Quando la memoria...

..” come accade solitamente alla memoria di certe persone anziane che, essendo sul punto di perderla definitivamente, ricordano con maggior chiarezza un pomeriggio della loro infanzia piuttosto che eventi di poche ore addietro.” JAVIER CERCAS
La riflessione di Cercas ribadisce un concetto fisiologico già noto. Da buon anziano, mi stupiscono, in verità, la qualità, il luogo e il tempo di ciò che la nostra mente ha deciso di salvare nella categoria ricordi. Perché quel giorno e non quello successivo? O meglio, perché quella manciata di attimi e non l’intera sequenza. Chi ha deciso per noi, per la salvezza di quei fotogrammi, correlati da fini particolari sensoriali? Quale magia incartò per sempre, come fossero un dono prezioso, da conservare, frammenti di una giornata qualsiasi, o particolari di un oggetto? Una biblioteca sconvolta dalle regole dell’ordine e della coerenza, il locus della nostra memoria. Si sovrappongono a caso immagini, suoni, profumi, sentori, oggetti, volti, luci. Provo a entrarci e a estrarre a caso:
Farò stupire gli psicologi, ma io ricordo perfettamente, in forma, consistenza, profumo e sapore, il mio unico ciucciotto di gomma, perché credo di averne posseduto uno solo, abbastanza per quei tempi di guerra. Se il ricordo permane con chiarezza, forse è dovuto al fatto che mi fu ignobilmente sottratto, a forza, il primo giorno di scuola!
Il fiato di nonno Angelo, nel cui letto mi rifugiavo, per farmi raccontare le favole, nelle fredde e lunghe sere del dopoguerra. Una nuvola odorosa, aspra, che faceva da sfondo alle atmosfere fatate in cui m’immergevo. Lo sfavillio dell’oro della montatura dei suoi occhiali, mi abbagliava, riflettendo la luce della lampada del comodino.
Il profumo della viola, quel pomeriggio di primavera, sul pendio erboso, antistante Villa Adela. Zia Maria mi creò, sotto una foglia di faggio, il miracolo della viola. C’è ancora in me, quel profumo unico di quel giorno, mai più ritrovato nelle viole di serra.
La catenina d’argento, al collo di un ufficiale tedesco delle SS, che mi sta tenendo in braccio. Vedo la catenina, ma non il suo volto. Quale preferenza di bimbo! Mi resta la sensazione della sua presa forte sul mio corpo.
Il fragore delle bombe sul ponte dello Scrivia; la vetrata delle scale vola in frammenti su di noi.
L’odore del cerino acceso da nonna Olga, nel buio rifugio, di Via Rodi, durante i bombardamenti di Genova.
Quel ragazzo, che corre su per il viale di Villa Adela, verso mia madre: “ Hanno arrestato suo marito, dicono che è stato il gerarca fascista di Genova.”  L’urlo di mamma.
Il secchio con il mestolo di rame, appeso al muro, nella cucina dei fattori di Volpedo. L’uso parsimonioso dell’acqua.
Il tavolo della cucina, nero di migliaia di mosche. Papà che le scaccia fuori dalla finestra con un tovagliolo.
Il materasso con foglie di granturco: suoni rasposi e precari.
L’uccellino ferito a sassate, nella mano del contadino che me lo mostra.
La foglia, a ventaglio, della vite, punteggiata di verderame. La carta mancava e il mio sedere ricorda quel bruciore, per l’uso improprio che se ne faceva.
Lo sfebbrare a notte alta, in un bagno di sudore freddo. Il piacere dei panni asciutti e odorosi di bucato sulla pelle. La voce di mamma, rassicurante.
L’infermiera mi lega, dopo avermi fatto sedere ai bordi di un tavolo, due pesi di ferro alle caviglie. “ Così non ci prenderai a calci.” Il batuffolo di cloroformio sulla bocca. “ Respira, respira” mi ordina, ma io sto soffocando. Vedo cerchi colorati e i miei muscoli scoppiano nella difesa vana. Al risveglio, il sangue mi cola dalla bocca in un catino per terra.  “Le tue tonsille, le vedi?” La stessa voce.
Forse, a ben ripensarci gli anziani non sono colti da imbecillità col tempo. La loro ostinazione a non voler trattenere altri ricordi si spiega nella certezza che questi non potranno più servire nel loro breve futuro.