Reporter di guerra

Vukovar è caduta con un rumore assordante nel cuore dell’inverno. Almeno tre eserciti e mille bande l’hanno strigliata con un pettine d’acciaio, aprendo, di cannone e di coltello, le case al vento del nuovo secolo, quello con l’atomica da taschino e l’odio nelle mani. Intanto, mentre i cani mordevano, era la neve che attutiva il fragore. Toccava avvicinarsi, allora, per sentirlo bene.
A noi della stampa internazionale è stato l’odore del sangue rappreso, inconfondibile, che ci ha attirato. Oltre noi italiani, c’erano degli spagnoli della televisione e poi francesi, inglesi, americani della black star, tedeschi. Tutti lupi, cronisti di ventura che il comando territoriale aveva autorizzato a raggiungere il fronte, concluse le operazioni militari nell’area. Ci spostavamo su un pulmino messo a disposizione da Bolic, il capobrigante che se ne stava in un ufficio di Belgrado, sotto un ritratto di Giorgio il Nero, a dirigere a distanza il suo privato orto da battaglia. Io, quasi un debuttante fra quei marpioni, facevo squadra con Pepe e Miguel, i due spagnoli, e con Paolo Monti, il fotografo con il quale ero partito da Trieste.
In città, nella spettrale città che abbiamo trovato, nessuno che non portasse un’arma aveva diritto, fosse pure sindaco o maestro di scuola. Portato dal fiume, il veleno di mezza Europa era arrivato fin là e aveva ingrassato l’odio fino a farlo ruggire, ruttare in faccia agli uomini. La città ne era sazia e ne inghiottiva ancora.
Un maggiore dell’armata federale ci ha accolto, era lui che recitava per i giornalisti. Ci disse di chiamarsi Jugovic, questo carrierista. Ci ha portato a spasso come scolari, prima dal preside, comandante della piazza, e poi in giro per le strade impossibili dove cento e uno cani rovistavano tra le macerie in competizione con gli uomini.
Era ansioso, il maggiore, si intuiva, d’istruirci sull’eroismo della sua gente. L’abbiamo fatto parlare e allora non l’ha più finita. Casa per casa, alla fine, avevano dovuto prenderla la città. Uno stillicidio di stupri certo più impegnativo, per il maschio, di quello unico, supremo, auspicato nella guerra post‐moderna. I difensori, cittadini e milizia, durante il bombardamento erano rimasti nascosti sottoterra, la pancia dove la città mercantile aduna le merci che la pace lasciava transitare il Danubio. Appena il cannone aveva abbassato la voce, erano usciti fuori tutti, gli uni a cercare scampo, gli altri vendetta. L’esercito federale, nascosto a sua volta dietro la bocca del cannone, aveva sciolto i mastini, gli irregolari, a spintoni l’aveva indirizzati verso le postazioni nemiche. Se n’erano viste di belle!… E poi anche di sorprendenti: i croati avevano saldato con la fiamma le porte e le finestre delle case sul vialone grande. Si dovette avanzare allo scoperto, arrangiarsi sotto la grandine con pianerottoli da niente. Si fu a un passo dalla disfatta!… Allora, il genio serbo ha avuto l’idea di passarci attraverso alle case, col plastico, d’attaccare la piazzaforte muovendo per il soggiorno e la camera da pranzo.
Ci raccontava tutto quello con un sorriso di condiscendenza Jugovic, voleva meravigliarci. Ci ha portati a vederle le case, e poi anche l’ospedale dove oramai non c’era più nessuno, fino a che non è stato il turno dei “testimoni”, poveri vecchi che sbiascicavano dolore filtrato dall’ufficio stampa.
Per noi, tutti free‐lance che dovevamo guadagnarci la pagnotta con l’inedito, il viaggio si dimostrava così una perdita secca. Abbiamo protestato, allora, ma non abbiamo ottenuto molto. Solo di stizzirlo e di poterci muovere a nostro piacimento in un raggio di trecento metri dal suo sguardo. Se n’è andata così l’intera giornata.
Il fotografo della Black Star, Alex Roots, a quel punto s’è fatto sentire. Stavamo per risalire sul pulmino. E’ andato verso il maggiore e gli ha urlato sul muso col suo inglese di New York che la questione non finiva lì, che non avremmo mancato, noi rappresentanti della grande stampa occidentale, di rimarcare l’ostruzionismo, la reticenza dell’autorità serba, che ci costringeva, nostro malgrado, a scrivere solo d’impressioni, impressioni che, il maggiore poteva esserne sicuro, non avrebbero giovato alla causa della Grande Serbia.
Per sua ulteriore informazione, gli ha garantito pure che lui, il maggiore, figurava già con nome e cognome sul suo taccuino, pronto per essere segnalato, tramite ambasciata, al Ministero della Guerra per la sua totale incompetenza.
Che abbia capito o no, il maggiore si è imbrunito parecchio. Ci ha salutato freddamente e poi è montato nella jeep per farci strada verso il ricovero che ci aveva promesso per la notte.
Ormai solo i fari strappavano alla tenebra delle porzioni di steppa rese uguali dalla neve. Il nostro autista, un montenegrino di Bar, seguiva le piccole luci del mezzo militare davanti a noi.
Adams, l’uomo Reuter nei Balcani, scherzava con Roots. Li sentivo parlottare e ridere entrambi alle mie spalle. Il mio inglese non era così buono da capire una conversazione di quel tipo. Mi volsi verso Paolo.
“Sta dicendo che gli dà sempre un particolare gusto cazziare un ufficiale, mi spiegò lui, ma – aggiunse ‐ credo che abbia voluto pure tastargli il polso. Non si sa mai che ne esca fuori qualcosa. Se non succede niente, a noi conviene lasciar perdere e tornare in Italia a cercarci un altro lavoro. Quanto abbiamo speso finora?
“Fra tutti e due circa un milione e mezzo.
“Possiamo già essere sicuri di andarci sotto, allora. Pepe e Miguel, con la televisione, non hanno da preoccuparsi. Dividono con noi le spese, ma non spartiscono mica i guadagni… Ci vorrebbe un colpo di fortuna, ma ci credo poco…".
Non risposi. Anche Roots ed Adams adesso avevano smesso di parlare.
La notte veniva su dall’orizzonte e sembravamo tutti star là ad aspettare che ci addormentasse, dopo averci rimboccato la sua coperta scura. L’immagine della morte, nascosta nel buio imminente, sotto un metro e mezzo di neve, esorcizzata finché il sole era stato con noi, prendeva il sopravvento e voleva silenzio.
Appena dopo il fiume, deviammo per una strada secondaria. Stanchi come eravamo, in piedi dalle cinque del mattino, ci saremmo accontentati di qualsiasi tipo di letto, purché al caldo. Ci aspettavamo comunque una qualche locanda presa in mezzo alla guerra in cui, per miracolo o calcolo, il fuoco fosse rimasto confinato dentro un caminetto senza traboccare e divorarla intera, oppure una scuola requisita. Insomma, tutto tranne quello.
In mezzo alla steppa, senza nessun tipo di avviso, c’era un hotel degno in tutto della catena Sheraton. Per quello che si riusciva ad intravedere nella bruma, era una struttura su di un solo livello, di vetro e legno, somigliante ad un centro benessere dei più eleganti, moderno e al tempo stesso integrato perfettamente nel paesaggio come un gigantesco chalet di lusso. Doveva, pensai, trattarsi di un centro termale. Nel parcheggio, proprio davanti all’ingresso, c’erano parcheggiate un paio di jeep bianche delle Nazioni Unite e poi anche delle auto private, degli scassoni di fabbricazione italiana e cecoslovacca. Appena ci arrestammo, due inservienti in maniche di camicia vennero per occuparsi dei bagagli, mentre il maggiore, fatto un cenno dal finestrino, fece manovra e tornò verso la città.
Nella hall, rivestita di legno chiaro e moquette, un portiere in divisa scura e mostrine amaranto ci accolse con un ottimo inglese. Ci disse che avevamo una prenotazione, tutte camere doppie con bagno. Se lo desideravamo potevano fare una doccia, in attesa che la cena fosse servita. Era il portiere, perfettamente in sintonia con l’apparizione e apparizione lui stesso.
Anziché con Paolo, capitai in stanza con Pepe. Per favorire l’affiatamento, visto che con loro, gli spagnoli, io e Paolo avremmo dovuto condividere anche il resto del viaggio.
Riposta l’attrezzatura fotografica, liberato dagli stivali fradici e fatta una doccia veloce, sono sceso di sotto, voglioso di rendermi meglio conto di dove eravamo capitati.
A parte il personale di servizio, solerte, numeroso e del tutto zitto, l’albergo era quasi deserto rispetto alla capienza. La gente delle Nazioni Unite, i proprietari delle jeep che avevamo visto arrivando, se ne stavano probabilmente rintanati nelle stanze, mentre in una piccola sala quattro uomini erano impegnati intorno ad un biliardo. Giocavano a snorkey e stetti un po’ a seguire la partita. Erano giornalisti della televisione di Stato jugoslava. Non erano un granché come giocatori, solo apparenza. Tiravano forte senza un motivo e quasi sempre contro gli spigoli delle buche. Due settimane dopo fecero scalpore, saltando tutti assieme su una mina indipendentista dalle parti di Knin.
Non c’erano solo loro lì, in bilico sul bordo della buca. Sui divani appoggiati alle pareti, dei ragazzi, dei soldati dell’Armata Federale in convalescenza chiacchieravano con parenti venuti là in visita, prima che li rispedissero al fronte, a provare a prendersi Osjiek. A loro ci si misero i francesi a fotografarli.
L’invitavano coi gesti e i versi, come si fa con i bambini piccoli, ad alzare l’indice e il medio e loro, i soldati, obbedivano ridendo. Anche i parenti sorridevano. La notte gelida premeva forte sulle grandi vetrate, ma non entrava per poterli ingannare meglio.
Mi sembrava, uscito dal salottino, di sentire una musica, del genere classico da camera che si ascolta nei programmi radio di filodiffusione. Seguitando ad avanzare verso la sala da pranzo, aumentava di volume la musica, e anche d’illogicità. Quando arrivai alla grande sala dei banchetti, vidi che era l’orchestra. Sei elementi che avevano appena attaccato con delle arie viennesi.
Erano già tutti lì i colleghi, seduti ad uno dei tavoli, impeccabilmente apparecchiato come gli altri, con una nutrita forza di camerieri addetti.
“Un saggio dell’ospitalità serba – mi ha detto Paolo mentre mi mettevo a sedere anch’io – Adams si starà pentendo di non essersi portato lo smoking…”.
“Si, ma dove sono le ragazze? – ho chiesto.
Con queste premesse, accompagnati dall’orchestrina, mangiammo e bevemmo bene. Prima una zuppa vegetale calda, poi goulash con carne, verza e peperoncini, il tutto innaffiato di vino rosso della Crimea. Non mancava niente per dirci in pace con il mondo. Un tedesco di cui non ricordo il nome, Gunther qualcosa mi pare, era un talento comico. Ci fece ridere imitando il maggiore cazziato da Roots. Stavamo attaccando il dolce, quando al nostro tavolo si presentò proprio lui, il maggiore.
Aveva il colletto della divisa slacciato e l’aria un po’ furtiva di uno che si trova dove non dovrebbe. Roots lo accolse chiedendogli se voleva una grappa. Il militare fece come non avesse sentito e si avvicinò ad Adams che lo osservava sorpreso con la forchetta a mezz’aria. Parlottarono a distanza molto ravvicinata e quindi io, che ero dalla parte opposta del tavolo, non sentii nulla. Poi, dopo aver salutato compitamente, il maggiore fece dietrofront e se ne andò.
“Che ha detto?, chiese Roots appena si fu allontanato.
“Eh!…
“Allora?”.
Adams guardò allusivo prima lui e poi tutti i presenti. “Dovrei non dirvi nulla…”. Poi divenne serio: “di là c’è un cetnik – scandì in un inglese pulito, una cortesia verso di noi – fa parte delle brigate che hanno preso la città, quelli che hanno fatto il lavoro sporco per conto dei federali. Sono stanziati in alcune cascine intorno a Borovo Selo e… hanno dei prigionieri. Dei condannati a morte. Il maggiore ha detto che ce li fanno vedere, fare tutte le foto che vogliamo…
“Chi sono questi condannati a morte? ‐ chiese Paolo.
“Non lo so, non l’ha detto. In ogni caso ci si va. Vieni tu, Alex, andiamo a sentire l’uomo”.
Tornarono dopo cinque minuti. L’accordo era che sarebbero venuti a prenderci l’indomani alle sette per scortarci fino al campo che distava pochi chilometri. Era stato il maggiore a combinare la cosa, ma dovevamo sapere che l’Armata Federale non si assumeva nessuna responsabilità.
Dissi a Paolo: “Bè…
“Il problema è che siamo in parecchi e i francesi hanno ottimi canali per vendere…".
All’epoca io non pensavo molto agli aspetti commerciali, cioè professionali. Avevo 24 anni, l’avventura mi sembrava più importante.
“Vedremo! – risposi.
Dopo poco andammo tutti a dormire. Ci aspettava un'altra giornata pesante e volevo recuperare un po’ d’energie. Stentavo però a prendere sonno. Pepe si era portata in camera una confezione da sei di birra slovacca. Ne stappammo così un paio, sorseggiandole a letto.
“Ah… mi Gordi…
“Perché la chiami così?”. Gordi era la ragazza di Pepe, non aveva fatto altro che invocarla durante quel viaggio.
“Gordi… gordita… è come dire in italiano cicciolina…, rise.
“E’ parecchio che la conosci?
“Due mesi. L’ho incontrata in un bar vicino l’Università. Ha vent’anni meno di me ed è quasi un mese che non la vedo… E tu?
“Io? Io niente. Niente donne. Nessuna in particolare, intendo.
Mentivo. Una c’era, ma non mi andava di parlarne.
“Pepe…
“Si?
Gli indicai un’altra birra, lui la stappò e me la porse.
“Pensi che abbiamo raccolto del buon materiale?
“Non lo so e sai, non me ne importa neanche. Troppo freddo e troppa guerra qui. E troppa poca birra, coño!… Paolo ci si muove como un pez en el agua, ma non è il mio genere questo.Sai come sono arrivato qui? Ignacio m’ha telefonato a Gran Canaria, stavo là a fare un reportage sul surf, chiedendomi se avevo lasciato le chiavi di casa mia a qualcuno. Claro, gli ho risposto, perché è successo qualcosa? No non ti preoccupare, m’ha detto, solo devi partire per la Jugoslavia, ti porto il cambio a Barrajas… Non sono potuto neanche passare per casa…
“That’s the press… ‐ dissi. ‐ T’aiuta anche con le ragazze, dì la verità….
“Coño!… Soy un periodista!…
“’Notte, Pepe.
“Noche…
Spensi la luce e m’avvoltolai nelle coperte. Cercavo d’immaginare che faccia avrebbero avuto degli uomini che sapevano di stare per morire. Se sarei stato capace di reggere il loro sguardo e descriverlo, e infine se descriverlo aveva un senso. Come ce l’ha, del resto, anche un qualunque gioco. Piacevolmente ubriaco, la mia mente se ne andava a zonzo nel futuro, quel futuro che ero convinto di avere a differenza di quegli uomini. E’ tutta là, in quello che puoi permetterti di pensare prima di addormentarti, lo spazio che si ha a disposizione per infilarci dentro i sogni, la nostra vera vita.
Puntuale, la mattina, il cetnico che doveva accompagnarci si presentò davanti all’ingresso. Aveva una regolare faccia da assassino e alla cintura portava un grosso coltello con l’impugnatura ricoperta di nastro adesivo, di quello che si usa per le racchette da tennis. C’intimò di sbrigarci perché aveva una guerra da combattere.
Il campo si trovava a venti minuti di strada. Si trattava di un gruppo di cascine sfollate dai contadini nei primi giorni della guerra. Zlatko Selic, il loro comandante, ci venne incontro sull’aia. Era un bel tipo dai tratti decisamente slavi, alto, con il volto scavato e gli occhi grigioazzurri. Dopo i convenevoli, andò subito al dunque. Diede ordine ai suoi di andare a prendere i prigionieri che tenevano chiusi nella stalla. “Franchi tiratori”, ci disse presentandoli.
Erano tre. Due intorno ai trent’anni, l’ultimo, più giovane, non arrivava ai venticinque. Avevano tutti il viso stanco e la barba non fatta e gli occhi erano enormi, spalancati in maniera innaturale, nonostante fosse evidente che dormivano pochissimo da parecchio tempo. Dopo un po’ capii che era a causa delle pupille, così dilatate dalla tensione da occupare quasi per intero l’iride, fino a diventare dei pozzi neri, senza fondo.
I miliziani li trattavano con grande confidenza, privi di ogni risentimento, parevano tutti compresi nella stessa fatalità. Quello più giovane, vedendoci, sorrise. Un vero e proprio sorriso amichevole, che si allargò quando capì che fra noi c’erano anche francesi e inglesi e soprattutto americani. L’Occidente che veniva a salvarlo. Disse anche qualcosa, ma fu zittito e allora rientrò tranquillo nei ranghi, senza però perdere quella nuova espressione. Gli altri due, più seri e stanchi, ci guardavano appena, distanti.
Chiedemmo a Selic se era possibile parlare con loro, ma il serbo scosse la testa. Potevamo riprenderli, fotografarli, ma niente interviste.
“Non hanno nulla da dire, spiegò.
Poi li fece portar via e con noi radunati là intorno, si schiarì la voce: “Questi uomini devono morire, – scandì – sono colpevoli di omicidio. Cecchini! La loro sorte è già stata decisa dal popolo serbo. La sentenza è in attesa d’esecuzione e sarò io a stabilire quando eseguirla. Questo potrebbe avvenire oggi stesso, alla vostra presenza. Sappiamo – la sua voce assunse una vena di disprezzo – che per voi giornalisti questo sarebbe un buon business. Noi siamo poveri e come vedete i miei uomini sono costretti a combattere con vecchie armi, mentre il nemico riceve aiuto dai vostri governi. Abbiamo bisogno di armi per combattere i fascisti croati. Per questi motivi vi chiediamo 5.000 dollari per assistere alle esecuzioni. Dovete rispondermi subito.”.
Ci fu un istante infinito di silenzio. Potevo ascoltare il vento scuotere gli alberi e la neve polverizzarsi cadendo a terra. La proposta era stata fatta, ma sembrava che nessuno avesse sentito.
Fu Adams a spezzare l’incantesimo. “Questa è una follia!… – gridò – e voi siete dei selvaggi! Signor capitano, o quello che diavolo siete, la risposta è no. Anche a nome dei miei colleghi. Giusto? – si rivolse verso di noi – Giusto, no?”.
Nessuno disse niente. Selic era impassibile, a braccia conserte ci passava in rassegna muovendo appena il collo da falco.
Paolo mi disse: “Togli l’obiettivo dalla macchina fotografica”. Lui già lo stava facendo.
“Perché?
“Così capiscono bene che l’articolo non c’interessa.
“Ma, glielo abbiamo detto…
“Lo so, ma se adesso gli viene l’ispirazione di metterli comunque al muro, qua in faccia a noi, io le foto le scatto lo stesso e poi toccherebbe discutere…
Tolsi anch’io l’obiettivo e me lo ficcai in tasca.
Selic rimase piantato là un altro minuto buono, poi si tolse e ci tolse dall’imbarazzo, salutando e rientrando nella cascina.
Ci si avvicinò Roots: ‐ Hai sentito che roba, Monti. M’è capitato una cosa uguale in Libano, ma lì volevano solo duemila dollari.
Pensai che non c’è nulla di più relativo e volubile del prezzo della vita umana, soggetta ai tempi, alle latitudini e all’andamento del dollaro.
““I francesi mi hanno chiesto se volevo fare a mezzi. L’ho mandati a fare in culo e gli ho detto che comunque da qua ce ne andavamo tutti insieme.
“Hai fatto bene.
“Già.
Tornammo a Belgrado quella mattina stessa e dopo una settimana rientrammo in Italia. Non riuscimmo a vendere abbastanza neppure da coprire le spese.
Pensavo un giorno si e uno no a cambiare lavoro, ma, invece, continuai con il giornalismo.
Un mese dopo ero a Madrid per un servizio su una ragazzina italiana scappata di casa per fare la torera. Ne approfittai per rivedere i vecchi amici. Miguel mi diede anche una mano presentandomi un allevatore di miura che forse poteva aiutarmi a rintracciare la toreadora. Sempre a lui chiesi notizie di Pepe.
“In questi giorni c’è una mostra organizzata da lui sulla guerra, mi ha detto.
Mi diede l’indirizzo. Stava in un teatro ricavato in una catacomba ed era patrocinata dall’ayuntamento. Sulla locandina era scritto Vukovar, la ciudad martire, por Josè Figueras. Dentro, in una sala circolare che odorava di muffa e cadaveri, avevano sistemato dei televisori che trasmettevano a ciclo continuo le immagini girate durante il nostro viaggio. Pepe, più bello che mai, stava in mezzo a un sacco di gente, soprattutto donne, che lo complimentavano. Me la squagliai con discrezione, senza farmi vedere.
Alla fine, la trovai pure la torera, e feci l’intervista. Viveva con un tizio che aveva trent’anni più di lei e ancora non aveva visto un toro.
Fu all’aeroporto, a Barrajas, che curiosando in un chiosco mentre aspettavo l’imbarco per tornare, vidi la rivista. Era un’importante rivista americana e dedicava la copertina alla guerra nei Balcani. A Morte!, diceva il titolo. Prometteva, nelle pagine interne, un reportage sull’esecuzione di alcuni soldati croati da parte dei serbi nei dintorni di Vukovar. La comprai per vedere le foto. Erano state pubblicate molto in piccolo. La didascalia spiegava che quella scelta grafica era stata fatta per “non urtare la sensibilità dei lettori”. Non erano firmate.