Prima classe, polvere, fango

Aveva le mani così curate che mi vergognai subito delle mie. Ma poco importava, perché lui era uno di quelli che se ti degnano di uno sguardo, nemmeno te ne accorgi. Ripresi a leggere:

''i muratori cantano,
cantando sembra più facile.
Ma tirar su un edificio
non è cantare una canzone,
è una faccenda molto più seria.''

Non fa certo il muratore con quelle mani da signore mentre legge il suo libro e prende a sorsi eleganti il suo caffè lungo. Ha scelto di sedersi al mio tavolo: una ragazza non abbastanza carina da attirare troppe attenzioni, che legge con tono anonimo, il classico tipo silenzioso che non disturba e non fa domande.

''Il cuore dei muratori
è come una piazza in festa;
c'è un vocìo,
canzoni e risa.
Ma un cantiere non è una piazza in festa
c'è polvere e terra,
fango e neve.''

Avranno mai visto il fango i suoi figli? I figli di un uomo che al bar della stazione poggia sul tavolo un biglietto di prima classe. Freccia bianca a Milano, a Milano non c'è fango. C'è tanta polvere, di quelle che non si vedono, di quelle che si insinuano nei corpi delle persone, di quelle che si trasformano in tumori.

''Spesso le mani sanguinano,
il pane non è sempre fresco,
al posto del tè c'è acqua,
qualche volta manca lo zucchero''

Glielo vorrei chiedere, gli vorrei chiedere se ha mai fatto assaggiare il pane secco ai suoi figli: bisognerebbe intingerlo nell'acqua finché non diventa morbido e poi bisognerebbe cospargerlo di zucchero. ''Délicatesse'' lo chiamavamo noi, con i piedi sporchi di fango, le mani lavate e con il nostro pane tra le mani mentre ci rincorrevamo a cercare le lucertole nascoste dietro ai muri e dietro a noi ci rincorrevano le voci urlanti delle nonne. ''Sedetevi a mangiare!'', gridavano.  E noi ci sedevamo dove capitava, tanto non c'erano macchine che potevano investirci, soltanto cavalli che, se passavano, mangiavano il nostro pezzo di pane così che gli altri potessero burlarsi di noi. A qualche vecchietta faceva pena chi rimaneva senza merenda. E allora tornava a casa e copriva una fetta di pane fresco con del burro sopra il quale ci metteva del miele e così, lo sfortunato, diventava il Re della merenda.

''Posso sedermi?'' chiese un barbone, puzzava ma non troppo e aveva un vassoio di resti con sé. ''Certo'', risposi. Guardai il signore Aveva le mani così curate che mi vergognai subito delle mie. Ma poco importava, perché lui era uno di quelli che se ti degnano di uno sguardo, nemmeno te ne accorgi. Ripresi a leggere:

''i muratori cantano,
cantando sembra più facile.
Ma tirar su un edificio
non è cantare una canzone,
è una faccenda molto più seria.''

Non fa certo il muratore con quelle mani da signore mentre legge il suo libro e prende a sorsi eleganti il suo caffè lungo. Ha scelto di sedersi al mio tavolo: una ragazza non abbastanza carina da attirare troppe attenzioni, che legge con tono anonimo, il classico tipo silenzioso che non disturba e non fa domande.

''Il cuore dei muratori
è come una piazza in festa;
c'è un vocìo,
canzoni e risa.
Ma un cantiere non è una piazza in festa
c'è polvere e terra,
fango e neve.''

Avranno mai visto il fango i suoi figli? I figli di un uomo che al bar della stazione poggia sul tavolo un biglietto di prima classe. Freccia bianca a Milano, a Milano non c'è fango. C'è tanta polvere, di quelle che non si vedono, di quelle che si insinuano nei corpi delle persone, di quelle che si trasformano in tumori.

''Spesso le mani sanguinano,
il pane non è sempre fresco,
al posto del tè c'è acqua,
qualche volta manca lo zucchero''

Glielo vorrei chiedere, gli vorrei chiedere se ha mai fatto assaggiare il pane secco ai suoi figli: bisognerebbe intingerlo nell'acqua finché non diventa morbido e poi bisognerebbe cospargerlo di zucchero. ''Délicatesse'' lo chiamavamo noi, con i piedi sporchi di fango, le mani lavate e con il nostro pane tra le mani mentre ci rincorrevamo a cercare le lucertole nascoste dietro ai muri e dietro a noi ci rincorrevano le voci urlanti delle nonne. ''Sedetevi a mangiare!'', gridavano.  E noi ci sedevamo dove capitava, tanto non c'erano macchine che potevano investirci, soltanto cavalli che, se passavano, mangiavano il nostro pezzo di pane così che gli altri potessero burlarsi di noi. A qualche vecchietta faceva pena chi rimaneva senza merenda. E allora tornava a casa e copriva una fetta di pane fresco con del burro sopra il quale ci metteva del miele e così, lo sfortunato, diventava il Re della merenda.

''Posso sedermi?'' chiese un barbone, puzzava ma non troppo e aveva un vassoio di resti con sé. ''Certo'', risposi. Guardai il signore dalle unghie pulite che mi ricambiò con sguardo critico, si alzò dalla sedia, ma lasciò il libro sul tavolo. Leggeva Hikmet, leggeva Hikmet anche lui. Tornò al tavolo qualche minuto dopo con una bottiglietta d'acqua e una focaccia calda tra le mani che appoggiò sul tavolo, di fronte al barbone. ''Oggi offro io'', disse. E l'altro, con le unghie sporche e lunghe e con un sorriso gentile, rispose ''grazie'' e prese a mangiare.