvviso. Un signore attempato, altezzoso e sicuro di sé lo invita nell’antro. Un lungo pastrano copre le sue spalle appuntite. Rivoli di sangue color cremisi scorrono come minuti torrenti lungo il selciato dello studio. File di bare sostituiscono le comode poltrone da lavoro. Candelabri e fiaccole irradiano la nebbiosa stanza. Il Dottor Draculio, dopo averlo fatto accomodare con fare viscido, prende ad armeggiare nella bocca del Cittadino. Strumenti rudimentali, trapani smussati e pinze da boia dell’inquisizione compongono la ferraglia usata. In una sofferenza atroce, il bieco dottore scopre e cura una quantità industriale di carie; la metà scoperte per l’occasione. Dopo tre ore di morte apparente, il buon lavoratore torna a respirare l’aria greve della grotta. Draculio è celato nell’ombra di un angolo. Si frega le mani leccandosi tracce si sangue che scivolano ai lati della bocca. Il Cittadino si massaggia il collo intorpidito. Due piccoli fori sull’arteria carotide. Stordito dalle operazioni sfugge dal pazzoide dottore e percorre il corridoio buio a ritroso, tornando nella hall. Becca la segretaria mentre sorseggia una densa bevanda vermiglia. Con ansia e timore chiede il conto. Una cifra astronomica. Vorrebbe morire, ma non ha abbastanza energie. Firma un assegno direttamente con il sangue rappreso del collo. La segretaria lecca la carta con sensualità e gusto. Il buon padre di famiglia rabbrividisce. Ostentando una sicurezza e una fermezza d’animo degna del più pavido prelato di campagna abbandona il lugubre castello dell’insigne dottore conte di Valacchia.

Dopo una pazza corsa nel bosco, il Cittadino torna a casa insanguinato, sporco di fango, dilapidato dei propri averi e con più carie di un venditore di caramelle. Il sole è alto in cielo; prima di prepararsi per andare a lavoro si fa il segno della croce. Ha una strano bisogno di sangue e l’odore di aglio, sempre amato, ora lo disgusta.