Paris, Paris!

Come poter scrivere di Parigi senza cadere nella tentazione di ricordare le ore trascorse con te.
“Chi non ama, non dovrebbe mai parlare di questa città” – Sono parole di  Anna Maria Ortese nel “Mormorio di Parigi”. Le ho cercate nella mia biblioteca per trarne la forza a superare quel pudore che mi possiede quando ti penso. La mia incertezza è riconoscere il limite del mio amore tra te e questa città.
Parigi dietro di te, come un fondale di una rappresentazione, Parigi che ti racchiude, Parigi nel tuo accento musicale, nel tuo vestire, nel tuo venirmi incontro sorridendomi.
Gli anni sono trascorsi, eppure ti riscopro in una realtà sconcertante ad ogni mio ritorno. Forse perché i ricordi hanno la dimensione del reale sino a quando siamo disposti ad accettarli come tali.
Vacanze di Natale all’Università. Una notte di viaggio da Marsiglia a Parigi con tuo padre che guidava il camioncino Peugeot. Tutti e tre davanti. Tu  tra me e lui. La nazionale n.7 allagata; i fari scavavano cunicoli di luce nel buio. Sapevi ignorare la presenza di tuo padre in una maniera che mi metteva a disagio. Il contatto delle tue labbra sulla mia guancia.
Tuo padre ci lasciò a Place Vendome nella solitudine dell’alba. Ad una traversa di Rue de la Paix, il profumo del pane appena sfornato. Il sapore di quei bocconi, intensi come ostie tra una parola, un sorriso, un tuo gesto.
La città si svegliava lentamente. Un crescendo di rumori, di luce, di movimento ci avvolse.
La salita a  Monmartre con il sole che forava le nubi e si rifletteva sulle bianche cupole del Sacrè‐Coeur. Ci fermammo sui gradini della chiesa con altri studenti americani. Cantammo con loro. Io nascondevo le mie note stonate al riparo del tuo canto. Iniziò a piovere e tu pretendesti di farti ritrarre ugualmente, al riparo di  un ombrello, da uno studente giapponese. Quelle tracce di pioggia sulla carta, con un tuo appunto a matita: “Autoritratto della pioggia”!
Ci rifugiammo al Lapin Agile, la cave dei grandi della Belle‐Epoque. Pranzammo in un angolo, quasi buio, al lume di una candela. I tuoi occhi. Le tue parole d’amore, trascritte in qualche grumo di cellule, mi tengono compagnia negli anni. La certezza di ciò che è stato è un approdo più accessibile.
Alla stazione del metrò a Pigalle, incontrammo un tuo amico, violinista. Arrotondava l’assegno del padre suonando per i passanti. Il tuo abbraccio, troppo caldo, urtò la mia gelosia.
Poi, l’attraversata di Parigi a passo svelto, in lotta con il tempo: tuo padre ci avrebbe ripreso a sera. L’Etoile, un gorgo di vita che si placa nei larghi viali degli Champs‐Elysèes. Place de la Concorde, l’immensità disegnata in una città. Ti indicai il posto dove era stata eretta la ghigliottina. Immaginammo lo scivolare freddo della lama, il suo lampo, seduti sui gradini di una fontana barocca.
Giungemmo a Place des Voges che c’era una grande luna. Un unico blocco di edifici, un quadrilatero di portici  che racchiude un verde giardino. Si respira il tempo del Re Sole con le due serie di mansarde di ardesia illuminate da tenui luci.
Quella panchina freddissima. Solo noi. Io nel tuo cappotto che mi avevi aperto sulle spalle ospitandomi vicino a te. La sensazione di una centralità non solo di posizione ma anche spirituale: la solitudine dell’unicità irrepetibile di un attimo breve come un sentimento d’amore.