Quando muore la mamma

Quando muore la mamma e hai tredici anni non hai nessuna idea di quello che sta capitando. Ti guardi attorno e osservi, come da lontano, tutto quel via vai di persone, di saluti, di lacrime, di commenti a bassa voce. Guardi annichilita quel drappo nero incrociato a mo' di sipario, enorme, impressionante, pieno di frange argentate, appeso alla porta d'ingresso di casa tua. Anche perché tu non c'eri, la famiglia ti ha mandata a dormire altrove, sei piccola per farti affrontare il caos di una notte così. Sì, perché era notte. Anzi prima era sera, e mia madre era seduta in poltrona in un angolo della cucina e aveva mal di denti. Io continuavo ad andare avanti e indietro fra la sala e la cucina perché dovevo farle firmare un cinque in un compito in classe e non sapevo come fare a dirglielo. E poi il malore, la perdita di conoscenza, l'ambulanza e basta, tutto finito. Venni portata via e il giorno dopo quando tornai tutto era cambiato. Il passato era morto, la mia infanzia era morta, e con lei la mia preadolescenza. Niente sarebbe stato più come prima. Ma com'era prima? A tredici anni non si sa com'era prima e neppure come sarà dopo. A tredici anni ti infastidisce la carezza, l'abbraccio, di chiunque sia lì a compiangerti perché non hai più la mamma. A tredici anni sbuffi, rifiuti, vai a nasconderti lontano da tutta la gente senza sapere cosa vuoi cercare e dove vuoi cercarlo. Vuoi solo toglierti da dosso tutto l'appiccicume delle persone insistenti, il brusio delle preghiere che ognuno recita sottovoce per conto suo, la pietà, e anche il continuo ripetere del come è accaduto, quando è accaduto, perché è accaduto. Andai a sedermi sui gradini che davano nell'orto cercando un po' di solitudine, di quiete, ma adesso lo so, allora non lo sapevo. Cosa cercavo? Tutto lo sconvolgimento del mio essere non mi era chiaro, non lo sentivo, non sapevo cosa provare, non provavo nulla. Oppure? A tredici anni non si sa, e a un tratto il piacere di indossare un paio di calze grigio fumo di nylon, così da adulta, così giuste per abbellire le esili gambe di una ragazzina che stava crescendo, sembrava dovesse cancellare tutto il resto. La camera ardente era stata preparata in sala, tutti gli specchi coperti da drappi scuri, allora si usava il buffet e il controbuffet e c'erano specchi dappertutto. Mi madre era stata adagiata sul tavolo e l'unico libero da drappi era il pianoforte. Nel pomeriggio mi trovai non so come e perché sola con lei in sala. La guardavo con la mente vuota, assolutamente vuota, ma poi d'istinto sollevai il coperchio del pianoforte. Da poco avevo imparato il brano che a lei piaceva tanto: la Barcarola op.30 di Mendelssohn Così mi misi a suonare, ma subito arrivò un adulto, non ricordo chi, che mi sgridò severamente: come potevo suonare il piano in un momento del genere! Certo, come potevo suonare! Io volevo solo suonare per lei, non sapevo perché, ma sì mi convinsi che era sbagliato. A tredici anni mi convinsi che era sbagliato, oggi so che non era sbagliato. Quando muore la mamma e hai tredici anni ti abitui a non pronunciare più la parola "mamma", ma col passare del tempo ti ritrovi ogni tanto a pronunciarla sottovoce per sentirne il suono, per riprovare un'emozione lontana, sommersa in fondo al tuo essere, ma sempre così presente e consolante. Peccato, mamma, che tu te ne sia andata prima che io abbia potuto conoscerti e prima che tu abbia potuto raccontarmi chi eri.