Quando Batman sfidò Superman e...

Quando Batman sfidò Superman (e Lois stava a guardare)   3 Luglio 1978 Venezia La Signora Luisa  è seduta sul divano di casa e guarda una parete. La guarda tutti i giorni per tutto il giorno.   20 Luglio 2001 Genova. Ore 15,50 Le urla fuori si fanno sempre più forti, oggi non si lavora, posso mettermi l’anima in pace, togliermi questi maledetti tacchi, farmi una doccia e dormire. Non sono stanca ma le urla diventano sempre più forti e se dormo non sento nulla.
Suonano alla porta.
Incurante di chi possa essere, apro.
Samuele entra come un fulmine ed è tutto sudato.
“Fuori c’è il delirio, non si può camminare, poliziotti e bande di ragazzi sembrano pronti per la rivolta. Potrei quasi dire che siamo in guerra.”
“Che vuoi?” Uso un tono duro e sbrigativo, ho voglia di mandarlo via.
“Oggi lavori?”
“No!”
“Ti Prego, ho fatto tanta strada per venire fino qui, non mandarmi indietro.”
Mi siedo, faccio un lungo sospiro.
Ora mi sento veramente stanca, le mani sono fredde eppure fa tanto caldo oggi, troppo caldo per lavorare.
“Non riesco a lavorare con tutto il casino che c’è fuori e poi fa caldo, torna un altro giorno.”
“Dai Mary non fare così, fai la gentile e io sarò gentile con te e tu sai quanto posso esserlo.”
Il vecchio Samuele fa per toccarmi ma io mi alzo di colpo, avanzo di un passo e lo guardo negli occhi.
Gli vorrei chiedere quanti anni ha, sicuramente non meno di 50, lui non mi ha mai chiesto quanti anni ho, meglio così gli direi una bugia.
Lo continuo a fissare, il mio corpo non è più così distante da lui.
Allungo le braccia e con scatto violento gli afferro i polsi, li stringo forte, tanto forte da sentirmi infiammata dalla stanchezza.
Lui fa una smorfia di dolore e il suo viso rugoso diventa ancora più vecchio.
“Samuele mi fai schifo!” Ecco cosa vorrei dire, ma è pur sempre un cliente e oggi si lavora come tutti gli altri giorni.
“Allora Mary? Cosa hai deciso?”
“Io non mi chiamo Mary” mormoro.
“Cosa?”
“Nulla.”
Fuori le grida aumentano, sono tante, sono di uomini e donne.
Dolcemente lascio i polsi di Samuele e mi inchino.
Slaccio la cintura dei pantaloni, poi sfilo le mutande fino alle ginocchia. Lui mi guarda come un bambino davanti a un regalo di natale, è eccitato, sta per scartare il suo regalo.
Io chiudo gli occhi e inizio a “pregare” come solo io so fare.
“Brava Mary, tu si che mi capisci sai cosa fare, brava continua così.”
Sono brava, me lo dicono tutti, che sono brava.
Finisco.
Samuele respira profondamente, ansima, avvicina la sua bocca alla mia.
“Fammi sentire che sapore hai!”
Mi bacia poi mi gira, mi prende per i fianchi e scopiamo.
Io non godo, non vedo l’ora che tutto questo finisca, il mio corpo è tramortito. Fuori ci sono ancora le urla.
Quando Samuele termina la sua opera, si riveste in fretta senza neanche pulirsi. Va verso la porta, ma prima di aprirla ritorna verso di me, prende il mio viso tra le mani e mi mordicchia il labbro inferiore.
“Sei la mia puttana preferita Mary, i soldi li lascio sopra la sedia vicino la porta, alla prossima.”
Si stacca di colpo e se ne va chiudendo la porta violentemente. Mentre la porta si chiude, riesco a malapena a sussurrare: “Io non mi chiamo Mary.”
Mi alzo a fatica. Milioni di brividi pervadono il mio corpo, anche se oggi fa tanto caldo.   Ore 16.30
Accendo la televisione sul canale 8. La solita annunciatrice del telegiornale locale buca lo schermo. Ora insolita. La ascolto. Riesco a seguirla poco, parla di una manifestazione. Sembra preoccupata. Io non sono preoccupata, vorrei solo non sentire più urla, mi danno noia.
Continuo a guardare la televisione, ma la mia concentrazione diminuisce fino a scomparire completamente e finalmente i miei occhi si chiudono. Mi addormento sul divano mentre la televisione continua ad andare avanti con le immagini.   Ore 17.14   I miei occhi si aprono. Il campanello suona. Ho dormito solo mezz’ora. Continua a suonare. Pigramente vado verso la porta.
“Chi è? ” chiedo assonnata.
“Ciao Mary, tu non mi conosci.”
La voce è di un uomo, mi ha chiamato Mary e capisco cosa vuole.
“Allora se non mi conosci cosa sei venuto a fare?”
“Samuele mi ha detto che tu… tu… insomma sei brava e che sei anche buona con tutti, perché non mi apri così ti farò vedere come anch’io posso essere buono e carino…” Comincia a ridacchiare, l’uomo.
“No! Non ti apro non ti conosco e poi oggi non lavoro fa troppo caldo!”
“Non fare la difficile ti pagherò bene e poi si tratta di poco tempo tra un’ora devo essere a casa, perché è il compleanno di mia moglie e avrà preparato la solita torta di merda.”
“Vai da tua moglie allora, cosa vuoi da me?”
“Un pompino, niente di speciale, solo un pompino.”
“Chiedilo a tua moglie!”
“Muoviti! 50 Euro.” Il tono della voce diventa autoritario.
Tentenno ma poi apro.
“Ciao.” mi dice.  E’ un bell’uomo, alto, magro scuro di occhi e di capelli, chiaro di carnagione, intorno ai 40 anni.
Dopo qualche minuto sono inginocchiata davanti al suo membro e dopo qualche secondo il suo membro è dentro la mia bocca.
La televisione continua a trasmettere immagini, io continuo imperterrita nel mio lavoro.
Poi l’annunciatrice cambia tono di voce, sembra sconvolta: “Le tensioni tra polizia e i ragazzi per le strade, sono arrivate ormai al limite. Sono iniziate vere e propri scontri tra le due fazioni. C’è paura. Non si riesce a capire cosa stia effettivamente succedendo. Sembrano tutti impazziti.” L’annunciatrice riceve una telefonata in studio: “Scusate, la redazione”. Poi c’è un lungo silenzio.
All’improvviso l’uomo con un gesto violento si stacca da me, si piega su se stesso e gode, gettando un urlo soffocato. L’urlo dell’uomo si confonde con un altro che viene da fuori.
Mi giro lentamente verso la televisione  e avverto che l’annunciatrice è tesa, continua a parlare sottovoce al telefono, quasi per non farsi sentire, poi abbassa la cornetta. La donna indirizza il suo sguardo a tutti i suoi telespettatori: “ un ragazzo è morto durante la manifestazione” dice  con voce tremante. “Sembra che un carabiniere abbia sparato, non si riesce a capire se per legittima difesa o per altro, non si sa nulla di preciso. Genova è sconvolta.”
Io la guardo, non smetto mai di guardarla.
Poi sento una mano che mi accarezza la schiena. E’ lo sconosciuto.
“Ti ho sporcato il tappeto, scusa.” dice ansimando.
“Non fa nulla, poi  pulirò” il mio tono è freddo.
L’uomo si alza e si stende sul divano.
Mi domando perché non va via.   Ore 17.33   Non ho mai spento la televisione. Il mio orecchio è teso.
Non smetto mai di ascoltare.
L’annunciatrice continua.
“Ecco il  nostro inviato è in collegamento, allora che cosa succede, è morto un ragazzo? Mi senti?.Mi senti? Non si sente nulla deve essere saltato il collegamento. Ecco è arrivato un comunicato stampa Un manifestante è stato ucciso, sembrerebbe da un giovane carabiniere, un colpo di pistola, le circostanze devono ancora essere chiarite, la situazione è confusa, l’unica cosa certa è che un ragazzo è morto.”
Mi concentro sempre di più sulle parole della donna.
La mia mente gracchia, fino a scaldarsi. Sembra o non sembra che sia successo qualcosa? Un ragazzo uccide un altro ragazzo. Forse. Peccato.
Un uomo morto giace da qualche parte. Adesso qualcuno scenderà da un mondo improbabile a dirgli che non esiste più, che beffa.
E sì! Peccato.
Poi un rumore mi riporta alla realtà.
Lo sconosciuto steso sul mio divano si alza e va in bagno.
Quando torna mi porge dei soldi.
“Mary questi sono per te, adesso vai a lavarti. Puzzi!”
Non rispondo.
Fuori non sento più grida, adesso ho paura, quando dopo tante grida c’è silenzio significa che da qualche parte qualcuno piange.
E io lo so bene.
Intanto l’uomo va verso la porta.
“Ci vediamo Mary, alla prossima.”
Ma mentre sta per uscire, grido con tutto il fiato che ho in corpo: “Io non mi chiamo, Mary…io sono Melania.”   17 maggio 1984   “Melania alzati in piedi. Allora ragazzi, Melania è la vincitrice della poesia più bella della classe per questo mese.”
Io sono seduta, accanto me il banco è vuoto.
“Adesso il  tuo compagno Davide leggerà a tutti la poesia.”
La maestra mi guarda e mi strizza l’occhio.
“Bene comincia pure Davide.”
Il mio compagno di classe si alza e a piccoli passi va verso la cattedra. La maestra gli porge il foglio.
Davide si schiarisce la voce e comincia.
“Anche oggi mia madre mi ha tirato giù
che noia
a me piace stare su ci sono tutti i miei amichetti
e c’è anche il mio principe
io lo so perché mia mamma mi tira sempre giù
lei è invidiosa piange sempre
non ha mai trovato il suo principe
ma io sì
domani mi porterà la scarpetta il mio principe
e così ci sposeremo
e io non piangerò
come mia mamma”   Mentre la lettura va avanti la maestra viene verso di me, mi siede accanto e si avvicina al mio orecchio fino a sfiorarlo e mi sussurra:
“Dopo la scuola, corri a casa più veloce che puoi, vai da tua madre e dille che oggi sei stata la più brava della classe, vedrai sarà contenta.”
Quel giorno, dopo la scuola, io corro verso casa senza mai fermarmi.   17 maggio 1984   Mia madre guarda la parete. La stessa parete che guarda tutti i giorni per tutto il giorno.
Le dico ad alta voce del mio trionfo scolastico ma lei continua a fissare la parete, non mi sente.
Alzo la voce, la alzo sempre di più, fino a strillare. Nulla. Comincio a tremare e i miei occhi diventano deboli.
Trattengo le lacrime.
Sto zitta.
C’è silenzio.
Non trattengo più.
Piango.
Mamma si gira,  mi tende le braccia e io mi avvicino.
“Ti voglio bene” mi dice con voce strozzata.
“Anch’io ti voglio bene mamma.” Rispondo singhiozzando.